Tutti gli articoli di Roberto Filippi

Finalmente riappaiono !!!!!

Come fantasmi provenienti da un remoto passato appaiono nella Villa Caffarelli una novantina di reperti facenti parti della grande Collezione Torlonia. Questa raccolta ha una storia interessante, complessa e talvolta oscura.
I Torlonia, di origine francese, giunsero a Roma nella seconda metà del ‘700 ed esercitarono il commercio e soprattutto l’attività bancaria; questa si rivelò particolarmente lucrosa a fine secolo, durante l’occupazione francese, quando tasse, confische ed estorsioni costrinsero le famiglie nobili romane e i grandi ordini religiosi ricchi di terre, palazzi ed opere d’arte ma non di denaro contante a svendere buona parte del loro patrimonio. Ed i Torlonia che disponevano invece di grande liquidità acquistarono di tutto: titoli nobiliari, tenute, ville ed un gran numero di opere d’arte pittoriche e scultoree; entrarono così in possesso di un cospicuo numero di reperti archeologici romani, ceduti da altre famiglie, e molti altri ne acquisirono promuovendo scavi sistematici nei terreni di loro recente proprietà.
A metà ‘800 avevano la più grande raccolta archeologica privata e costruirono in via della Lungara, vicino a Porta Settimiana, un edificio apposito destinato ad accogliere l’imponente collezione. Nel frattempo i Torlonia si erano inseriti tra la più eletta nobiltà romana acquisendo, nei vari rami, i titoli di Principi di Civitella Cesi, del Fucino, di Poli e Guadagnolo. Il Museo Torlonia non era aperto al pubblico e soltanto studiosi, amici e poche persone selezionate dalla famiglia avevano occasione di visitarlo; tale situazione si protrasse fino agli anni ’60 del XX secolo quando i Torlonia decisero di valorizzare la loro proprietà trasformando il museo in una serie di mini appartamenti di gran pregio.
Il mondo culturale dell’epoca si scatenò in un’epica lotta per impedire il misfatto ma i Torlonia con la complicità o l’ignavia dell’allora Amministrazione Comunale tirarono dritto, effettuarono la trasformazione e celarono la collezione in qualcuna delle loro proprietà. Nella primavera del 1992, presso il Palazzo delle Esposizioni, si tenne una mostra dal titolo “Invisibilia”; erano esposte opere scarsamente visibili perché in depositi o in raccolte private e tra loro appariva una selezione di marmi Torlonia. Nel catalogo poi era presentato un progetto di futura esposizione di parte della collezione in vari piani del Palazzo Giraud Torlonia in via della Conciliazione. A fine mostra i reperti sono tornati nei loro “ascosi recessi” e sui marmi Torlonia è sceso nuovamente l’oblio che ora si dirada con l’apparizione di una novantina di marmi nella mostra a loro dedicata.
Le opere esposte sono bellissime e perfette anche perché in parte provengono dalla raccolta Cavaceppi un abilissimo scultore del tardo ‘700 specializzato nel restauro delle statue romane danneggiate secondo il gusto dell’epoca che prediligeva opere perfette da utilizzare per arredamento di interni e giardini. La mostra è stata organizzata dal Ministero e dal Comune con allestimento a cura di David Chipperfield Architects; i Torlonia con il supporto di Bulgari hanno provveduto al restauro di molte statue. L’esposizione è articolata su cinque sezioni che ripercorrono le vicende storiche che hanno permesso il formarsi della collezione.
Si inizia con il Museo cioè con i primi lotti acquistati ad inizio ‘800 e costituenti il nucleo originario ospitato in via della Lungara, seguono i reperti rinvenuti negli scavi nelle varie proprietà, le statue ottenute con l’acquisto di Villa Albani e della collezione Cavaceppi, l’acquisizione della raccolta dei Principi Giustiniani ed infine opere sparse provenienti da raccolte formatesi nel Rinascimento.
La mostra è conclusa scenograficamente da un tavolo con il piano in porfido antico su cui è esposto il primo esemplare fotografico del catalogo della collezione Torlonia. Grandi sono gli entusiasmi destati dalla mostra ma cosa succederà alla chiusura? Dovremo aspettare altri trenta anni per rivedere qualcosa?


Marmi Torlonia
Dal 14 ottobre 2020 al 29 giugno 2021

Roma
Musei Capitolini


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Una tomba dimenticata

All’interno del grande cimitero Flaminio, più noto come Prima Porta, si trova un piccolo settore recintato con un accesso pedonale dalla via Flaminia; è quanto resta dell’antico cimitero Montebello inglobato nel dopoguerra nel Flaminio. Tra vecchie tombe spicca un singolare sarcofago in tufo di stile vagamente etrusco con incisa sul frontale la scritta Ten. Pil. Paolo Badoglio di Addis Abeba . Si tratta di un giovane ufficiale pilota di complemento figlio del più famoso Maresciallo . Di lui poco si sa, anche per la brevità della vita: laureato e coniugato senza figli prese parte alla guerra contro l’Etiopia in una squadriglia da bombardamento meritando una medaglia d’argento, richiamato a domanda allo scoppio della II Guerra Mondiale fu assegnato ad un reparto da ricognizione nel sud della Libia con lo scopo di controllare i Francesi del Ciad che, dopo aver aderito a Francia Libera, sotto la guida del generale Leclerc attaccavano i nostri presidi nel Fezzan. E a Sebha morì nel ribaltamento di un automezzo militare. Un piccolo mistero si origina dalla localizzazione della tomba in quanto il defunto non è seppellito nel sepolcro di famiglia a Grazzano, comune piemontese di origine dei Badoglio, ma in un piccolo cimitero rurale situato allora in zona isolata e distante 15 chilometri dal centro di Roma; aveva forse una villa nella zona? Il sarcofago per il suo inconfondibile stile littorio sembra essere stato predisposto poco dopo la morte del Badoglio, sul fianco molte aquile e scritte poco distinguibili perché incise nel tufo, tra loro spiccano i motti del ducato di Addis Abeba che il Maresciallo ottenne dopo la vittoriosa conclusione della guerra d’Etiopia “ come falco giunse “ e quello del marchesato del Sabotino, nella 1° Guerra Mondiale, “per dritto segno”. Ma le domande e le curiosità sono destinate a rimanere tali; l’unica cosa  certa è l’epigrafe:” Ten. Pil. Paolo Badoglio di Addis Abeba  Roma 6/1/1912, Sebha  30/4/1941. Caduto per la Patria”. Una motivazione che lo accomuna al milione e più di italiani, militari e civili, morti in cinque guerre in poco più di trenta anni.

La carica dei Caravaggeschi

Dopo tre mesi da incubo alcune attività culturali vanno pian piano risvegliandosi ed ai Musei Capitolini è stata presentata la mostra “Il tempo di Caravaggio. Capolavori della collezione di Roberto Longhi”. Si tratta di una cinquantina di dipinti provenienti dalla Fondazione Longhi istituita in memoria del grande studioso d’arte; la Fondazione ha sede in una pregevole villa antica nei dintorni di Firenze ed ospita la collezione di dipinti, la biblioteca e la fototeca.

Il Longhi, nato nel 1890 e morto nel 1970, sin da giovane si distinse nei suoi studi sull’arte ed insegnò in varie università; i suoi interessi spaziarono in varie epoche toccando numerosi artisti dal contemporaneo Morandi agli ottocenteschi Courbet e Renoir. Ma il suo amore si rivolse soprattutto al Caravaggio per il quale organizzò nel 1951 la celebre mostra “Caravaggio e i Caravaggeschi” che valse a riportare l’attenzione degli studiosi e del grande pubblico sul Merisi ed i suoi seguaci.

L ‘arte del XVII secolo fino ai primi del ‘900 era tenuta piuttosto nell’ombra a favore di altri artisti di differenti periodi storici più apprezzati dalla storiografia nazionalista dell’epoca che privilegiava l’arte del Medioevo e del Rinascimento ritenuta più genuinamente italiana. Invece il Longhi aveva interesse per la pittura del seicento in particolare per il Caravaggio e per i tanti artisti che, pur con infinite sfumature, a lui si ispirarono.

La raccolta longhiana iniziò nel 1928 con l’acquisto del dipinto del Caravaggio “ Ragazzo morso dal ramarro” e proseguì per anni acquisendo opere di numerosi pittori, italiani e stranieri, che elaborarono la lezione del grande artista riproponendola anche decenni dopo la sua morte. Per ricordare il cinquantenario della scomparsa del Longhi l’Assessorato e la Sovrintendenza di Roma Capitale con il concorso della Fondazione e l’organizzazione di Zetema e Civita avevano predisposto una mostra che, per i noti eventi, è stata aperta solo il 16 giugno e che espone una cinquantina di pezzi della collezione scelti tra i più significativi in relazione al titolo.

L’esposizione si apre con il famoso “Ragazzo morso dal ramarro” che è stato l’atto di nascita della collezione, seguono alcuni dipinti da autori tardo manieristi che mostrano quale fosse il clima culturale nel quale si formò il giovane Caravaggio, si continua con tele del Saraceni, del Caroselli, del Moncalvo, del Fetti.

I caravaggeschi napoletani sono presenti con opere di Ribera, detto lo Spagnoletto, e di Battistello Caracciolo mentre di stranieri sono i dipinti di Valentin de Boulogne, che espone la splendida “Negazione di Pietro”, dell’Honthorst, del Baburen, dello Storm.

Di grande fascino sono le opere di Viviano Codazzi, di Filippo Napoletano, di Bernardo Strozzi e di altri meno celebri artisti,. Il percorso museale si conclude con quattro tele, due di Mattia Preti e due di Giacinto Brandi operanti decenni dopo la morte di Caravaggio e che mostrano quanto sia rimasto valido il messaggio lasciato dal grande artista.


Il tempo di Caravaggio
Capolavori della collezione di Roberto Longhi
Dal 16 giugno al 20 settembre 2020

Musei Capitolini
Roma

Orario:
tutti i giorni dalle 9,30 alle 19,30

Catalogo:

Matsilio Editori

Informazioni:
tel. +39 060608


Un marchigiano a Roma: Una mostra da visitare sul Web

Un tempo correva il detto “meglio un morto in casa che un marchigiano fuori della porta”, era l’espressione della forte avversione dei romani nei riguardi degli esattori delle tasse che Papa Sisto V, marchigiano, aveva scelto tra i suoi corregionali. Ma ormai sono passati secoli ed ora Roma festeggia un marchigiano illustre, Raffaello Sanzio, ospitando, nei suggestivi spazi delle Scuderie del Quirinale, una imponente mostra sull’artista.

Raffaello nacque ad Urbino nel 1483, figlio di Giovanni Santi pittore, scrittore, poeta, intellettuale di valore inserito nell’ambiente umanistico della corte dei Montefeltro signori di Urbino. Raffaello iniziò il suo apprendistato presso il padre, e dopo la sua morte nel 1494, il giovanissimo artista continuò a frequentare la bottega paterna e successivamente fu a lungo con il Perugino. Insieme con Evangelista di Piero di Meleto lavorò a Città di Castello decorando uno stendardo con la Santissima Trinità, passò poi a Perugia dipingendo la “Pala Colonna “ e la “Pala Oddi”; si spostò a Siena collaborando con il Pinturicchio negli affreschi della Libreria Piccolomini e a Firenze dove dipinse lo “Sposalizio della Vergine” ed ebbe i primi rapporti con la pittura di Leonardo da Vinci.

La fama raggiunta lo portò a lavorare in varie città dell’Italia Centrale finché Papa Giulio II Della Rovere lo chiamò a Roma per affrescare le Stanze dell’Appartamento Papale; contemporaneamente dipinse nel 1507 la famosa “Pala Baglioni” e il noto ritratto di Giulio II. Ebbe ottimi rapporti con il nuovo Papa Leone X Medici che gli affidò numerose commissioni e lo nominò Sovrintendente ai lavori architettonici della Basilica Vaticana e alle antichità archeologiche di Roma verso le quali Raffaello aveva un particolare interesse. Fu amico di Agostino Chigi all’epoca il più noto e ricco banchiere, mercante e imprenditore dell’intero mondo occidentale, che aveva fatto costruire dall’architetto Baldassarre Peruzzi una fastosa villa extraurbana, ora nota coma “la Farnesina” dal nome dei successivi proprietari, e Raffaello vi affrescò il “Trionfo di Galatea” e, con i suoi aiuti, la “ Loggia di Psiche”. Dipinse la “Fornarina “, forse una sua amante, e per vari committenti la “Madonna di Foligno”, la “Madonna Sistina, l’”Estasi di S. Cecilia”, la “Madonna della Seggiola”; per il Papa preparò i cartoni degli arazzi della Cappella Sistina tessuti poi nelle Fiandre e come architetto si occupò dei progetti di Villa Madama, Palazzo Braconio dell’Aquila e Palazzo Alberini. Affrescò, con i collaboratori, le Logge Vaticane e nel 1516 iniziò a dipingere la “Trasfigurazione” rimasta incompiuta.

Morì improvvisamente il 4 aprile 1520, Venerdì Santo, e come da suo desiderio fu sepolto nel Pantheon; una settimana dopo morì il suo grande amico e mecenate Agostino Chigi. La sua morte gettò nella costernazione l’intero mondo artistico ed intellettuale dell’epoca in quanto Raffaello era stimato e apprezzato dagli uomini ed adorato dalle donne che l’artista frequentava con un impegno sovente eccessivo come maliziosamente citato dalle fonti contemporanee. Il “Divino Pittore” era affabile e di buon carattere, ben diverso dallo scontroso Michelangelo, frequentava la corte pontificia e le famiglie nobili apprezzato per le sue qualità, la cultura e le buone maniere. Aveva organizzato una fiorente bottega con aiutanti di gran valore il che gli permetteva di produrre opere in gran numero e di ottima qualità; i suoi principali collaboratori furono Giovanni Penni, Perin del Vaga, Giulio Romano, Giovanni da Udine, l’incisore Marcantonio Raimondi e lo scultore Lorenzetto tutti destinati in futuro a buona fama.

La mostra è stata organizzata per ricordare i 500 anni trascorsi dalla morte dell’artista ed espone circa 200 opere delle quali 120 assegnate alla mano dell’Urbinate; i quadri sono poco più di una ventina il resto sono disegni e bozzetti, purtroppo la parte più grandiosa di quanto prodotto dalla bottega di Raffaello è costituita da affreschi per loro natura inamovibili; il resto di quanto esposto è costituito da reperti archeologici, incisioni, disegni, riproduzioni di altri artisti per far comprendere quale fosse il mondo artistico dell’epoca. La mostra è articolata in maniera singolare, si svolge in ordine cronologico al contrario partendo dalla morte di Raffaello risalendo poi fino agli esordi; anche nel titolo della mostra le date di nascita e morte sono invertite 1520-1483.

La mostra, coerentemente, si apre con la riproduzione, a grandezza reale, della tomba sovrastata dalla Madonna scolpita da Lorenzetto e prosegue esibendo un autoritratto di Raffaello sulla trentina, con una inconsueta barba, e i dipinti di due suoi grandi amici gli intellettuali umanisti Pietro Bembo e Baldassarre Castiglione; il ritratto di un altro amico, Fedra Inghirami, è al piano superiore. In una bacheca è esposta una lunga lettera, di pugno del pittore e conservata all’Archivio di Stato di Mantova, nella quale Raffaello, coadiuvato da Baldassarre Castiglione, scriveva a Papa Leone X lamentando l’incuria nella quale erano tenute le antichità romane. Il Papa accolse la proposta e Raffaello divenne il sovraintendente alla curatela delle antichità archeologiche che amava intensamente e che erano per lui fonte inesauribile di ispirazione.

Una sala espone due arazzi, tessuti nelle Fiandre, predisposti per la decorazione della Cappella Sistina ed ora nei Musei Vaticani; Raffaello ne dipinse i cartoni; i 7 rimasti sono ora in Inghilterra ed in mostra è esposta la riproduzione di uno di essi, a grandezza naturale, posta di fronte al corrispondente arazzo vaticano. Il piano superiore accoglie i visitatori con tre ritratti di donne: una sconosciuta, opera giovanile, e due notissime, la “Fornarina” e la “Velata”.

Altre sale esaminano le attività dell’Urbinate in campo architettonico con molti suoi disegni per progetti per la Basilica di San Pietro e per la Villa Madama, su una parete spicca la riproduzione della facciata del non più esistente Palazzo Braconio dell’Aquila in Borgo. In altre sale diverse Madonne tra cui quelle “della Rosa”, “dell’Impannata” e “Tempi “corredate da numerosi interessanti disegni preparatori. Con i vivaci toni rossi delle vesti spiccano i ritratti di Papa Giulio II e di Leone X; la grande tela dell’“Estasi di Santa Cecilia” è posta a confronto con un busto di Iside che condivide con la Santa la singolare acconciatura dei capelli. Le ultime sale espongono dipinti giovanili ancora legati allo stile dei pittori dell’ultimo ‘400 e prima dell’incontro con l’innovativa arte di Leonardo.

La mostra si chiude con il famosissimo autoritratto di Raffaello all’età di circa venti anni fiancheggiato dal quadro della “Dama con l’Unicorno”.e dalle immagini di due giovani nobiluomini purtroppo anonimi La mostra è piacevole, interessante, scientificamente valida, unico piccolo neo, come accade sovente, i cartellini esplicativi sono spesso poco leggibili.

Accanto all’esposizione delle opere sono previste numerose iniziative quali lezioni, incontri, conferenze, laboratori.


Raffaello.1520-1483: Una passeggiata in mostra
Una visita virtuale per superare le ristrettezze sociali imposte dalla situazione pandemica


Raffaello 1520-1483
Dal 5 marzo al 2 giugno 2020
Proroga dal 2 giugno al 30 agosto 2020

Scuderie del Quirinale
Roma


L’Olandese torna nel palazzo del Principe

Più precisamente un quadro del pittore olandese Rembrandt, in possesso del Rjikmuseum di Amsterdam, è esposto per alcuni mesi presso la Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Corsini dove era stato dal 1737 al 1799 nella collezione dell’omonima famiglia principesca. Rembrandt Harmenszoon van Rjin nacque a Leida nel 1606 e giovanissimo iniziò a frequentare gli studi di buoni pittori della sua città e, poco più che ventenne, aprì una sua bottega che gli procurò ben presto una vasta notorietà; ebbe anche grandi dolori per la morte della moglie e di alcuni figli.

Nel 1631 si trasferì ad Amsterdam  lavorando senza posa e producendo dipinti, spesso firmati, incisioni e disegni  con soggetto mitologico, storico, religioso, biblico  insieme con numerosi fascinosi paesaggi. Negli ultimi anni di vita ebbe problemi economici e dovette vendere la casa e i molti quadri della sua collezione; morì nel 1669.

Contrariamente a parecchi artisti suoi contemporanei non visitò mai l’Italia ma molto si ispirò alla pittura caravaggesca, usò il chiaroscuro, sfruttò effetti di luce ed ombra, utilizzò colori ad olio decisi ottenendo cromatismi di grande spessore. Il quadro esposto è  noto come “l’Autoritratto come San Paolo” ed è uno dei tanti dipinti , di vario soggetto, nei quali l’artista amava autorappresentarsi; l’identificazione con l’Apostolo è dato da un fascio di fogli in mano, le Epistole, da una piccola spada tenuta in grembo e da una poco visibile inferriata rappresentante le prigioni che ospitarono il Santo. E’ dipinto nello stile degli ultimi anni di vita dell’artista con pennellate larghe e pastose, è su fondo scuro e brillante su cui spiccano il chiarore del volto e il bianco del turbante.

La storia  del quadro è lunga e complessa; firmato e datato nel 1661 lo si trova più di trenta anni dopo nell’inventario postumo di un collezionista parigino, in data ignota passò nella collezione del pittore francese Vleughels, direttore dell’Accademia di Francia a Roma e alla sua morte, intorno al 1737, la vedova lo vendette al Cardinale Neri Corsini nipote del Papa Clemente XII. Rimase nel palazzo principesco, esposto nella “Galleria dei quadri”, fino al 1799 quando a Roma arrivarono le truppe francesi di Napoleone che imposero sia al Papa che alle famiglie nobili gravose contribuzioni in denaro. In assenza del Principe Tommaso, che si trovava in Sicilia, il maestro di casa, Ludovico Radice, propose la vendita di alcuni quadri e, nonostante l’opposizione del principe, concordò con un mercante, in cambio di 3.500 scudi, la cessione di 25 dipinti tra i quali il nostro.

l Corsini riuscì a riavere indietro 9 quadri tuttora presenti in Galleria mentre gli altri attraverso mercanti d’arte inglesi andarono all’estero. Il Rembrandt passò per varie mani e diverse collezioni per giungere, nel 1936, ai coniugi de Bruijn che nel 1960 lo donarono al museo che tuttora lo ospita. La mostra espone in una sala il Rembrandt con di fronte il quadro settecentesco del Cardinale Corsini insieme con lo zio Papa, intorno parecchie incisioni dell’artista olandese, per le quali era famoso, provenienti dalla raccolta Corsini ed ora all’Istituto  Centrale per la Grafica; tra loro due molto celebri: “I cento fiorini” e “I tre alberi”.

In una saletta laterale un piccolo quadro con il ritratto del Principe Tommaso Corsini e due  incisioni di inizio ‘800 una delle quali di Charles Turner; una vetrina ospita lettere e documenti, provenienti dall’archivio Corsini, che hanno permesso di ricostruire le tormentate vicende dell’opera.


Rembrandt alla Galleria Corsini
L’Autoritratto come san Paolo

Dal 21 febbraio al 15 giugno 2020

Roma
Galleria Corsini
via della Lungara 10

orario:mercoledì/lunedì 8,30 – 11,90