Di notte, le strade di Roma raccontano una storia diversa da quella che molti si aspettano. Non sono solo il palcoscenico di chi si muove tra locali e luoghi di ritrovo, ma anche lo spazio silenzioso di incontri umani straordinari. Qui, nel cuore della Capitale, volontari mossi da un profondo senso di solidarietà dedicano il proprio tempo a portare conforto e pasti a chi ne ha più bisogno.
Un popolo multiculturale di povertà
Nelle vie di Roma, soprattutto in prossimità delle stazioni, si raccoglie un “popolo” invisibile composto da italiani in difficoltà e da persone che hanno cercato rifugio in Italia per sfuggire a guerre e violenze. Questo gruppo eterogeneo non include solo i senza fissa dimora, ma anche chi vive in sistemazioni precarie, spesso privo dei mezzi per garantirsi un pasto quotidiano e costantemente in balia di difficoltà e pericoli.
In una città che si muove a ritmi frenetici, queste persone sanno dove possono trovare un pasto caldo o freddo. Tuttavia, quando non riescono a raggiungere una mensa, sono i volontari a cercarli. Gruppi di cittadini, appartenenti a organizzazioni religiose e laiche, si organizzano per distribuire cibo, bevande calde e, soprattutto, calore umano. Perché il volontariato non appartiene solo alle grandi organizzazioni non governative, ma anche ai tanti che, ogni notte, decidono di donare un po’ del loro tempo per aiutare chi vive ai margini della società.
La forza del volontariato
Iniziative come queste sono rese possibili grazie al lavoro instancabile di volontari che dedicano il loro tempo per alleviare le sofferenze degli altri. Tra i progetti più noti troviamo: Caffellatte, dolci, pizza e calore umano: un’iniziativa che mira non solo a distribuire cibo ma anche a offrire un momento di condivisione e dialogo; Oggi a pranzo a Mensa manchi solo tu! o Cena con amore alla stazione, non solo Ostiense, una proposta che invita i volontari a partecipare alla preparazione e distribuzione dei pasti nelle mense, in strutture parrocchiali e “laiche”, anche come Baobab a Casetta Rossa; RECUP-eriamo cibo nei Mercati: un progetto che si occupa di raccogliere cibo invenduto in alcuni mercati per ridurre gli sprechi e distribuirlo a chi ne ha bisogno, ma anche attività di alfabetizzazione e sportive con minori, disabili, anziani e alla tutela del verde urbano.
Queste iniziative vanno oltre la semplice distribuzione di pasti: offrono un momento di condivisione, la possibilità di leggere un libro insieme o semplicemente ascoltare qualcuno che ha bisogno di sentirsi meno solo.
Grazie a piattaforme come Romaltruista, chiunque desideri aiutare può facilmente mettersi in contatto con associazioni che operano sul territorio. Bastano poche ore per fare una differenza concreta nella vita di chi vive in difficoltà.
Un aiuto che va oltre il cibo
La distribuzione di pasti è solo una parte di un impegno più grande. Ciò che rende queste iniziative davvero speciali è il legame umano che si crea. Per molte persone, un sorriso, una parola gentile o una semplice conversazione valgono quanto, se non più, del cibo offerto. I volontari diventano un ponte tra mondi che spesso sembrano lontani, abbattendo il muro dell’indifferenza e ricordando a tutti noi l’importanza della dignità e della solidarietà.
L’aiuto alle vecchie e nuove povertà non è solo una realtà romana, ma un fenomeno che si ripete in tante città italiane. Ogni notte, centinaia di persone si mettono al servizio degli altri, dimostrando che anche i piccoli gesti possono generare grandi cambiamenti.
Un aiuto prezioso per chi vuole contribuire arriva dalla pubblicazione “DOVE mangiare, dormire, lavarsi” 2025, una guida gratuita giunta alla 35° edizione e distribuita dalla Comunità di Sant’Egidio. Questo libretto è pensato non solo per chi ha bisogno di aiuto, ma anche per chi opera nel sociale. La guida può essere richiesta alla Comunità di Sant’Egidio o scaricata in PDF.
Ogni notte, ma anche giorno, per le strade di Roma, si rinnova una grande lezione di umanità: la solidarietà è un atto quotidiano che illumina le vite di chi aiuta e di chi riceve aiuto.
La Groenlandia geograficamente fa parte del continente americano ma è affiliata alla Danimarca attraverso un processo che da colonia col tempo ha cambiato il suo status. Ma a differenza della Danimarca, la Groenlandia non fa più parte dell’ Unione Europea, la nazione avendo cambiato il suo status in Territorio Speciale dell’Unione Europea, un territorio dipendente che ha una relazione speciale con uno stato membro dell’UE. Tuttavia, la Groenlandia rimane un membro del Consiglio d’Europa e della NATO, che sul suolo mantiene la base aerea militare “Thule” a gestione statunitense. Nel 2007, la popolazione complessiva della Groenlandia era di 56 mila individui, l’88% dei quali di etnia inuit (già eschimesi). I rapporti con la Corona di Danimarca non sono idilliaci, ma tutto sommato la Danimarca garantisce l’autonomia e un certo livello di servizi a una scarsa popolazione distribuita lungo la costa. Sicuramente il sottosuolo della Groenlandia è ricco di risorse minerarie, ma neanche il cambiamento climatico è sufficiente ad agevolarne lo sfruttamento. Certo il Passaggio a Nord-Ovest sarà più praticabile dai mercantili e aumenterà l’importanza strategica della zona, oggi scarsamente difesa dalla Marina danese. Ma non si può replicare alle pretese di Trump aggiungendo un paio di orsi bianchi allo stemma araldico di Groenlandia, come ha fatto la Regina di Danimarca. E’ vero che storicamente la Danimarca ha venduto nel 1917 al governo statunitense quelle che oggi sono chiamate Isole Vergini Americane, ma quel possedimento coloniale nelle Antille era ormai anacronistico e se Copenhagen fosse stata occupata dai tedeschi, nel 1939 gli americani si sarebbero trovati gli U-Boot nazisti davanti casa. La Groenlandia invece non interessava nessuno, visto che l’interno è solo un enorme lastrone di ghiaccio.
Ora, può darsi che le frasi di Trump siano ad effetto (ma per il Canale di Panama ritengo farà sul serio), ma sconvolgono equilibri giuridici consolidati. Il problema è che se si legittimano le pretese di Trump, allora ha ragione Putin a invadere l’Ucraina e la Cina a riprendersi Taiwan. Ma a quel punto perché negare all’Austria i diritti sul Sud-Tirolo e all’Ungheria quelli sulla Transilvania? Riprenderci l’Istria e Zara, perché no? Una delle basi del diritto internazionale dal dopoguerra fino a ieri era l’inviolabilità delle frontiere e proprio gli Stati Uniti nel 1945 si opposero ai cambiamenti di confine fra gli stati europei, mentre i Sovietici e Tito facevano esattamente il contrario, stabilizzando e sigillando le proprie occupazioni militari. Altra base era la mediazione delle Nazioni Unite, alle quali finora nessuno ha fatto appello, forse per la loro drammatica inefficienza, dimostrata anche ora In Ucraina e in Palestina e Libano. Ma se torniamo alla legge del più forte, allora tanto vale chiudere bottega e armarsi, o almeno sviluppare alleanze e deterrenze credibili.
L’anno ora chiuso ha visto solo guerre: fra Russia e Ucraina, fra Israele ed Hamas ed Hezbollah, in Sudan, e a fine anno il crollo del regime siriano di Assad e una serie di effetti collaterali dal futuro incerto e di difficile analisi. Una situazione generale dove ognuno ha fatto quello gli pareva e le Nazioni Unite e le loro agenzie (Unifil per prima) hanno dimostrato la loro assoluta inutilità, non essendo capaci non dico di tenere separati gli avversari o scortare i convogli umanitari, ma neanche di proteggere i propri funzionari e soldati dai proiettili di chi dovevano controllare. Ma, soprattutto, le Nazioni Unite si sono dimostrate per quello che sono: una sovrastruttura, incapace di modificare nel profondo la politica e i rapporti fra le nazioni. Ma quello che voglio qui proporre è una breve analisi del modo in cui queste guerre vengono descritte da alcuni mass-media. Naturalmente prevale sempre la narrazione che svilisce il nemico ed esalta il proprio esercito, ma possiamo avere anche sorprese.
La stampa svizzera, p.es., non è mai di parte essendo la Svizzera neutrale da sempre. Sono consultabili in linea in lingua italiana sia il sito della Radiotelevisione Svizzera Italiana (RSI), sia il Corriere del Ticino (CDT) (siti: www.rsi.ch e www.cdt.ch ). Gli articoli sono molto equilibrati e dimostrano di avere cronisti e analisti indipendenti. Ovviamente di parte è invece la stampa quella ucraina, il cui sito ufficiale è solo in russo e ucraino (www.unian.ua), mentre altri notiziari sono in inglese. Comunque si può ricorrere ai traduttori automatici per avere una discreta resa in italiano. Facebook invece è piena di brevi video girati più o meno artigianalmente dai soldati, spesso con sottofondo di musica rock o canti popolari, mentre non esiste materiale russo nella stessa quantità. Difficile comunque distinguere le divise, quasi uguali per chi non è pratico; lo stesso vale per alcuni mezzi e armi. I brevi video russi hanno la sigla “Ruslan Rus”, quelli ucraini la bandiera gialloblu o il tridente bizantino simbolo nazionale. Video più politici si vedono scorrendo VK.com (la FB russa), con lunghi titoli come: “In poche settimane la situazione è cambiata ed è peggiorata notevolmente. I russi hanno notevolmente accelerato la loro offensiva, stanno riconquistando molti territori nella regione di Kursk che occupavano gli ucraini, e stanno avanzando ogni giorno”. Le traduzioni sono decenti, mentre molto meno lo sono quelle del sito “Recensione Militare”, versione italiana dell’agenzia militare ufficiale russa (https://it.topwar.ru/ ), il quale però ha il pregio immenso di dare ogni giorno una cartina con le postazioni e i movimenti dei due eserciti, anche se dovremmo sentire anche l’altra campana. Molti italiani che hanno avuto un parente che ha combattuto con l’ARMIR nella seconda Guerra Mondiale troveranno familiari alcuni toponimi, ma per i più restano solo nomi slavi dispersi in una landa piatta (a parte il saliente di Kursk, dove si è combattuto anche allora). Quello che distingue invece i brevi filmati di fonte ucraina è l’apparente mancanza di censura: si vedono i soldati quarantenni che in trincea fanno la vita del topo come mio nonno nel 15-18, mezzi che arrancano nel fango o nella neve, mortaisti e artiglieri all’opera, carristi chiusi nel ristretto spazio interno del loro mezzo, ma spesso si vedono droni che vanno in caccia libera di mezzi nemici, trincee o soldati isolati. Ogni dieci filmati ce n’è poi sempre uno dove i soldati e le soldatesse ballano, scherzano e buffoneggiano, sicuramente per attenuare lo stress. Buffi siparietti introvabili nei video russi.
E passiamo ora su un altro fronte: Gaza e il Libano. Seguo ogni giorno JBN, Jewish Breaking News (https://jewishbreakingnews.com/), presente anche sui canali Whatsapp e Telegram. Le fonti giornalistiche israeliane sono molto aperte, non c’è una censura stretta e soprattutto non vengono diffuse notizie false, anzi sconcerta la brutale chiarezza con cui vengono proposti brevi filmati dove si vedono palazzi di dieci piani buttati giù in pochi secondi dai bombardamenti aerei o dalle cariche esplosive piazzate dai genieri, o la pericolosa esplorazione di chilometri di gallerie. Gaza e alcune zone di Beirut sono ridotte a un cumulo di macerie e loro lo mostrano senza nessuna limitazione. Non mancano mappe con l’allarme per i razzi nemici o immagini esplicite dei danni da loro provocati. Non mancano appelli per famiglie in difficoltà, e in più ogni tanto c’è la scheda e la foto memoria di un soldato morto in azione, e sono tutti molto giovani. Quello però che incuriosisce è ogni tanto l’appello di un reparto militare – formato in genere da specialisti – che chiede apertamente ai civili una sottoscrizione per migliorare il proprio equipaggiamento: chi ha bisogno di stivali nuovi, di medicinali o di giubbetti antiproiettile, di elmetti o addirittura di razioni di cibo. Anche se è un esercito formato in gran parte da riservisti, a tutto ciò non dovrebbe provvedere l’intendenza? Un amico ebreo m’ha dato la spiegazione: è un modo per rinsaldare i legami fra un reparto e la comunità che lo sostiene.
Google e Facebook, si sa, non si fanno mai gli affari propri. Cercavo informazioni su alcuni editori e da due settimane mi ritrovo sommerso da agenzie che promettono di insegnarmi non solo a scrivere un best seller ma soprattutto a pubblicarlo, venderlo e promuoverlo in poco tempo e con un ritorno economico più che intrigante. Alla fine questi promotori si somigliano tutti: appare un video dove un giovane imprenditore o una bella ragazza ti chiedono se hai scritto o vuoi scrivere o vendere un romanzo o far soldi come redattore pubblicitario (copywriter). Tutto gratis, almeno all’inizio, devo solo cliccare e vedermi il video promozionale, dove si promette un metodo per scrivere un libro in due ore o addirittura in sessanta minuti (con l’AI, immagino). Amazon addirittura spinge a “vendere libri senza scriverli” , come se uno potesse vendere la merce senza prima fabbricarla. Uno promuove “L’angolo unico”, un altro “L’idea magnetica “ (sic) che ricorda la vecchia “diagonale dinamica” dei corsi di sceneggiatura americani venduti a Roma. Un altro pretende di insegnarmi a scrivere un documento ma strapazza le maiuscole: “L’elemento più Importante per Scrivere un Libro che Attira Clienti e Vende Senza Sforzo (e non è quello che pensi)” – poco male, ho visto comunicati che stampano in maiuscolo anche le preposizioni. Del resto, “Sai che se non hai scritto un libro sei fuori dal mercato?”. Già, ma quale mercato? E se ti propongono di scrivere bestseller narrativi, perché prendere a modello un libro americano intitolato “Profit First”, forse ispirato da Trump? Un altro specifica che quel corso online “26.000 autori l’hanno già seguito”. Insomma, dopo le scuole di scrittura creativa e le agenzie letterarie è il momento dei corsi capaci di unire tutte le fasi dell’editoria, dalla scrittura alla redazione del testo, poi la successiva stampa e promozione. Sicuramente chi vuole scrivere un libro ha molto da imparare, nel senso che anche dopo averlo scritto e pubblicato in autoeditoria, resta il problema della promozione e della distribuzione, ora comunque facilitata dalle vendite online e l’appoggio alle catene librarie. Ma a guardare bene tutti questi siti e video dicono più o meno le stesse cose: datevi da fare per creare un sito, seguite ogni giorno i social (mezzo di diffusione della letteratura per adolescenti di recente sviluppo), andate in giro per librerie e circoli, siate simpatici, mettete su un ufficio stampa. Oppure pagate chi sa farlo. Ovviamente, quelli che ti hanno venduto il corso. I quali magari vanno in giro con una macchina di seconda mano.
Il lessico estivo si è arricchito quest’anno di un’altra parola: turismofobia, discutibile quanto altre simili (omofobia, islamofobia): perché mai associare alla psicologia clinica una motivata avversione per un fenomeno sociale o politico? Manifestare contro il sovraturismo, il degrado delle città d’arte e l’invasione dei B&B non è un disturbo della personalità ma la reazione a un fenomeno gestito unicamente dal mercato e trascurato dalla politica. Basta scorrere i titoli dei giornali: rivolta dei residenti di Barcellona e delle isole Canarie, centri storici svuotati degli abitanti, parcellizzazione degli spazi immobiliari, negozi e servizi orientati solo al turismo di massa, solo affitti brevi, traffico intasato, affitti alle stelle, carenza di alloggi per studenti, famiglie espulse verso le periferie, bassa delinquenza parassita. Ma anche senza leggere i giornali basta farsi un giro per Roma per giudicare qualità e quantità del turismo attuale, esploso dopo il Covid e risorsa indispensabile per i comuni in deficit. In realtà il turismo di massa non è una novità: fino a pochi anni fa abitavo al centro e la mia famiglia aveva una bottega storica a Fontana di Trevi, dove comunque passavano carovane di turisti con scarso potere di acquisto, poco tempo per vedere tutto e una basica cultura generale. C’erano i negozi di souvenir, ma non al punto di saturare e snaturare le vie e le pareti degli edifici, né i turisti fotografavano le cartoline invece di comprarle. Mio padre – pittoresco antiquario – è stato ritratto tanto di quelle volte da entrare alla fine nel personaggio, ma senza che le vendite aaumentassero. In compenso, con i cellulari e i gps in mano, nessuno mi chiedeva più dove era Fontana di Trevi, peraltro sommersa non certo da ieri da masse di turisti. La differenza è che oggi si è arrivati quasi alla saturazione e alla rivolta dei cittadini residenti. Come calcolare il punto di rottura? Applicando un parametro caro all’ecologia: il concetto di carico massimo o capacità portante dell’ambiente, ovvero quanto stress un ambiente può assorbire prima di collassare per il degrado o la mancata riproduzione degli elementi che ne rendono possibile un equilibrio armonico (1). Analizzando in modo sistematico il fenomeno, è impressionante la rapidità con cui si è passati dai B&B familiari ai grandi gruppi immobiliari stranieri (come il tedesco Limehome) che comprano interi palazzi per farne quello che sappiamo. Quello che doveva essere una risorsa aggiuntiva per le famiglie con un appartamento ben collocato si è presto trasformato in un’industria pesante che ha espulso tutti gli altri. L’obbligo di abitare nello stesso immobile affittato a breve termine è stato presto superato e ormai le trattative si fanno solo per via telematica, compresi i codici di accesso per le serrature. Si è detto che il turismo porta i soldi, anche quello povero (perché gioca sulla quantità), ma a chi vanno in tasca? Un turista che prenoti con Airbnb e paghi in anticipo anche altri servizi (collegamenti, etc.) quei soldi non li spenderà a Roma o Firenze, ma andranno a finire in un conto estero. Per non parlare degli affitti in nero, a Roma forse anche il 30% del totale. Diciamolo, la politica ha lasciato fare il mercato, sperando in facili entrate per riempire le casse vuote, ma non ha capito che se un’attività occasionale diventa un’impresa, come impresa va inquadrata e tassata, obbligando a quel punto l’imprenditore ad attenersi alla normativa prevista per le imprese alberghiere, da quella igienica a quella fiscale, ed evitando poi che i colossi tipo Airbnb (in stile Microsoft) facciano profitti miliardari senza dare una lira al paese dove si trovano realmente le stanze in affitto.
Non so però quanti sanno che il turismo di massa è se non il figlio almeno il nipote del Gran Tour, l’esperienza quasi obbligatoria riservata dall’inizio del sec. XVII ai giovani nobili europei – inglesi e francesi, ma anche tedeschi e olandesi – per dar loro occasione di perfezionare i loro studi visitando le città d’arte italiane (sempre le solite: Venezia, Firenze, Roma, Napoli, magari con una estensione via nave in Sicilia) e godendo delle bellezze e delle opere d’arte del nostro paese. Nelle loro descrizioni – diari, lettere – abbondano i luoghi comuni: la grandezza di Roma antica ridotta a un deserto di ruderi, l’elenco più o meno freddo ei quadri degli Uffizi, l’emozione davanti a Michelangelo, il falso moralismo verso la prostituzione d’alto bordo di Venezia e quella miserabile di Napoli. E soprattutto, l’idea che l’Italia è stupenda per quanto sono arretrati gli italiani, come se ne potesse fare a meno, e si direbbe che la von der Leyen la pensi ancora in questo modo. Nascono proprio ai tempi del Tour le guide per viaggiatori che più o meno si sono aggiornate col tempo. Ma se confrontate una guida del Settecento con un moderno Baedeker o una guida blu Michelin noterete che alla fine le guide del TCI hanno semplicemente aggiornato l’idea iniziale, come invece il pellegrinaggio a Roma si basava sui Mirabilia Urbis Romae più volte ristampati nei secoli ma pur sempre basati su un progetto editoriale nato nel 1300 con l’Anno Santo. Ma mentre il turismo religioso è sempre stato popolare, quello laico si è democratizzato partendo da un’iniziativa d’élite. Turismo deriva da Tour, ma diventa qualcosa di diverso con Thomas Cook, l’imprenditore inglese che nel 1841 iniziò a portare gruppi di pellegrini in treno (lui era un pastore protestante) ed ebbe l’idea di organizzare i viaggi delle comitive borghesi, fondando un’agenzia che ha chiuso i battenti nel 2019. Thomas Cook ha trasformato l’esperienza di pochi in un progetto accessibile, inventando anche gli assegni per viaggiatori e le carrozze pullman, per non parlare dell’esclusiva delle crociere sul Nilo, all’epoca un protettorato britannico. Il suo modello è stato anche ironizzato da Mark Twain ne “Gli innocenti all’estero” (1869), dove l’autore segue il tour Cook di un gruppo di americani che si lamentano perché Venezia è allagata e poco s’interessano di storia dell’arte “perché negli Stati Uniti non è insegnata”. Rispetto al Mississipi l’Arno è un ruscello e così via: i suoi compagni di viaggio non riescono ad apprezzare una terra di morti quale è per loro l’Italia, sono anzi orgogliosi del loro essere appunto “innocenti” rispetto ai pregiudizi della vecchia Europa. Sono luoghi comuni che vedremo ripetuti all’infinito (un signore inglese mi disse che invece della cucina italiana preferiva i Fish & Chips) ma che mostrano l’anima del turista di massa: un consapevole, orgoglioso ignorante, superficiale ed estraneo alla cultura con cui viene a contatto senzaa comprenderla e tutto sommato alla ricerca di un parco a tema in cui i nativi – non importa se italiani, spagnoli o asiatici – fanno parte della scenografia. E molti stanno al gioco: si deve pur mangiare per vivere.
Ma intendiamoci: per conoscere una cultura bisogna stringere relazioni continue e profonde con l’ambiente e troppo spesso il tempo è poco. Ma poter viaggiare in aereo nei pochi giorni di ferie è democrazia, estensione dei previlegi prima riservati a una minoranza. Ancora negli anni ’50 il viaggio era un’esperienza costosa e chi scrive ricorda bene i prezzi degli aerei di linea. Appartengo infatti alla prima generazione che ha sentito la necessità di imparare le lingue e di viaggiare in Europa e lo ha fatto grazie alla scuola e all’Interrail. Chi ha fatto il militare si ricorda che moltissimi giovani non erano mai usciti dal paese o dalla propria regione. Ma se l’esperienza del viaggio o del turismo ora è più accessibile, non significa che sia per forza volgare. Una cultura di massa non è necessariamente un sottoprodotto: americani e sovietici lo hanno a suo tempo ampiamente dimostrato. Il problema è che quello che vediamo è una cultura per le masse, non differente da quella proposta dalle televisioni commerciali, dove non c’è nessuno sforzo per educare la gente. Se vogliamo, è pornografia. Che un certo turismo sia in stretto contatto con lo spettacolo si è visto a Ragusa di Dalmazia (Dubrovnik), ormai sempre sovraffollata da quando vi sono state girate alcune puntate di “Trono di Spade”. Ma persino un modesto pontile del lago svizzero di Brienz è stato saturato dal turismo asiatico: questo perché il luogo è stato utilizzato per una scena della serie coreana di successo “Crash Landing on You“, in cui una ricca donna coreana si schianta con il parapendio in Corea del Nord e incontra e si innamora di un ufficiale dell’esercito. La scena mostra lo stesso ufficiale che suona il pianoforte su quel pontone di legno. Da allora, i turisti appassionati della serie Netflix fanno la fila, a volte per ore, per farsi fotografare sul ponte dove è stata girata la scena del pianoforte (2). Il finale? Ora gli svizzeri fanno pagare 5 franchi l’accesso e il gabinetto. Noi italiani al massimo vorremmo dormire nella casa dove abitava il commissario Montalbano, ma già le masserie pugliesi sono diventate famose per l’accorta politica della Regione Puglie verso le produzioni cinetelevisive. Sarebbe anzi un’idea vincente lanciare sul mercato zone secondarie, non-luoghi, destinazioni poco sfruttate o semplici “dupe destinations”, destinazioni-clone (3) simili ma meno gettonate. La tendenza, nata su TikTok e legata inizialmente all’industria della bellezza, si sta diffondendo anche nel mondo dei viaggi, come svela un’analisi di Expedia Group da cui è emerso che i vacanzieri nel 2024 sono pronti a partire per luoghi più inaspettati e, spesso, più convenienti: Paros invece di Santorini, Sheffield o Liverpool invece di Londra. E qui le comunità locali o regionali dovrebbero elaborare precise strategie per valorizzare magari anche tesori nascosti o zone depresse. Il capitale ha bisogno continuo di espandersi e di investire risorse. L’importante è che si agisca con criterio, anche se per ora non c’è da farsi grandi illusioni: quando ti dicono che l’isola è incontaminata vuol dire che l’hanno già attrezzata per lo sbarco dei crocieristi, le cui navi tendono attualmente al gigantismo. Ma ancora trenta o quarant’anni fa quante persone potevano permettersi una crociera? Le vedevamo nei film brillanti, ma erano piene solo di gentlemen, avventurieri e belle signore. Ora a Trieste ne sbarcano anche due a settimana e più che navi sembrano blocchi di case popolari galleggianti e forse in fondo metaforicamente lo sono pure.
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