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Campagna per una guida responsabile dei conducenti dei mezzi pubblici

Decalogo del trasporto pubblico comporta l’educazione di ogni persona coinvolta nel viaggio e renderlo gradevole

1 La guida deve essere un momento di condivisione del tempo e del tragitto piacevole

2 La guida consapevole è responsabilità dell’incolumità di numerosi nostri simili

3 La guida consapevole non trasforma il mezzo pubblico in carro bestiame

4 La guida consapevole non deve prevedere partenze repentine

5 La guida consapevole non deve prevedere frenate brusche

6 La guida consapevole significa non rappresentare un pericolo per se e gli altri

7 La guida consapevole esclude la prepotenza nell’imporre la propria presenza sulle strade

8 La guida consapevole prevedere un comportamento altruistico

9 Una guida consapevole comporta la collaborazione anche del passeggero

10 Una guida consapevole è possibile grazie al comportamento corretto anche di ogni passeggero

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Lambando (e traballando) sul bus

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 Tram 8 L'OTTO NON SOLO UN TRAM web

Lambando (e traballando) sul bus

C’erano una volta, a Roma e non solo, mezzi pubblici spartani e rumorosi, ma anche quelli che usavano l’elettricità sferragliavano allegramente, con panche di legno o sedili in formica e plastica.

Al mattino non era difficile trovare quei mezzi ancora bagnati per l’energico trattamento di pulizia coi vetri che brillavano ai primi raggi del sole.

In quei lontani anni non sarebbe stata necessaria l’estrema cautela con la quale oggi si tende a prendere posto sui sedili, non rischiando di impataccarsi con sospetti untumi spalmati ovunque.

Oggi i glutei trovano la morbidezza delle poltrone ben imbottite, ma polverose e con un tessuto che non ha la consistenza per sopportare l’irruenza dei nostri giorni. I bus sono più veloci,ma dove mai può correre un tale mezzo nel traffico cittadino con una ripresa degna di essere utilizzata per scattare in pole position? Forse sono un ottimo test per mettere alla prova di tali improvvise sollecitazioni gambe e braccia di noi passeggeri. In fondo gli anziani dovrebbero essere grati di poter viaggiare, anche gratuitamente,su mezzi pubblici così tecnologicamente avanzati, non solo adatti per trasportarli da un luogo all’altro, ma anche per l’attività ginnica alla quale vengono forzatamente sottoposti.

Cosa c’è di meglio contro l’artrosi delle mani di un continuo, disperato articolare delle dita intorno agli appositi sostegni?

Un continuo accelera e frena, un’inutile esibizione di potenza di un motore Mercedes, ma forse un mezzo di trasporto pubblico dovrebbe avere delle caratteristiche diverse da un’auto di formula uno!

Del resto non tutti i conducenti esprimono le loro frustrate ambizioni da pilota sportivo in grugniti con il prossimo o tanto veloci e distratti da saltare una fermata o di abbreviare drasticamente la sosta. Altri autisti sono pazienti e cortesi, fanno scivolare il mezzo senza sobbalzi evitando le mille buche del flipper stradale, guidando con leggerezza i bestioni che trasportano l’umana varietà.

Esperti nello zigzagare tra le distrazioni del vigile che pure non coglie gli inverosimili parcheggi in doppia e tripla fila, essi portano alla sospirata destinazione migliaia di utenti soddisfatti, passeggeri che una volta tanto non trovano la necessità di esibire la loro atleticità nel rimanere saldamente avvinghiati ai sostegni di fortuna o in forbiti soliloqui di sopravvivenza urbana.

Perciò niente “pole dance” sui pali del bus e del tram, e più che “lambate” dei valzer, per giungere senza scossoni alla meta.

Solo Marinetti avrebbe potuto dare un senso poetico al turbinoso condurre del mezzo pubblico, ma si sarebbe arreso davanti allo sconfortante spettacolo del lerciume.

Il mezzo pubblico pulito e con un’armoniosa guida è uno dei migliori biglietti da visita per il turismo. Quale tristezza e pena vedere dei sedili che nella loro sporcizia perdono l’imbottitura non trascurando l’odiosa difficoltà di vedere malamente attraverso i finestrini per la ragnatela intollerante delle sovrapposizioni pubblicitarie.

Tra il contrastare la legge di gravità e rendere possibile la compenetrazione dei corpi, sul viso dell’utente il più sereno, il più distinto, il più serafico, almeno una volta è apparsa la mefistofelica espressione d’intolleranza verso gli inopportuni zainetti portati a spalla con estrema disinvoltura e sbatacchiati a destra e a sinistra senza rispetto per l’altrui scomodità.

L’amabile utente, in questo caso, vorrebbe trasformarsi nel tagliuzzatore mascherato, impugnando affilate forbici e tranciando senza rimorso le cinghie degli zaini per sentirsi di nuovo libero di respirare, non più urtato dagli inopportuni ingombri, e gioire finalmente nel veder rotolare in terra il lurido e maleducato sacco.

Stranamente sono molti i proprietari di zaini che ignorano la utile funzione della morbida e opportuna cinghia posta alla sommità del sacco. E infine, il decoro urbano non è solo il centro storico decontaminato dagli interventi graffiti sui muri, ma sopratutto l’efficienza dei mezzi pubblici puliti per passeggeri sollevati e sorridenti, con posti a sedere che non assomiglino ai logori inginocchiatoi delle antiche chiese per alleviare il disagio delle rotule degli anziani in preghiera.

Una nota piacevole la visione delle recenti pensiline con le loro candide linee, molto più indicate delle tonalità di rosso cupo del logo capitolino.

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 Decalogo

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Tram 8 L'OTTO NON SOLO UN TRAM web

 

Il Museo del nulla

L’ultimo capitolo della sofferta e contorta storia del Museo della Civiltà Romana prevede ora la chiusura al pubblico della struttura, con l’eccezione del Planetario, del Plastico e di alcune sale storiche. Già era stato dichiarato inagibile il lungo sottopasso che unisce i due corpi di fabbrica principali, che ospita al piano superiore il calco della Colonna Traiana commissionato da Napoleone III e in quello inferiore il magazzino dei plastici non esposti. In sostanza, l’enorme museo è stato dichiarato inagibile. A farne le spese saranno non solo i visitatori (d’inverno non molti, scuole a parte), ma anche l’ufficio dell’Antiquarium comunale, istituzione perennemente senza pace. Il problema non è nuovo, ma strutturale: si tratta di edifici costruiti praticamente in tempo di guerra, con materiali scadenti – soprattutto il tondino del cemento armato – e già alcuni anni fa furono coibentati e rifatti i lucernai. Costoso è sempre stato il riscaldamento delle sale, visti i soffitti di venti metri e l’ampiezza dei vani, mentre basso è sempre stato il numero dei visitatori, scuole a parte. Purtroppo l’EUR non è centrale e il trasporto pubblico ferma a diverse centinaia di metri dall’ingresso del museo. In più, il turista medio si ferma a Roma una media di tre giorni, cinque al massimo, e già ha tanto da vedere in città, anche se spesso chi ammira il grande plastico del Museo continua poi per Ostia antica. Opportuno sarebbe organizzare un servizio di navette dagli alberghi e inserire l’architettura dell’EUR nel giro del turismo di massa. Ma va detto per dovere di cronaca che il sovraintendente della giunta Alemanno, Umberto Broccoli, aveva progettato lo smantellamento del museo e il trasferimento di parte delle sue collezioni nell’erigendo Museo della città di Roma nell’edificio della ex Pantanella a via dei Cerchi, all’epoca occupato dal Servizio elettorale, dai Servizi demografici e dal laboratorio di scenografia del Teatro dell’Opera, ed ora rioccupato dal Dipartimento del Commercio (1). Ma sarebbe più esatto dire: si voleva riportare il Museo dov’era originariamente. Ma andiamo per ordine.

La storia inizia nel lontano1911, quando a Roma si tenne la grande Esposizione per i 50 anni di Roma capitale. In quel contesto, alle Terme di Diocleziano, curata da Rodolfo Lanciani, venne organizzata una mostra dedicata alle province dell’Impero romano, con calchi provenienti da tutte le parti d’Europa, Asia e Africa. Tutto questo materiale fu poi acquistato dal Comune di Roma e Quirino Giglioli ne fece sotto la sua direzione un museo permanente, il Museo dell’Impero Romano, dapprima ospitato nei modesti spazi dell’ex convento di Sant’Ambrogio alla Massima (dietro al portico di Ottavia); successivamente nel 1927 nel corpo di fabbrica dismesso dalla Pantanella, in quel complesso edilizio addossato a Santa Maria in Cosmedin che ora ospita vari servizi del Comune di Roma. Per la cronaca, sul frontone dell’Ufficio elettorale c’è ancora scritto inciso e ben leggibile “Palazzo dei Musei”. Ma la chiave di volta la diede la Mostra Augustea della Romanità, proposta dallo stesso Giglioli a Mussolini e tenuta nel 1937 a Palazzo delle Esposizioni, senza badare a spese e con l’apporto di molte istituzioni straniere. Stavolta il fine propagandistico non era quello di valorizzare il contributo e il consenso di tutte le province verso il progetto politico unitario italiano, ma quello di esaltare la Romanità e l’Impero attraverso la figura di Augusto, di cui ricorreva il bimillenario. Questa mostra ebbe un successo enorme: un milione di visitatori in un anno, che per l’epoca non era poco. Ne restano il catalogo ufficiale e l’archivio. E’ evidente una forte impronta ideologica nell’allestimento, ma è anche sorprendente la quantità e qualità del materiale esposto: modellini, calchi, ricostruzioni persino in scala 1:1. Grandi attrazioni erano anche l’enorme plastico di Roma imperiale creato dal Gismondi e il calco completo della Colonna Traiana, preesistenti alla mostra. Molti originali, se non sono andati perduti, sono nel migliore dei casi in posti poco accessibili, come la Cirenaica o l’Anatolia. Anche questa volta il materiale fu acquisito per dono o per commercio dal Comune di Roma (all’epoca, dal Governatorato) per essere stabilizzato in un grande Museo dell’Impero. L’occasione sarebbe stato il reimpiego del bel complesso architettonico creato dall’architetto Pietro Aschieri e finanziato da Umberto Agnelli per l’E42, allo scopo di esporre ovviamente le automobili e gli autocarri prodotti dalla FIAT. Ma l’Esposizione non fu mai inaugurata a causa della guerra e gli edifici furono ereditati dall’attuale Ente EUR. Solo successivamente, negli anni ’50 del secolo scorso, l’Impero essendo ormai un lontano ricordo di un sogno infranto, il museo apre timidamente i battenti, inizialmente sotto la direzione di Carlo Pietrangeli. E’ interessante leggere una pubblicazione da lui firmata nel dopoguerra (2): si evita qualsiasi riferimento alla Romanità e si parla genericamente di civiltà latina. In sostanza il sovraintendente deve adottare un figlio non suo e cerca di rimanere nel generico. In questo modo nel 1954 (ri)apre il museo, pallido ritratto di se stesso, scenografia di un film mai girato, e sopravvive per i successivi sessant’anni col nome di Museo della Civiltà Romana, abbreviato MCR.

Per chi ci ha lavorato, quella del MCR è stata un’esperienza particolare. A vederlo da fuori, il museo è bellissimo e le sue possenti mura e il colonnato si sono spesso visti nelle sfilate di moda e soprattutto in molti film ambientati nell’antichità classica e mitologica, i c.d. film peplum. Si risparmiava in tal modo sulle scenografie, con effetti tutt’altro che disprezzabili. Ma a parte il plastico del Gismondi (sempre pieno di polvere), per anni tutto il resto del materiale esposto sembrava non avere una strutturazione precisa. Non esisteva fino a pochi anni fa una cartellonistica decente e le didascalie degli anni Trenta si mescolavano a quelle moderne, in confusione grafica e ideologica. Era difficile persino seguire un itinerario, visto che le sale si rincontravano a casaccio e la metà erano chiuse. Ma ancora oggi molti preziosi modellini d’epoca – ma quelli in magazzino sono quasi il doppio – non sono protetti da teche di plexiglas; il personale d’inverno soffre il freddo per l’ampiezza degli ambienti, difficilmente riscaldabili. Ricordo che nel 1993 per la mostra Militaria (SME) furono aperte tutte le sale dalla mattina alla sera sette giorni su sette, ma  l’Esercito ci prestò una cinquantina di soldati di leva. Non esiste una sala convegni perché nessuno ha mai pensato ad allestirne una, forse per l’ostilità dell’ente EUR che gestisce già il Centro Congressi ed è il reale proprietario della struttura del MCR, al quale il Comune di Roma paga un modesto affitto. In ogni caso la grande sala all’ingresso del museo è ormai occupata dal nuovo Planetario, redditizio corpo estraneo che sostituisce il vecchio planetario Zeiss alla Sala Ottagona delle Terme di Diocleziano e ha riqualificato comunque il museo. Ma pur con tutte queste iniziative, il museo non riesce a contare più di 12.000 presenze all’anno, per la maggior parte scuole, e per questo motivo l’appalto per la libreria andò deserto due volte. Attualmente la società Zètema gestisce due punti vendita (Roma antica e Astronomia), ma per la ristorazione chi non si accontenta del distributore automatico deve farsi 400 m. a piedi fino al bar più vicino. Niente male come accoglienza, anche se problemi simili li hanno tutti i grandi musei dell’EUR, ovvero il Pigorini e il Museo delle tradizioni popolari e quello dell’Alto Medioevo. Quello delle Poste è chiuso, quindi non fa testo.

Ma passiamo ora alla parte immersa dell’iceberg. Pochi sanno che i sotterranei (spettrali) sono pieni di plastici e calchi pieni di polvere, in quantità pari al materiale esposto. Aggiungo pure che nel Museo esiste una buona collezione di libri e riviste d’epoca, pubblicazioni destinate alla biblioteca del Museo dell’Impero e che solo ora si sta cercando di riordinare dopo sessanta anni di incuria. Impegnativa attività del Museo è invece la concessione ad altri musei o a editori e reti televisive dei calchi e delle foto del materiale esposto, immagini che, nei libri e riviste dove sono pubblicate, almeno ricreano una sorta di museo virtuale di continuo ricomposto, come abbiamo spesso visto nelle trasmissioni di Piero Angela. Altrimenti, una delle poche e ultime esposizioni in loco organizzata dal Museo fu quella di Traiano pochi anni fa, grazie alla dedizione di due funzionarie interne. Esposizione a costo zero, essendo stata organizzata esclusivamente con i materiali in magazzino, ma priva di seguito: Augusto quest’anno rimane fuori dal Museo.

Dunque, l’enorme spazio espositivo è sottoutilizzato; al che si dirà: quel museo costa troppo e rende poco. Ma non è un problema esclusivamente economico: il problema è ideologico. Investimenti a parte, almeno nel progetto iniziale il Museo dell’Impero Romano sarebbe stato perlomeno un buon Museo Fascista, ma privo di un’ideologia è diventato invece il Museo del Nulla, un esempio da manuale di de-significazione progressiva, di perdita di senso. Quel museo può sopravvivere solo con un’Idea forte, mentre la sua gestione è stata invece caratterizzata per anni da una costante mediocrità, fino a renderlo fino a non molti anni fa un Museo Zen. Ma per come si sono messe ora le cose, tanto vale ridare le chiavi all’Ente EUR e pensare seriamente a qualcos’altro. Ripeto: non è questione solo di fondi, ma di idee e della capacità di svilupparle. Finora però nessun progetto è riuscito ad andare oltre le buone intenzioni.

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Note:

(1)    Anche se il sovraintendente Broccoli non è riuscito a legare il suo nome a nessun progetto particolare, questo era almeno organico: si prevedeva di dedicare un piano per ogni era: Roma antica, Roma del Rinascimento e del Barocco, Roma moderna. Ma a parte il cambio di giunta in Campidoglio, la crisi economica avrebbe comunque smorzato l’ambizioso ma lungimirante progetto, che avrebbe ricollegato la documentazione della storia di Roma alla zona archeologica e ai Musei Capitolini, con un prevedibile afflusso di visitatori. Roma rimane l’unica capitale europea che non ha un museo della storia della città. Del progetto restano ormai solo le rassegne stampa:

http://archiviostorico.corriere.it/2007/aprile/19/Via_dei_Cerchi_addio_agli_co_10_070419010.shtml#

http://www.06blog.it/post/9911/nel-2011-i-lavori-per-il-museo-della-citta-di-roma-a-via-dei-cerchi-nelledificio-previsto-anche-un-hotel

(2) I Musei del comune di Roma dopo la seconda Guerra mondiale : A cura della ripartizione antichità e belle arti del comune di Roma . Roma, 1950

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Quando la carestia sarà un ricordo

Una setta? Forse solo degli illusi che voglio fare arte e mettere a disposizione dei governi nuovi strumenti tecnologici per sopperire alla carenza alimentare dei paesi più poveri?

Sta di fatto che l’associazione Scienza per l’Amore ha visto sequestrati preventivamente entrambi i siti web dove promuovevano le loro attività e progetti.

Il Tribunale di Roma, con la Procura della Repubblica – Direzione distrettuale antimafia, ha dato mandato alla Polizia locale di Roma Capitale, con il suo Gruppo di elite sulla Sicurezza Sociale Urbana, all’oscuramento in base al Proc. Pen. N. 13650/11 R.G.I.P. e il Proc. Pen. N. 25093/10 R.G.N.R., probabilmente perché sospettati d essere dei truffatori con il voler contribuire alla crescita e al benessere dell’Africa, mettendo in grado gli stessi africani di sfruttare al meglio le risorse locali, dove sono endemiche le carenza alimentari ed energetiche.

Lo strumento per realizzare questi obiettivi è la tecnologia Hyst, che consente di impiegare a fini alimentari ed energetici qualsiasi scarto proveniente dalle lavorazioni agricole. Si produrranno così farine per alimentazione umana, zootecnica ed energia pulita.

L’Hyst è un sistema innovativo che anticipa quello che, nelle pubblicazioni scientifiche del settore, si auspica di realizzare fra 10-20 anni.

Una tecnologia che trasforma gli scarti di cereali e frutta in prodotto alimentare appare molto simile al sottoporsi a una cura staminale con cellule trattate in ambiente difficilmente ritenuto sterile.

Il Progetto Bits of Future: Food For All lascia per lo meno perplessi sulla possibilità che un macchinario trasformi degli scarti in cibo, ma sequestrare la loro vetrina senza specificarne le motivazioni.

Bisogna diffidare dei soci e simpatizzanti dell’associazione, e perché? Magari sono contagiosi ed è consigliabile non stringere loro la mano.

Sul sito veniva sbandierata l’adesione di una serie di stati africani (Repubblica del Senegal, Governo di Transizione della Repubblica Somala, Repubblica del Burkina Faso, Repubblica del Camerun, Repubblica del Ruanda, Repubblica del Burundi, Repubblica del Congo Brazzaville) al Progetto con lettere di ministri e rappresentanze diplomatiche.

Forse sono solo il frutto di millantato credito o come è spesso accade un’occasione per dei governanti di fare un po’ di business?

L’Ifad (Fondo Internazionale per la Sviluppo Agricolo) interpellato sull’essere a conoscenza del progetto Bits of Future: Food for All ha risposto chiarendo le competenze dell’organizzazione impegnata nello sviluppo agricolo e ha tenuto a chiarire che la Fao (Food and Agriculture Organization of the United Nations: Employment) potrebbe rispondere.

Mentre alle richieste inviate alla Fao di essere a conoscenza del progetto e confermare un loro interesse non è a tutt’oggi giunto alcun commento.

Come non ha fatto seguito alcuna risposta con il Wfp (Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite).

 03 AdN Cibo Carestia Bits of Future Food For All progetto

La Festa segreta

Romano, ricercatore, mi occupavo all’epoca di una serie di documenti conservati nell’Archivio Storico Capitolino. Studiando alcune carte notarili del Seicento, fui un giorno incuriosito da un dettaglio peraltro marginale: era un disegno barocco in margine alla realizzazione di alcuni festeggiamenti solenni per le nozze di una famiglia nobile romana, imparentata come al solito con qualche papa o cardinale. La documentazione era invero ricca: in appendice alla serie di componimenti poetici d’occasione – mediocri come al solito – c’era la descrizione del banchetto e della successiva festa, con balli e apparati adeguati al rango del padron di casa e del suo rango. Ma nell’ultimo foglio una mano diversa da quella del copista – quella di un disegnatore – aveva tracciato a china uno schizzo di un ninfeo, con l’annotazione “nel ninfeo di Venere, grotta da basso”. Ora, di ninfei è piena l’Italia delle zone archeologiche, delle ville storiche, dei giardini di palazzo rinascimentali e barocchi. All’origine grotte sacre a una ninfa, divinità d’acqua che ivi risiedeva, divennero poi anche edifici in muratura, che accanto all’originaria funzione religiosa ne affiancavano una conviviale: lungo le strutture piene di vasche e piante acquatiche era possibile sostare, far banchetti e trascorrere momenti di ozio.  Verdi e umidi ninfei delle ville storiche italiane espongono ancor oggi le loro lussureggiante bellezza e lasciano spazio all’immaginazione. Il disegno includeva anche la fauna mitologica: ninfe, satiri e persino Priapo, la divinità maschile con gli attributi ben esibiti. Non che all’epoca fosse uno sconosciuto: Agostino Carracci lo aveva raffigurato in alcune stampe già nel ‘500. Antico dio che incoraggia la fertilità dei campi, diviene nel Rinascimento un palese richiamo simbolico alla potenza riproduttiva ed erotica, legandosi in qualche nodo alle correnti filosofiche neoplatoniche, per poi scomparire ufficialmente dalle scene su pressione della Controriforma. I successivi scavi di Pompei ne avrebbero restituito la potente iconografia, ma il nostro dio rusticano nel periodo che studiavo scorreva in qualche fiume carsico, da dove ogni tanto riappariva.

Passarono alcuni giorni e la mia ricerca procedeva. Esaminai una serie di atti notarili e processuali, relativi a un gruppo di famiglie nobili romane. Era materiale riversato da poco in Archivio, quindi c’era la possibilità di ricavarne una pubblicazione. Gli atti erano scritti nella classica scrittura cancelleresca corsiva dei notai e funzionari romani, fedeli testimoni della vita sociale e giuridica nel corso dei secoli. La cancelleresca non è difficile da leggere; ma il senso di quei documenti non era sempre chiaro. Non liti per fissare i confini di un latifondo o eterne querele tra rami collaterali per spartirsi un’eredità; neanche richieste di risarcimento per opere mai pagate, clienti frodati o ragazze sedotte. Si trattava invece di un tentativo di ricatto ai danni di una nobile famiglia romana, architettato da un gentiluomo non ben identificato ma di media statura sociale. Un avventuriero come tanti all’epoca? Forse il prestanome di qualcun altro che non voleva scoprire le carte; sicuramente altolocato e ben noto nell’ambiente. Così perlomeno mi sembrava: il testo era pieno di sottintesi, purtroppo incomprensibili quattro secoli dopo. Questi atti erano datati infatti 1623, regnante ancora papa Gregorio XV. Ancora non c’era Urbano VIII, ma già Bernini e Borromini facevano a gara per abbellire Roma di chiese e palazzi barocchi, esempio di quell’architettura creativa che solo secoli dopo sarebbe stata riconosciuta come il massimo della libertà, la quale invece non era concessa in materia di religione.

Ma torniamo ai nostri documenti. I moventi di un ricatto a scopo di estorsione son sempre gli stessi da secoli: tacitare uno scandalo, sollecitare un credito, o volersi rivalere per un torto subìto. Qui bisognava saper leggere tra le righe, ma ancora non avevo elementi sufficienti per condurre un’indagine. Mi limitai quindi ad annotare i nomi ricorrenti nella serie dei documenti esaminati. Era ormai venerdì e l’unica cosa da fare era prendersi per sabato qualche ora di svago. Andai con un’amica al parco della Caffarella, dove c’è ancora un ninfeo in muratura, quasi nascosto nel fondovalle, laddove l’acqua scorreva in pendenza. Non più grotta di ninfe né luogo di ricreazione, mi piacque comunque guardarlo e immaginarne tempi migliori: la verzura cadeva all’epoca dall’alto e il luogo era quasi segreto; ci si introduceva da un sentiero coperto anch’esso dalla vegetazione…

La settimana dopo mi dedicai invece alla musica e alla pittura, cercando di identificare gli artisti citati nei documenti. Iniziai dalla musica; nella Roma barocca se ne componeva e suonava tanta, a tutti i livelli: messe, mottetti, danze, concerti grossi, musica conviviale, fanfare. I committenti – pubblici e privati; chiese e nobili –  facevano a gara per accaparrarsi i migliori musicisti, i quali passavano con disinvoltura dal sacro al profano secondo il cliente. C’era così posto sia per grandi compositori come Palestrina, sia per artisti meno dotati e per innumerevoli musici e cantanti, coristi e solisti, che spesso preferivano lavorare per poche, potenti famiglie. Molti spartiti sono andati perduti quando cambiarono gusti, mode e strumenti, ma per fortuna a Roma molto si è conservato e nel corso degli anni la catalogazione dei manoscritti musicali presenti in archivi e biblioteche è andata avanti. In più, nel frattempo è nato un reale interesse per la musica barocca, ricreata da decine di ensemble e incisa in centinaia di dischi e cd. Possiamo riascoltare dal vivo quella musica invece che immaginarne armonie e sonorità decifrandole dagli spartiti. Ma non erano gli spartiti che io cercavo, ma i contratti stipulati con i loro committenti. Per fortuna ne erano conservati alcuni e da lì si poteva ricostruire la rete sociale entro la quale gli artisti si muovevano. Nomi che non dicevano molto: Ser Giovanni di Menico e Guido Todesco, romano il primo, germanico forse il secondo. Saperne qualcosa si rivelò in realtà la parte più facile del lavoro: mi rivolsi a un vecchio compagno di scuola, ormai direttore d’orchestra, che mi segnalò un giovane pugliese, un musicologo che dieci anni prima  avrebbe pure vinto un concorso in Soprintendenza, ma ora non riusciva a trovare un lavoro adeguato alla sua preparazione. E con l’aria che tirava sarebbe stato ben lieto di lavorare per me. Per l’arte figurativa invece avevo in mente una mia amica, storica dell’arte, che lavorava per una nota casa d’aste e ben conosceva l’arte italiana del Seicento. Anni prima eravamo anche stati insieme e quando andai a trovarla fu cordiale con me, ma prese tempo perché era al momento impegnata col catalogo dell’asta successiva. Quindi per ora non sarei riuscito a sapere molto del pittore che stavo cercando. Chi era Gian del Grotto? Mistero. Tornai dunque alle ricerche d’archivio, evitando di far sapere cosa stavo realmente cercando. Intanto non lo sapevo bene neanch’io, poi nel nostro ambiente meglio parlar poco: come ti giri ti fregano la ricerca.. Chi lavora dentro un museo o all’università riesce persino a non far uscire il materiale dall’archivio e se lo studia lui, ma in questo caso quelle carte erano a disposizione di chi sapesse leggerle, sempre che avesse studiato paleografia alla Vaticana.

Ma torniamo in Archivio. Leggersi i documenti di tribunale è sempre interessante; s’impara molto su una società, sui protagonisti della vita comune, sulle abitudini e convenzioni sociali e anche sulle debolezze umane. C’erano cause intentate da artigiani contro clienti patrizi quanto tirchi; promesse di matrimonio rotte in anticipo, con conseguenti richieste di risarcimento: liti per merci non pagate o per eredità mal divise. Sempre interessanti poi le repliche dei testimoni, che svelavano il modo di parlare della gente comune, appena corretto dal cancelliere di turno: erano squarci sulla vita privata di una società. Un documento, p.es., era proprio curioso: la famiglia di un artigiano voleva essere risarcita da un impresario perché una delle sue figlie si era ammalata avendo dovuto fare il bagno di sera nelle fontane di una villa, durante un banchetto che un nobile aveva organizzato. L’inquisitoria era piena di dettagli, che testimoniavano i fatti grosso modo così ricostruibili: la ragazza era stata assunta insieme ad altro personale di servizio da una nobile famiglia per una grande cena all’aperto organizzata per ospiti di riguardo, forse fiamminghi. L’apparato delle festa comprendeva anche un Theatro acquatico, mentre un’orchestra suonava musica conviviale. Solo che una di queste ragazze si era presa una polmonite nuotando mezza ignuda nelle vasche del giardino, ed ora la sua famiglia pretendeva un risarcimento. Ma la cosa più interessante per me erano le curiose immagini dei cartigli e dell’ultimo foglio, apparentemente sempre della stessa mano di quel primo disegno visto il primo giorno: ninfe che nuotavano nello specchio d’acqua della grotta. Bella scenografia di un vero gioco d’acqua: ninfe in carne ed ossa inseguite e insidiate da giovani tritoni, mentre ai lunghi tavoli i commensali continuano a intrattenersi fra una portata e l’altra. Era pratica normale di notai e disegnatori annotare con personali schizzi a penna la scena di cui si parlava nel documento, come farebbero oggi i fotografi. In una relazione giudiziaria abbiamo persino uno schizzo che raffigura Giordano Bruno portato a Campo de’ Fiori. Ma anche stavolta dovetti interrompere la lettura: era finito l’orario di apertura dell’Archivio e dovevo uscire. Ma volli per un attimo entrare nell’attigua Chiesa Nuova, capolavoro del Borromini. Proprio per quella chiesa Giovanni Pierluigi da Palestrina aveva per anni scritto e diretto messe e mottetti. Amo Palestrina: la sua vocalità è naturale e fondamentalmente monodica, anche se fa uso del contrappunto. Le varie voci cantano melodie diverse, ma l’insieme è armonico. Da giovane ero stato corista proprio nel Coro polifonico della Vallicelliana, ma in quel momento un coro di ragazzi di parrocchia stava provando alcune canzonette per dementi scambiate per musica liturgica, quindi uscii dopo due minuti.

Due settimane dopo, la rete dei collegamenti tra i miei personaggi iniziava a prender forma e senso. Intorno a una nobile famiglia romana ruotava sempre lo stesso gruppo di musicisti, scenografi e artisti, incaricati di provvedere alla riuscita di feste in villa. Incrociando i dati di documenti diversi veniva fuori un mondo in cui  l’arte barocca si manifestava in tutta la sua capacità di intrattenere e stupire i convitati anche per poche ore, ma sviluppando una fantasia insuperata. Musici italiani e stranieri allietavano il convito, mentre le mense venivano saturate da piatti da portata colmi di carne e verdure, in mezzo a fiumi di vino. Bacco è sempre stato un dio popolare e in Italia il vino non è mai mancato neanche ai poveri, quindi nelle feste scorreva a fiumi, versato da brocche e contenitori cesellati. La sera, torce e candele romane provvedevano a far luce sull’eletta di nobiluomini e donne invitati per lo spettacolo. Si, perché nel Barocco tutto è teatro: la festa, la cena, il concerto sono in realtà organizzati come spettacolo, dove attori e comparse diventano anche gli invitati stessi. E se il Theatro spirituale è la raccolta dei testi per gli oratori romani, cerchiamo invece di immaginare una ideale raccolta destinata a diletti più carnali, terreni: testi in cui attraverso lo stimolo dei sensi si chiamano gli invitati a partecipare a un evento meraviglioso, magari pagano. Il neoplatonismo è ormai emarginato dalla Controriforma, ma gli antichi dèi rimangono presenti almeno nella cultura delle classi alte: Venere, Marte e Apollo e Diana sono di famiglia. O magari si preferiscono ora vizi e virtù e altre figure allegoriche prese dall’Iconologia del Ripa, note al popolo quanto ai nobili perché ripetute nelle statue delle chiese e in quelle dei giardini, nelle immagini sacre e profane, nei carri allegorici. Tutti sapevano riconoscere gli attributi della Fedeltà, della Chiara Fama, dell’Avarizia, della Fecondità….

Ma nella mia festa si alludeva a un Theatro acquatico. Proprio Roma, di lì a pochi anni sarebbe stata riempita di scenografiche fontane. Qui sicuramente si era in villa, magari non lontano dal centro abitato, o forse nel Lazio, lontano dagli occhi indiscreti. Si parlava di ninfe, tritoni, satiri e fauni. Si suggerivano antri e ninfei e specchi d’acqua ove celarsi è normale, salvo farsi sorprendere in atti suggeriti o espliciti. Si discopre Diana al bagno, ma sappiamo la fine di Atteone. Oppur sono proprio loro, le ninfe, a esibirsi sfacciatamente, provocando il pubblico, spesso assai meno composto – complice il vino – di quanto uno creda. I quadri d’epoca danno appena un’idea di cosa fosse veramente una festa. Soprattutto, una festa segreta. Entrare in quei giri non era facile allora come non lo è oggi: un conto esser nobili o ricchi o entrambi, altro è la vita dei comuni mortali. In mezzo v’erano sono le solite cortigiane, i falsi altolocati e provinciali arrivisti di cui anche oggi v’è ampia copia. E anche all’epoca si doveva saper puntare sul cavallo giusto.

Ma di queste feste in realtà io ne avevo scoperte più di una. Non se ne parlava ovviamente in modo esplicito, gli indizi erano ambigui. In certi atti processuali un non meglio identificato ser Giovanni di Menico, romano, aveva introdotto nelle feste di primavera alcune giovani donne che aveva presentato per cugine, più alcune donne al loro servizio, sicuramente più anziane. Non era specificato il luogo dove si svolgevano queste feste, ma era certo trattarsi di un qualche spazio all’interno di qualche villa privata suburbana. Tutto il mondo è paese: le feste dei ricchi son sempre piene di femmine; se poi succede qualcosa, in fondo sono quegli scandali in cui ogni tanto uno vorrebbe essere coinvolto. La storia era perlomeno interessante, sicuramente più delle tante cause tra parenti per la spartizione di un latifondo. Ma in un altro documento lo stesso ser Giovanni figurava musico e coreografo. Lo aiutava un fiammingo trapiantato, certo Gian del Grotto (Jan de Groote, come chiarì la mia amica storica dell’arte), già noto agli atti per una sciabolata di troppo a Federico Lupinacci pittore di cose sacre; normale attrito tra botteghe d’arte concorrenti. Ci si divideva gli appalti con le chiese per zone e botteghe e gli sconfinamenti finivano in zuffa. Anche Caravaggio in fondo era stato coinvolto in tali guerre.

L’intuizione mi venne soltanto dopo: e se quelle ragazze invece che donne di piacere fossero state attrici o figuranti? In fondo, all’epoca il confine tra i due mestieri erano labili, marginale com’era la figura dell’attore: basta vedere quelle stupende stampe di Callot che rappresentano gli artisti girovaghi. Agli attori non veniva nemmeno concessa la sepoltura in terra consacrata. Ecco dunque la vera natura di quel convito segreto: era anche quello uno spettacolo. Le statue del giardino si animavano una dopo l’altra, scendendo dai loro piedistalli e incrociando passi di danza e inseguimenti nella verzura. Quelle nel ninfeo fingevano di star ferme immobili nelle nicchie, per poi schernire chi avventurava in galleria. Il giardino è pur sempre un luogo di delizie:

Ora il Signore Dio sin da principio aveva piantato un paradiso di delizia; ivi pose l’uomo da Lui formato. Produsse il Signore Dio dalla terra ogni albero bello a vedersi e buono a mangiarsi….E dal luogo di delizia usciva ad irrigare il paradiso un fiume…” Genesi, II, 8-9.

Dai disegni e dalle testimonianze di quelle carte processuali usciva dunque un panorama di sesso trasposto in scena mitologica, che tutto sommato siamo ben avvezzi ad ammirare nei quadri di genere: ninfe che fan finta di fuggire al ruvido abbraccio dei satiri, menadi senza freni, fauni ebbri, Diana e le ancelle che fanno il bagno ignude, Cupido che tira dardi per scatenar l’amore in timidi amanti. E’ un repertorio ben noto, ma altro era sentirlo raccontare nei diari d’epoca, epistole e corrispondenze, o saperle dai verbali di un tribunale. Che dire? Se la spassavano e sapevano farlo, a patto di salvare le apparenze. Altro è rimirare un quadro di Guido Reni, altro è invece veder uscire a sorpresa una ninfa ignuda in carne e ossa dal teatro di verzura. Ben altre emozioni se invece del quadro a olio noi si rimira l’inseguimento delle ninfe dal vivo: sono in gioco corpi reali, che sudano. Sublimata nel verbale di un interrogatorio, l’emozione diventa stupore, imbarazzo

 

Ma qui c’era ben altro: sotto mentite spoglie recitavano la loro parte anche alcune figlie di nobili famiglie romane, che sarebbe stato impossibile riconoscere in quelle circostanze. Ne approfittavano per accoppiarsi con maschi sconosciuti quanto prestanti, invitati pure loro al convito segreto. Tutto era casuale, ma organizzato da un regista esperto. Costui alla fine mi era noto: nelle carte si alludeva spesso ad un certo ser Bartolomeo pittore, ma senza dirne il cognome o il soprannome, né citarne almeno un paio di opere, e soprattutto senza che fosse chiara la sua funzione all’interno dell’apparato. Ormai invece l’avevo capito: egli concepiva la scena come fosse un grande quadro animato, una scenografia mentale che andava ben oltre la realizzazione di una festa o di una danza. Come lo scultore Orfeo Boselli incarnava la figura dell’artista dotato di profonda cultura umanistica di cui dà prova nella composizione di due commedie (Il disperato amante, Viterbo, 1623), allo stesso modo ser Bartolomeo pittore dimostrava un grande senso scenografico ed un talento particolare per quello che chiamiamo erotismo, ma che in realtà portava ben oltre la cultura fisica cui noi siamo oggi nevroticamente abituati. E’ come se di una melodia riuscissimo solo a goderne il tema, ma senza capirne la complessa armonizzazione. Loro invece ci riuscivano benissimo, intrisi com’erano di filosofia della Natura, di neoplatonismo, e soprattutto di un profondo amore per il teatro, tanto da consacrarlo a modello e forma simbolica di un intero universo culturale.

 

Andiamo oltre. Se del nostro pittore poco sappiamo, è perché cadde in disgrazia: la nobile famiglia che lo aveva protetto rescisse presto i contratti che aveva stipulato con lui, come risultava dai documenti di archivio. Come mai? Semplicemente perché il suo nobile protettore era stato coinvolto in uno scandalo che si voleva a tutti i costi archiviare, vista l’inevitabile parentela con un cardinale di curia. Si era scoperto il giro di ninfe e satiri e statue viventi, ma poi?. Qui era la stranezza: il nostro gentiluomo non evitava questo tipo di accuse, anzi ammetteva che il convito era stato saltuariamente allietato da donne procurate da fuori. Allora? La spiegazione la trovai mettendomi mentalmente nei suoi panni: si voleva in realtà coprire qualcosa di più grosso. Meglio ammettere il reato minore che passar guai seri con un’accusa assai più grave: quella di eresia. L’accusa di eresia implicava ben altro che un’ammenda pecuniaria per sesso di gruppo in villa. Ne sapeva qualcosa Giordano Bruno, arso vivo il 17 febbraio 1600 a Campo de’ Fiori.

Come ci arrivai? Da un dettaglio sfuggito agli altri. Spesso esercitiamo un controllo stretto sulle cose grandi, trascurando invece quelle minute, e son proprio quelle a tradirci. In quella festa segreta le statue viventi non erano state collocate a caso, ma a precisa distanza una dall’altra, e attorno ad esse ruotavano come in danza altre statue minori, ognuna con diversi attributi. Quando una torcia illuminava una di queste statue centrali, lente incedevano quelle di contorno, veri e propri satelliti. Poi, lentamente la face si spegneva, per dar tempo di illuminare un’altra statua posta a maggiore distanza dalla prima, e così via per tutta la sera in una teoria di movimenti cosmici regolata come un orologio. Era per l’appunto il teatro degli Infiniti Mondi di Giordano Bruno.

La questione era affascinante ma complicata: qual’era la reale diffusione del pensiero di Giordano Bruno nell’ambiente romano dell’epoca? La commissione che giudicò Bruno prese tempo per acquisire le opere a stampa disponibili sul mercato e impiegò almeno due anni per studiarsele con cura. Studi recenti hanno chiarito l’influsso diretto del pensiero bruniano sugli intellettuali olandesi dell’epoca, ma poco sappiamo dell’ambiente romano, che comunque doveva ben tenersi defilato per non fare la fine del maestro: a Roma la censura ecclesiastica era molto stretta e la circolazione delle opere di Bruno era vietata, come vietato era anche l’insegnamento delle sue idee. Una traccia è forse visibile nello scambio epistolare tra intellettuali e nelle ricche corrispondenze tra accademie, ma è una ricerca che richiede tempo ed è ancora tutta da fare. In questo atto giudiziario legato a quello che sembrava uno scandalo sessuale c’era invece un segreto, ed io l’avevo scoperto. Con l’unico rimpianto di non essere stato presente in quella festa segreta. Per questo voglio terminare la mia narrazione proprio con una frase di Giordano Bruno:

 

Amate una donna se volete, ma non dimenticate di essere adoratori dell’infinito.