E’ stato appena presentato il restauro della fontana della Pigna situata in un angolo di Piazza San Marco, è stato finanziato, con la spesa di 19.000 euro, dal Rotary Club Roma e compiuto dal Consorzio R.O.M.A.. Il manufatto si presentava in stato di degrado dovuto alle concrezioni calcaree per il tipo di acqua in uso a Roma ed anche all’utilizzazione massiccia; infatti, data la sua posizione, è un “abbeveratore” per torme di turisti e a volte luogo di abluzioni per “migranti” che affluiscono alla mensa dei Gesuiti nella vicina via degli Astalli. La fontana fa parte di un lotto di fontanelle rionali commissionate nel 1925 dal Governatorato di Roma allo scultore Pietro Lombardi e inaugurate il 28 ottobre 1927, data simbolica all’epoca. Le fontanelle dovevano ispirarsi al nome o alle attività del Rione in cui erano collocate; abbiamo così quelle delle Anfore a Testaccio, una con Palle di Cannone a Borgo, vicino a Castel Sant’Angelo, una con Tavole e Pennelli a Via Margutta, una con una catasta di Libri a Sant’Eustachio nei pressi dell’ antica Università “ La Sapienza”. Nel nostro caso ripete il nome del Rione, IX Pigna, ed il suo più celebre monumento antico: una pigna di bronzo alta 4 metri situata in epoca romana più o meno nelle vicinanze del Pantheon ed ora nell’omonimo cortile in Vaticano dopo essere stata per secoli in Piazza San Pietro dove fu vista e citata da Dante. La fontana del Lombardi è in travertino ed è composta da una pigna posta sopra un calice formato da foglie a sua volta sovrastante una serie di vaschette, sui lati del pilastro che regge il tutto da una parte uno stemma abraso con la scritta R. IX, dall’altra si intuiscono resti di un fascio scalpellato e la scritta A(nno) V (E.F); l’area è delimitata da quattro colonnotti. E’ un’opera, come le sue consorelle, graziosa e simbolica, fa pensare con nostalgia, esclusivamente artistica, ai tempi del Governatorato che ordinava e faceva eseguire celermente mentre ora il Comune in molti casi deve ringraziare generosi mecenati che a lui si sostituiscono.
Tutti gli articoli di Roberto Filippi
Il pittore e il mistero svelato
Esaminiamo la frase che sembra il titolo di un libro giallo. Il pittore: Bernardo di Betto più noto come Pintoricchio, soprannome originato unendo la sua professione con una corporatura minuta, nato a Perugia intorno al 1450 iniziò il suo apprendistato, non conosciuto, presso pittori locali associandosi poi con il Perugino.
La sua prima opera nota è la partecipazione al cantiere dell’Oratorio di San Bernardino a Perugia, fu poi a Roma con il Perugino nella Cappella Sistina; nell’Urbe dipinse nella Cappella Bufalini nella chiesa dell’Aracoeli, nel Palazzo Della Rovere, ora dei Penitenzieri, in Borgo e a lui e ai suoi collaboratori sono attribuite due, forse quattro, cappelle in Santa Maria del Popolo. Entrato in contatto con il Papa Alessandro VI Borgia fu chiamato ad affrescare l’appartamento papale; insieme ai suoi collaboratori Piermatteo d’Amelia, Raffaellino del Garbo, Pellegrino Tibaldi, coprì le pareti con una mirabile serie di dipinti seguendo una precisa iconografia religiosa.
Operò anche a Castel Sant’Angelo, intervenendo nella decorazione di un torrione costruito a picco sul fiume e demolito a metà ‘600, nel grande affresco del soffitto del coro di Santa Maria del Popolo e nella Cappella Baglioni a Spello; a Siena dipinse la Libreria Piccolomini nel Duomo. Oltre che per questi grandi cicli di affreschi fu abile pittore di cavalletto lavorando per committenti religiosi e laici. Ricco e famoso morì a Siena l’11 dicembre 1513. Pittore pienamente inserito nel Rinascimento si contraddistinse per il suo stile calligrafico e minuto, per le sue figure composte dalle espressioni serene, per il suo riferirsi a reminiscenze gotiche, per la scelta dei colori sontuosi ed eleganti. Passiamo ora alla seconda parte esaminando con occhio curioso la vita della Roma papale di fine ‘400 in cui operò il nostro Pintoricchio. All’epoca era pontefice Alessandro VI Borgia, di origine aragonese, molto discusso per la sua vita privata; prima di essere eletto papa aveva avuto, da una relaziona con Vannozza Cattanei, quattro figli tra cui Lucrezia e Cesare, detto il Valentino. Anche dopo la sua elezione continuò ad avere una vita dissoluta e dal punto di vista politico coinvolse lo Stato della Chiesa in guerre con altri stati italiani favorendo l’entrata in Italia del re di Francia Carlo VIII. Colto e mecenate di ogni tipo di arte, fece della Curia pontificia uno dei centri culturali più vivaci dell’Italia del Rinascimento. Chiamò a Roma il Pintoricchio per affrescare il suo appartamento in Vaticano e tra i vari personaggi fece dipingere se stesso avvolto in uno splendido piviale dorato, forse la figlia Lucrezia ed il principe Turco Djem, fratello del Sultano, allora in esilio a Roma. Alessandro VI, ultrasessantenne. si innamorò di una giovane, all’epoca ritenuta molto avvenente, conosciuta come “la bella Giulia”; nata Farnese, coniugata con un Orsini, madre di una bimba dalla dubbia paternità, la donna attirò l’attenzione del Borgia che se la tenne sempre vicina, con il tacito consenso del marito e della famiglia d’origine, creando scandalo nella pur tollerante Roma rinascimentale.
L’influenza di Giulia favorì la carriera del fratello Alessandro che a 25 anni divenne Cardinale oggetto di feroci pasquinate ; in giovane età ebbe figli che dettero origine alla dinastia dei Farnese duchi di Parma e Piacenza poi prese gli ordini sacri e divenne papa con il nome di Paolo III. Fu grande mecenate, si dedicò alla riforma della Chiesa ed iniziò il Concilio di Trento. Tra le varie stanze dell’Appartamento Borgia, in gran parte ancora esistente e visitabile, il Pintoricchio, con il suo stile nitido ed elegante, affrescò la stanza da letto del papa decorando una parete con l’immagine del papa, con un manto rosso, inginocchiato davanti ad una Madonna che tra le braccia ha il Bambino che protende le mani, una delle quali tiene un globo aureo con una croce, verso il papa che a sua volta gli carezza un piede. Nella Corte cominciarono a correre voci malevole propalate da avversari dei Borgia e dei Farnese che sostenevano trattarsi del papa inginocchiato davanti a Giulia rappresentata come la Vergine.
La diceria continuò per decenni tanto che oltre 50 anni dopo il Vasari parlò di “Signora Giulia Farnese per il volto di Nostra Donna” e i papi successivi dovettero intervenire. Giulio II Della Rovere, immediato successore, si trasferì in un nuovo appartamento che fece affrescare da Raffaello e in quello Borgia furono ospitati i Cardinali Nipoti; Pio V Ghislieri, a metà ‘500, fece coprire l’affresco con tappezzerie, nel 1612, durante il pontificato di Paolo V Borghese, l’ambasciatore del Duca di Mantova corruppe un servitore con un paio di calze di seta, fece copiare il dipinto da un mediocre pittore, Pietro Fachetti, e lo inviò a Mantova.
A metà ‘600 papa Alessandro VII Chigi per porre fine ad una leggenda circolante da un secolo e mezzo fece distruggere l’affresco; frammenti con la testa della Madonna ed il Bambino furono salvati, incorniciati formando due piccoli quadri separati rimanendo per secoli dei Chigi e finendo poi, decontestualizzati ed ignorati, sul mercato antiquario. Soltanto negli ultimi anni i due frammenti sono stati abbinati al quadro di Mantova ricostruendo l’immagine dell’affresco perduto; già nel 2007 in una mostra a Palazzo Venezia è stato presentato il quadro con il Bambino destando grande interesse e curiosità per due mani, una su un fianco e l’altra intorno ad un piede, appartenenti a due diverse persone mostrando evidentemente che il Bambino faceva parte di un gruppo.
Successivamente è ricomparso, proveniente da una collezione privata, il piccolo quadro con il volto di una Madonna e la Sovrintendenza Capitolina unitamente all’Associazione Culturale MetaMorfosi e a Zetema Progetto Cultura ha organizzato una mostra che riunisce i due frammenti di affresco, il quadro di Mantova ed una trentina di opere, quadri, stampe, documenti riferibili all’attività del Pintoricchio. Ai Musei Capitolini è stata ricostruita una parte della vita culturale dell’ultimo ‘400 romano, riproducendo anche con gigantografie alcuni affreschi dell’Appartamento Borgia. Attraverso il confronto tra i due frammenti e la copia del Fachetti i curatori, Acidini, Buranelli, La Malfa, Strinati, hanno ricostruito l’immagine dell’affresco originario e sono giunti ad una importante conclusione. L’eguaglianza Madonna-Giulia è insostenibile ed è una diceria falsa; il viso della Madonna non è un ritratto di Giulia, che forse è stata identificata in un affresco molto deteriorato nel castello farnesiano di Carbognano, ma è il tipico volto allungato delle Madonne del Pintoricchio che mantengono sempre un carattere di dolcezza, di soavità.
L’affresco avrebbe rappresentato l’investitura divina al papa Alessandro; non sarebbe il papa che ammira Giulia ma il Bambino, sorretto dalla Madonna, che concede al pontefice la potestà di Suo Vicario. Pittore identificato e mistero svelato.
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Pintoricchio. Pittore dei Borgia
Il mistero svelato di Giulia Farnese
Dal 19 maggio al 10 settembre 2017
Musei Capitolini (Palazzo Caffarelli)
Piazza del Campidoglio
Roma
Orari:
tutti i giorni 9.30 – 19.30 (la biglietteria chiude un’ora prima)
Ingresso:
€ 15 biglietto intero integrato Mostra + Museo (comprensivo della tassa del turismo per i non residenti a Roma);
€ 13 biglietto ridotto integrato Mostra + Museo, per i non residenti a Roma (comprensivo della tassa del turismo per i non residenti a Roma)
Gratuito per le categorie previste dalla tariffazione vigente
Informazioni:
tel. 060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 19.00)
Catalogo:
Gangemi
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Il Candelabro della memoria
L’oggetto in questione è la Menorà, un grande candelabro d’oro a sette bracci che si trovava nel Tempio di Gerusalemme fino alla sua distruzione nel 70 d.C.. La sua storia, documentata, è esigua, la sua leggenda vasta e articolata; si inizia con l’Antico Testamento allorché Dio comandò a Mosè di far fondere un candelabro a sette bracci di oro purissimo e pesante circa 35 chili. Il candelabro seguì con l’Arca dell’Alleanza le peregrinazioni del popolo ebraico finché fu ospitato nel grande Tempio eretto da Salomone intorno al 950 a.C.; lì rimase per quattro secoli fino alla distruzione dell’ edificio sacro da parte dei Babilonesi di Nabucodonosor e la deportazione degli Ebrei. Anni dopo questi ultimi furono liberati dal Persiano Ciro e tornarono a ricostruire Gerusalemme ed il Secondo Tempio dove fu di nuovo collocata la Menorà, forse l’antico o più probabilmente un nuovo cadelabro dato che le vaghe descrizioni bibliche non concordano.
Il grande oggetto liturgico sopravvisse nei secoli seguenti in cui in Palestina si alternarono vari dominatori fino alla rivolta dei Maccabei che ripristinarono la libertà di Israele. Poi sopraggiunsero i Romani e durante la grande rivolta del 70 d.C. Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano, assediò e prese Gerusalemme, il Tempio fu incendiato e l’arredo sacro predato. In una parete interna dell’Arco di Tito, al Foro Romano, è rappresentato il suo trionfo con un corteo di soldati romani che trasportano la Menorà e le trombe d’argento del Tempio; il candelabro fu esposto nel Foro della Pace costruito da Vespasiano e lì finisce la storia e comincia la leggenda.
Non si sa che fine abbia fatto il prezioso candelabro: potrebbe essere stato asportato durante il sacco di Roma dei Visigoti di Alarico del 410 d.C. o in quello dei Vandali di Genserico del 455; vaghi accenni su un tesoro imperiale romano trasferito in Africa e lì recuperato dai Bizantini e portato a Costantinopoli appaiono negli scritti dello storico Procopio da Cesarea ma non sono tali da essere plausibili. Della fine del ‘200 è una grande iscrizione, su mosaico, dell’epoca di Papa Niccolò IV nella Basilica di San Giovanni in Laterano; su di essa sono elencate le reliquie che sarebbero state contenute in un sotterraneo della chiesa e tra esse è indicato un oggetto identificabile con un candelabro ma accurati accertamenti non hanno dato alcun risultato.
Altre leggende, assolutamente improbabili, sostengono che la Menorà sia ancora giacente nell’alveo del Tevere, altre che sia celato nei sotterranei del Vaticano. Anche se scomparso da tanti secoli il grande candelabro d’oro ha lasciato la sua impronta nella memoria collettiva in particolare del popolo ebraico, sin dall’inizio della diaspora l’immagine è diventata un simbolo di appartenenza e di identità degli israeliti, forse fu l’esposizione nel Foro della Pace a far maturare l’idea di considerare quell’oggetto rubato agli Ebrei come il simbolo della loro unità ed identità pur nella tragedia della diaspora. Il 16 maggio 1948 quando fu proclamata la costituzione dello Stato d’Israele la Menorà fu scelta come simbolo del nuovo stato che raccoglieva, dopo due millenni, parte degli ebrei sparsi per il mondo.
Per ricordare l’evento e per evidenziare gli ottimi rapporti intercorrenti tra la Chiesa Cattolica e la Comunità Ebraica Romana i Musei Vaticani ed il Museo Ebraico di Roma hanno insieme organizzato una mostra che attraverso tre nuclei, il Culto,la Storia, il Mito, ripercorre le millenarie vicende del grande candelabro d’oro. L’esposizione che ospita 130 reperti di vario genere è visitabile presso due sedi, la gran parte delle opere è presso il Braccio di Carlo Magno, accessibile da Piazza San Pietro, le altre sono presso il Museo Ebraico situato nei sotterranei della Sinagoga.
Nel Braccio l’esposizione si svolge come un grande rotolo in cui cronologicamente e per temi sono esposte numerose opere d’arte d’ogni genere sia di provenienza cristiana che ebraica. Si comincia con la Pietra di Magdala, databile a cavallo dell’inizio dell’Era Volgare, trovata recentemente nelle rovine di una antica sinagoga e riportante l’immagine del candelabro, seguono frammenti di marmo, lucerne e lastre tombali con il simbolo stilizzato della Menorà.
Si passa poi al medioevo quando spesso in molte chiese cristiane apparvero candelabri ispirati alla Menorà, in mostra sono esposte bellissime opere quali due pezzi in bronzo, di metà’400, attribuiti a Maso di Bartolomeo, ora nella Cattedrale di Pistoia, e due grandi candelabri d’argento, in stile barocco, provenienti da Majorca. Seguono libri manoscritti, ebraici e cristiani, con eleganti miniature riproducenti la Menorà e tra loro la celebre Bibbia, di San Paolo fuori le Mura, risalente alla fine del IX secolo e donata al Pontefice dell’epoca dall’Imperatore Carlo il Calvo. Sono esposti vari dipinti, due dell’inizio ‘500, del Venusti e di Giulio Romano, rappresentano episodi del Vecchio Testamento con immagini del Tempio, quadri barocchi, tra cui uno del Poussin, rievocano eventi biblici con sullo sfondo il candelabro sacro e seguono anche dipinti dei secoli successivi. Di grande interesse un pannello settecentesco, opera dell’Opificio Pietre Dure di Firenze, composto di pietre colorate che illustrano un episodio veterotestamentario.
Conclude la mostra il bozzetto ultimo, firmato dal primo ministro del 1948, David Ben Gurion, dello stemma dello Stato d’Israele.
Solo dieci le opere esposte al Museo Ebraico, mescolate ai numerosi ed interessanti reperti del museo; tra loro lapidi funerarie provenienti dalle catacombe ebraiche, un paio di dipinti barocchi ed un calco della lastra, sopra citata, di San Giovanni in Laterano con indicazione della Menorà. In conclusione una mostra interessante, anche se è assente il soggetto principale, e ricca di reperti anche poco conosciuti e di suggestioni.
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La Menorà. Culto, Storia e Mito
dal 16 maggio al 23 luglio 2017
Braccio Carlo Magno
piazza San Pietro
Museo Ebraico
via Catalana
Roma
orario:
Braccio Carlo Magno
lunedì, martedì, giovedì, sabato 10/18 – mercoledì 13/18
domenica chiuso
Museo Ebraico
da domenica a giovedì 10/18 venerdì 10/16
sabato chiuso
ingresso:
biglietto unico – Euro 7,00
Catalogo:
SKIRA
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La Belle Epoque al Vittoriano
La pittura sontuosa ed elegante, le linee sinuose, le dolci cromie di Giovanni Boldini sono in mostra al Vittoriano; sono esposte circa 130 opere provenienti da almeno 30 musei italiani ed esteri e da altrettante collezioni private; sono in mostra anche una trentina di dipinti di artisti suoi contemporanei per un utile ed interessante confronto. E’ una rivisitazione dell’arte del pittore alla sua epoca di grande fama ed poi purtroppo un po’ in ombra e che la mostra si incarica di riabilitare completamente. Il Boldini nacque a Ferrara nel 1842 e fece il suo apprendistato con il padre, pittore di tipo accademico, fu poi a Firenze a contatto con l’ambiente dei Macchiaioli di cui per qualche tempo seguì lo stile. Il salto di qualità lo fece trasferendosi a Londra dove acquistò larga notorietà come ritrattista dell’alta società.
Nel 1871 si spostò a Parigi, pur con frequenti viaggi in Europa, frequentando gli Impressionisti ed appoggiandosi alla Maison Goupil dell’omonimo importante mercante d’arte; attraverso la Contessa Gabrielle de Rasty, che divenne sua amante, entrò in contatto con la nobiltà e l’alta borghesia parigina. Assieme ai suoi compatrioti De Nittis e Zandomeneghi, un trio noto come “les Italiens de Paris” si specializzò nella ritrattistica effigiando i maggiori esponenti della vita mondana e della cultura internazionale. Si distinse per una eccezionale abilità tecnica, per l’uso accattivante del colore, per le linee dolci, caratteristiche che fecero di lui un maestro nell’interpretazione dell’eleganza femminile e dei costumi dell’alta società del suo tempo. Per molti anni fu uno dei pittori più richiesti dai committenti, apprezzato e corteggiato dal bel mondo fino a diventare uno dei simboli della Belle Epoque.
La Grande Guerra e gli epocali mutamenti sociali ed economici intervenuti negli anni Venti del ‘900 spazzarono via il suo mondo di grazia, di stile, di eleganza e misero in ombra il Boldini che morì a Parigi, quasi novantenne, nel 1932.
La mostra si articola in quattro sezioni: la prima, “la luce nuova della macchia” (1864-1870), riguarda il suo primo periodo fiorentino e i rapporti con i Macchiaioli, la seconda, “La Maison Goupil tra chic e impressione” (1871-1878), tratta dei suoi esordi parigini e dei suoi contatti con gli Impressionisti, la terza, “la ricerca dell’attimo fuggente” (1879-1890), è relativa al suo periodo di maggior fama ,alla quarta infine, “Il ritratto della Belle Epoque” (1892-1924), appartengono gli anni dei grandi ritratti, tra cui quello di Giuseppe Verdi, con un ripetersi di immagini sensuali, colorate, piene di vita. Le donne sono bellissime, con lunghi colli flessuosi, con forme generose, gli uomini seri, austeri, con un’eleganza semplice e severa. I suoi ultimi dipinti, di poco anteriori alla guerra. Risentono di un qualche influsso delle nuove mode, quali il futurismo di Boccioni, quasi un tentativo di “adeguarsi” con colori stridenti ed ampie linee di movimento. Ma ormai l’arte del Boldini era al tramonto, la Storia aveva distrutto il suo mondo, le Avanguardie artistiche demolivano la figura, annullavano il disegno, scomponevano il colore.
La mostra è un susseguirsi di immagini piacevoli e, soprattutto nelle sezioni terza e quarta, una sfilata di ritratti femminili di grande fascino. Tra loro spicca quello della Baronessa Franca Florio che ha una storia interessante; fu dipinto nel 1901 ma non fu apprezzato da Don Ignazio che trovò il ritratto troppo scollato e provocatorio e sostituito nel 1903 da un altro successivamente sparito.
Il primo, conservato nello studio del Boldini, fu acquistato anni dopo da Donna Franca ma nel 1928, a seguito della bancarotta dei Florio, fu venduto e dopo diversi passaggi è finito nella raccolta Bellavista Caltagirone a cui è stato confiscato a seguito di una procedura giudiziaria; è eccezionalmente esposto in mostra e poi andrà in asta. Accanto ai dipinti sono esposte una quarantina di lettere scritte dal Boldini a Telemaco Signorini nel 1889 nella sua qualità di presidente della commissione d’arte per la sezione italiana dell’Esposizione Universale di Parigi del 1889.
La mostra è stata organizzata da ARTHEMISIA Group e dall’Assessorato alla Crescita Culturale del Comune di Roma.
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GIOVANNI BOLDINI
Dal 3 marzo al 16 luglio 2017
Complesso del Vittoriano
Roma
Orario:
da lunedì a giovedì 9,30 – 19,30
venerdì e sabato 9,30 – 22,00
domenica 9,30 -20,30
la biglietteria chiude un’ora prima
Catalogo
SKIRA
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La tomba del Tasso
Torquato Tasso fu un grande poeta, scrittore e drammaturgo vissuto nella seconda metà del ‘500 e celebre per essere stato l’autore della “Gerusalemme Liberata”. E’ sepolto a Roma nella chiesa di Sant’Onofrio dopo aver vissuto gli ultimi giorni della sua vita tormentata nell’adiacente monastero.
La chiesa ora ricade nel territorio del Rione Trastevere mentre un tempo era situata in un’area extraurbana in quanto le mura Aureliane recingevano il rione secondo il percorso Porta Settimiana, Porta San Pancrazio, Porta Portese; la zona tra il Gianicolo e il Tevere era fuori delle mura finché nel ‘600 Papa Urbano VIII Barberini ampliò la cinta muraria collegando Trastevere a Borgo con una serie di bastioni lungo il crinale del Gianicolo; furono inglobate nella città tutte le abitazioni che nel frattempo si erano estese lungo la via della Lungara, che collega la Porta Settimiana in Trastevere con la Porta Santo Spirito in Borgo, e che si era arricchita di chiese, monasteri e di due palazzi principeschi alle estremità, Palazzo Salviati e Palazzo Riario poi Corsini.
L’edificio religioso nacque nel 1419 come eremo fondato dal Beato Nicolò da Forca Palena e fu trasformato in chiesa con lavori che iniziarono nel 1439 e che durarono per anni specialmente per quanto riguarda l’arredamento interno che contiene opere prodotte tra il ‘500 e l’800.
Alla chiesa, che è adiacente all’ospedale Banbino Gesù, si accede con una scalinata che porta ad un prato con una fontana, su due lati si svolge un portico con lunette decorate ritenute opera giovanile del Domenichino; in fondo al portico sorge una piccola cappella intitolata alla Madonna del Rosario, sul davanti una lunetta con “Sibille” dipinte da Agostino Tassi, all’interno pitture settecentesche con finti sfondi architettonici e sull’altar maggiore una “Natività” di Francesco Bassano il Giovane.
L’interno della chiesa è a navata unica con cinque cappelle laterali, l’abside è interamente coperto di affreschi spartiti in tre registri e attribuiti al Peruzzi forse in collaborazione con il Ripanda.
La prima cappella a destra contiene una “Annunciazione” di Antoniazzo Romano, nella seconda affreschi di G.B. Ricci da Novara e sull’altare una “Madonna di Loreto” assegnata ad Annibale Carracci o alla sua scuola, nella terza a sinistra un dipinto del Domenichino nel monumento funebre del Cardinal Sega; nella prima, ampliata durante il pontificato di Pio IX, la tomba del Tasso, opera ottecentesca di Giuseppe Fabris, con ritratto del 1608 e arricchita da una lampada votiva di Duilio Cambellotti.
Dovunque nella chiesa lapidi e sepolcri di varie epoche, tra loro anche la lastra tombale del fondatore Beato Nicola; anche la sacrestia è ricca di dipinti ed affreschi. Per un piccolo andito si passa in un chiostro rettangolare, della metà del XV secolo, a doppio ordine con colonnine antiche ed archi a tutto sesto, le lunette rappresentano scene di vita di Sant’Onofrio e sono state dipinte in occasione del Giubileo del 1600; quattro sono opera del Cavalier d’Arpino le altre dello Strada e del Ridolfi.
Nel convento ha sede il Museo Tassiano con cimeli e ricordi del poeta. Proseguendo sulla strada che porta al Gianicolo si incontra, sulla sinistra, la “Quercia del Tasso” resti di un albero sotto il quale soleva riposare il poeta.
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Chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo
piazza di Sant’Onofrio, 2
Roma (Trastevere)
Informazioni:
tel. 06/6864498
Apertura della Chiesa
Lunedì-Venerdì / ore 9:00 — 13:00
Domenica / ore 9:00 — 12:00
Chiesa chiusa nel pomeriggio
Orari Santa Messa
Domenica e giorni di precetto
ore 12:00 celebrazione eucaristica
Gli orari possono subire cambiamenti. Si suggerisce di verificare contattando la chiesa
Nota | Note
In questa Chiesa
non si celebrano i matrimoni
Marriages are not celebrated
in this Church
La Chiesa è chiusa in agosto
The Church is closed in August
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