Una musica trasgressiva e stimolante, quella di Kirk, che traeva la sua fonte di ispirazione dal ricco patrimonio musicale e dal folklore afroamericano: dal blues (del quale era un grande interprete e un prolifico compositore), alla church music, al soul.
Il tempo ha la straordinaria capacità di lasciare intatta dietro di sé, una quantità di ricordi e di sensazioni che possono affiorare improvvisamente, e inaspettatamente, a distanza di anni, per dar vita a rinnovati stimoli e a percezioni concernenti una sfera della realtà mai dimenticata; crepitante sotto le ceneri della storia minore in esilio temporaneo nel subconscio collettivo. L’eredità del passato, alla stregua di un fantasma jamesiano, vaga irrequieta alla ricerca della sua identità dissolta ma immanente, altrimenti incorruttibile. “La carne è sepolta – fa dire William Goyen a un personaggio protagonista della novella: Raccontami la storia della povera Pezzie – ma abbiamo ancora il fantasma. La tomba della povera Pezzie contiene soltanto metà della storia … l’altra resta ancora da dire”.
Faccio mia questa citazione al preciso scopo di presentare il “fantasma” di un musicista di jazz, conosciuto soprattutto fra la ristretta cerchia degli appassionati: mi riferisco a “Rahsaan” Roland Kirk.
Nato a Columbus, Ohio, nel 1936, Kirk ebbe una infanzia di vicissitudini: rimase infatti cieco all’età di due anni, e questa tragica esperienza segnò per sempre la sua vita. Dedicatosi fin da giovanissimo agli studi musicali, Kirk iniziò a suonare in piccole formazioni locali da lui stesso capeggiate e in seguito nelle allora famose Territory Bands. Lo scoprì a Chicago, quasi per caso, il noto critico musicale Joachim Berendt, sul finire degli anni ’50, quando il nostro suonava tre sassofoni contemporaneamente per le strade del South Side: allora per un pubblico costituito in gran parte da passanti frettolosi, bambini incuriositi, prostitute e lenoni occupati al gioco d’azzardo. Sempre Berendt ebbe il merito di proporlo all’attenzione della ribalta europea, dove ben presto Kirk si guadagnò la stima dei colleghi musicisti e della critica che, sulle prime, lo accolse favorevolmente per la veemente carica espressiva che lo caratterizzava, e per l’esuberanza della sua musica viscerale e swingante che ben sapeva coniugare la lezione del bop all’avanguardia. Una musica trasgressiva e stimolante, quella di Kirk, che traeva la sua fonte di ispirazione dal ricco patrimonio musicale e dal folklore afroamericano: dal blues (del quale era un grande interprete e un prolifico compositore), alla church music, al soul.
Il polistrumentismo, l’aspetto scenico e teatrale, sono elementi caratteristici e inconfondibili della sua musica; concepiti forse inconsciamente al fine di mitigare quasi per incanto l’impietosa barriera della cecità.
Grazie alla tecnica della respirazione circolare, che gli consentiva una emissione continua di fiato, Kirk era in grado di suonare più strumenti simultaneamente e di ingaggiare delle estenuanti chases con sé stesso.
Possedeva, oltre agli strumenti canonici, una collezione di aerofoni e idiofoni davvero impressionante, fra cui spiccavano per singolarità: il manzello, una sorta di sassofono soprano in si bemolle, dalla campana più lunga e lievemente incurvata, lo stritch, simile al sassofono contralto ma modificato nella tastiera. Strumenti antichi e di origine spagnola che aveva scovati presso il negozio di un rigattiere. A questi si aggiungevano una serie di flauti e fischietti e di strumenti assemblati bizzarramente da lui stesso ideati: il “Surolophone”, una specie di trombone giocattolo con l’imboccatura del sassofono, le “Black MisteryPipes”, strumenti a fiato in bambù forniti di una campana metallica, e ancora carion dall’intenso potere evocativo, come la sua “evil box”, annoniche e un piccolo registratore completo di nastri preregistrati che gli consentivano, nel corso dello spettacolo, di duettare e di dialogare con personaggi e musicisti del passato.
Quando questo eclettico one-man-band entrava in scena, accompagnato da una selva di strumenti appesi al collo e altri nella campana del sassofono, si poteva assistere a uno spettacolo nello spettacolo; ma il tutto mai a discapito della buona musica che sapeva elargire al pubblico con classe e generosità. Per la sua innata predisposizione alla teatralità, fu spesso accusato di eccessivo istrionismo fine a sé stesso, di essere, in poche parole, un bonario intrattenitore circense. Niente di più falso. Basti ascoltare, con attenzione, la grande messe di incisioni pubblicate nel corso di circa un ventennio di attività e che rivelano, pur con qualche comprensibile flessione creativa e obiettive cadute di gusto, un artista completo e originale, difficilmente classificabile; anticipatore tra l’altro di alcune tendenze musicali del jazz contemporaneo, e non solo (vedi New Age e World Music), ma soprattutto, che attende ancora oggi di essere studiato seriamente.
(1 continua)