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Diventare cam-girl

Tra i nuovi mestieri eccone un altro: la cam-girl. Di cosa si tratta è presto detto: una ragazza da casa chatta in video con sconosciuti disposti a pagare per chiacchierare con lei e chiederle alcune prestazioni sessuali a distanza: spogliarello, provocazioni e ben altro, a tassametro. Occorrente: un buon collegamento di rete, una videocamera HD e l’affiliazione a una delle tante agenzie intermediarie. Non ne cito i nomi per non far loro pubblicità, ma ve ne sono sia di italiane che internazionali. Tutte garantiscono la copertura legale, una percentuale sugli introiti e la tutela della privacy, in più il loro marchio è garanzia di qualità e correttezza verso i clienti. Nessuna ragazza avrebbe infatti piacere di render noti il suo vero nome e telefono, né un cliente sposato vuol far sapere dei suoi vizietti. Per i pagamenti alle ragazze – in genere la metà degli introiti – si ricorre a quelle agenzie di trasferimento di denaro usate anche dagli immigrati. Server e sedi dei siti non sono mai in Italia: anche se a distanza e virtuale, per la legge italiana questa attività è pur sempre prostituzione.

I siti sono di due tipi: si paga per entrare, poi si pagano successivamente le ragazze e le loro prestazioni. Oppure – altro tipo – si entra gratis in una specie di teatrino e si pagano mance alle ragazze scelte se si vogliono prestazioni  particolari. C’è di tutto, anche casalinghe non proprio avvenenti, più una miriade di ragazze e donne giovani o meno giovani. La maggior parte si dichiarano studentesse, ma molte si direbbero ripetenti. In ogni caso puoi intrattenerti con loro e chiedere anche colloqui privati. La probabilità di incontrarle fisicamente sono nulle, ma c’è tanta solitudine in giro e paura del confronto con una donna vera, quindi è un mercato che prospera. Quante sono in Italia? Chi scrive 50.000, chi 80.000. Difficile dirlo, perché molte lo fanno saltuariamente; per altre è diventato un lavoro vero e proprio, che richiede una media di sei ore al giorno per mantenere il ritmo e portarsi a casa anche 2000 euro al mese. A sentire le interviste neanche tanto rare, si comincia per arrotondare o per pagare le bollette, magari dopo trenta curricula mandati a vuoto o tre mesi di turni come cameriera di un pub della movida. Più facile iniziare se vivi da sola – la classica studente fuorisede – e se nessuno ti conosce. Sì, perché la vera paura è di essere riconosciute al paese o nel proprio ambiente. Alcune sono addirittura laureate in psicologia o in scienza delle comunicazioni; si direbbe che fanno un uso poco etico di quanto hanno imparato, visto che degli altri conoscono e sfruttano i punti deboli. E per chi non sapesse bene da dove cominciare e come tenere sulla corda e fidelizzare i propri clienti maschi, da ogni sito – italiano o americano non importa – si può scaricare e studiare un tutorial dove si danno consigli pratici anche sul come vestirsi (e spogliarsi), cosa concedere, come e fino a che punto… Tutte insieme, queste istruzioni si possono riunire in un corposo Manuale delle giovani mignotte.

Già, ma i clienti cosa chiedono? Qualcuno vuole solo parlare e resta con l’illusione di un rapporto personale (in realtà è a tassametro). Altri chiedono prestazioni di ogni tipo, ora soft, ora decisamente spinte. E qui la ragazza può aiutarsi con quei giocattoli sessuali una volta in vendita nei sex-shop (ora è tutto online) e con le arti della seduzione. L’importante avere più affezionati possibile, vista la concorrenza. In più si guadagnano extra rivendendo le proprie immagini, dvd, biancheria intima e altro. E’ evidente che molte sono professioniste, visto che vendere dvd con le immagini del proprio corpo aumenta le possibilità di essere riconosciute anche dopo anni. Anche se a sentire le interviste sono spesso ragazze normali in cerca del denaro facile, non è detto che quello che dicono loro sia sempre attendibile. Su un punto però sono tutte concordi: per mantenere una vita normale sdoppiano necessariamente la loro personalità. Aggiungo io: è il cliente che sfrutta la ragazza facendole fare quello che lui desidera, o è la ragazza a dominarlo alzando ogni volta la posta per soddisfarlo? E’ il cliente a proiettarsi nella ricerca di desideri impossibili nella sua vita reale o è la ragazza che davanti a un catalizzatore maschio scopre e vive in una vita parallela la sua natura profonda e repressa? Un bravo drammaturgo forse saprebbe sfruttare una situazione del genere molto meglio di quello che anni fa si vedeva in Sesso bugie e videotape.

Quando l’Occidente fallisce

Dopo vent’anni ce ne andiamo dall’Afghanistan senza aver pacificato il paese. Il nostro contingente era in realtà parte di un dispositivo militare più grande, gestito dagli Stati Uniti, il quale alla fine ha concluso alla meno peggio un conflitto iniziato per l’appunto vent’anni prima, quando dopo l’attentato alle Torri Gemelle si sentì l’esigenza di distruggere i “santuari” del terrorismo islamista in Afghanistan, dove i Talebani avevano preso il potere e imposto un radicale regime islamista. In tanti anni si sono alternati migliaia di soldati, tutti hanno avuto perdite (noi 54 militari) ma non è stato conseguito l’obiettivo principale: sconfiggere la guerriglia islamista e ricostruire uno Stato e un tessuto sociale distrutti da anni di guerra. Questo libro cerca di spiegare i motivi di un fallimento, ma non è certo l’unico. Ne cito uno per tutti:

Anatomy of Failure: Why America Loses Every War It Starts / Harlan Ullman. Annapolis, MD: Naval Institute Press, 2017, Kindle version.

Alla fine le conclusioni sono simili: l’Afghanistan intanto è un paese enorme e poco coeso per la sua stessa conformazione orografica, rendendo difficile una struttura politica e amministrativa centralizzata. In più è un paese comunque arretrato e devastato dalle guerre precedenti. Il controllo del territorio non è possibile senza una presenza capillare sul terreno, ma nessuno stato democratico può mandare i propri soldati a morire in un paese strategicamente povero e lontano senza fare i conti con gli elettori che pagano le tasse. Forse una vittoria sul campo era possibile nel 2001, ma nel 2003 il governo degli Stati Uniti ha dirottato tutto sull’invasione dell’Iraq, perdendo così il vantaggio acquisito. Quanto alla ricostruzione dell’esercito nazionale afghano, diciamolo: nonostante gli sforzi anche nostri, non ha funzionato; mal pagati e poco motivati, i soldati dell’esercito nazionale non sono mai stati all’altezza della situazione. Quello che è peggio, spesso sono stati abituati a combattere “all’americana”, cioè con il massimo appoggio di fuoco e logistico, ora impossibile da gestire senza gli alleati in casa. Alleati con cui non sono mancati attriti, dovuti più che altro a differenze culturali, sottovalutate dagli Americani e non certo da adesso: ai tempi della guerra del Vietnam uno scrittore francese (René Guignon, in Americani e Vietcong) notava che essi sapevano gestire grandi quantità di mezzi ma erano incapaci di capire un’ideologia. Dal Vietnam sono passati cinquant’anni, ma ancora c’è molto da imparare.

Altro handicap: alle differenze culturali e religiose si sono sommate l’endemica corruzione e la struttura clanico-mafiosa del potere politico. Sono stati versati milioni di dollari e di euro per la ricostruzione del paese, ma troppi fondi sono finiti nelle tasche sbagliate e gli afghani non sono poi tanto stupidi: si accetta la presenza di un esercito straniero o di un potere politico diverso solo se le condizioni di vita migliorano. E se poi di notte il nemico controlla quello che i nostri soldati proteggono solo di giorno e una volta a settimana, magari sbagliando pure la mira, la gente ha paura. Ormai la guerra partigiana viene vista in modo meno romantico: il controllo del territorio viene esercitato anche con mezzi coercitivi e la paura di una rappresaglia è più forte della protezione offerta da un esercito incapace di controllare un paese enorme e privo di strade. In guerra la tecnologia non basta: la fanteria deve occupare e tenere il terreno, ma in Afghanistan non basterebbe mezzo milione di soldati. Ma ne vale la pena? Le operazioni in zone lontane sono costosissime, ma senza un risultato tangibile non possono essere popolari. Ma se quello che non ha funzionato ormai lo sappiamo, in vent’anni potevamo fare di meglio? Sicuramente gli obiettivi dovevano essere meglio definiti fin dall’inizio, ma era davvero possibile riformare una società tradizionale e appoggiare governanti migliori di quelli disponibili senza che fossero considerati estranei? Purtroppo a farne le spese saranno gli afghani e soprattutto le donne. L’unica speranza è che, siccome gli attori sono tanti e quindi non solo i Talebani, si arrivi a una situazione di compromesso e non a un crollo improvviso di quanto è stato comunque costruito in vent’anni. Speriamo bene.

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Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan
Gastone Breccia
Editore: Il Mulino, 2020, pp. 176
Prezzo: € 15,00

EAN: 9788815285850

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Quando il Bio me lo faccio Io

Cito da Varrone, De Re Rustica, I.28

Hoc ter noviens cantare iubet, terram tangere, despuere, ieiunum cantare. Multa, inquam, item alia miracula apud Sasernas invenies, quae omnia sunt diversa ab agri cultura et ideo repudianda. Quasi vero, inquit, non apud ceteros quoque scriptores talia reperiantur.

“Prescrive di cantare nove volte per tre volte, toccar terra, sputare, cantare a digiuno. Di questi ‘miracoli’ ne troverai molti altri se segui i Saserna, cosa ben diversa dall’agricolura e per questo da non accettare. Quasi sicuramente questa roba non la troveresti in altri scrittori”.

Varrone scrisse duemila anni fa un buon manuale di agricoltura (il De re rustica, appunto), sulle orme di un analogo trattato di Catone il vecchio, mentre i Saserna (padre e figlio) ne avevano scritto un altro (perduto, ma citato anche da Columella, altro agrario) dove, da buoni etruschi, davano ampio spazio anche a pratiche magiche che il razionalista Varrone rimanda al mittente. Ed ora, dopo duemila anni, al Senato c’è voluta l’opposizione della senatrice a vita Elena Cattaneo per aprire gli occhi sulla differenza tra agricoltura biologica e agricoltura biodinamica, allegramente omologate da una maggioranza assoluta di senatori non è chiaro se ingenui o disinformati. Equiparare i due metodi è poco scientifico, semplicemente perché l’agricoltura biodinamica si basa su presupposti scientificamente non misurabili con il metodo sperimentale di Galileo. Non solo: fermo restando il presupposto che numerosi prodotti biodinamici siano anche biologici, oggi questo prerequisito è venuto a mancare nel momento in cui operano nuove ditte oltre quella storica, la centenaria germanica Demeter, la quale finora ha garantito la qualità dei suoi prodotti. Quello che è da notare è che siccome alla Demeter sono affiliati alcuni produttori sudtirolesi, nella stampa locale è attiva una sorta di lobby a difesa di un prodotto culturalmente germanico (1). In effetti Rudolf Steiner, affascinante quanto bizzarra figura di filosofo, mistico, scrittore, pedagogista nonché fondatore anche dell’agricoltura biodinamica, è sicuramente più popolare nei paesi di cultura tedesca, e le sue scuole “Metodo Waldorf” da noi sono frequentate solo da un’élite benestante. Sia chiaro che uno è libero di credere in quello che vuole; al massimo si svilupperanno pratiche inutili ai fini della produttività agricola, come seguire influenze astrali o affidarsi a pratiche esoteriche. Altro è però chiedere i contributi allo Stato e l’inserimento della biodinamica nelle cattedre di agraria, e qui la Scienza deve dire la sua. Questo è invece il testo che è stato approvato al Senato nel Ddl:

“Ai fini della presente legge, i metodi di produzione basati su preparati e specifici disciplinari applicati nel rispetto delle disposizioni dei regolamenti dell’Unione europea e delle norme nazionali in materia di agricoltura biologica sono equiparati al metodo di agricoltura biologica. Sono a tal fine equiparati il metodo dell’agricoltura biodinamica ed i metodi che, avendone fatta richiesta secondo le procedure fissate dal Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali con apposito decreto, prevedano il rispetto delle disposizioni di cui al primo periodo”.

Notare che il metodo agricolo biologico è riconosciuto da circa trent’anni ed è regolato secondo rigide norme dell’UE, mentre il metodo biodinamico non è altrettanto regolamentato. A questo punto, visto che il Ddl deve ripassare alla Camera per l’approvazione, basterebbe scorporare i due termini invece di omologarli. Vedremo se Galileo conta ancora qualcosa e se il pensiero scientifico italiano riesce ancora a farsi capire dalla gente. Col Covid-19 si è visto di tutto, quindi stiamo in guardia!


Note:

  1. Https://www.salto.bz/de/article/07062021/che-male-fa-il-biodinamico

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Vecchie e nuove censure

L’on. Franceschini, attuale ministro della Cultura, ha decretato la fine della censura cinematografia in Italia. Sì, perché era ancora in vigore, anche se decenni di luci rosse facevano credere nella sua desuetudine. In realtà le commissioni di revisione cinematografica (questo il nome tecnico) si sono spesso accanite sui film d’autore: per l’Italia citiamo Blow-Up di Antonioni (1967), L’urlo di Tinto Brass (1968), L’ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci (1972) e Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini (1975), La chiave di Tinto Brass (1983) e i meno noti Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco (1998) e Morituris di Raffaele Picchio (2011). Tra l’altro, se un pretore stabiliva poi il sequestro nella sua zona, il provvedimento era esteso automaticamente a tutto il territorio nazionale, come se il pubblico di Roma o Milano fosse omologo di una remota provincia italica. Benvenga dunque la fine di una istituzione anacronistica e anche inutile, visto che per anni si è accanita sul sesso ma troppo spesso trascurando la violenza. Ma non fatevi troppe illusioni: nel momento in cui viene meno la centralità della sala cinematografica e la visione si sposta sulle grandi piattaforme multimediali per famiglie, saranno le multinazionali dell’audiovisivo a decidere cosa sia lecito vedere e cosa no. E in tempi di politically correct, sarà un bagno di sangue. Chi avrà il coraggio di proiettare La ciociara (1960) senza evitare di offendere i soldati marocchini? Sia chiaro: la censura di mercato è sempre esistita e proprio negli Stati Uniti fu elaborato il Codice Hays, esempio unico ma efficace di censura esterna alle istituzioni governative, in pratica un patto di ferro tra produttori per evitare grane legali e perdere i soldi del pubblico pagante. Lo stesso in fondo avviene ora con le nuove americane regole sulle “quote” di minoranze varie da inserire nelle produzioni cinematografiche (su cui ho già parlato) e le varie regole che evitano di offendere o discriminare donne, afroamericani, lgbtq+ e altro, col risultato di un appiattimento etico e artistico o – al contrario – di scelte estreme. Ho letto p.es. che Cenerentola sarà riscritto dalla sceneggiatrice e regista Kay Cannon, in anteprima esclusiva su Amazon Prime nel settembre 2021: la classica fata madrina sarà interpretata da Billy Porter, attore gay afroamericano. Kay Cannon afferma che Billy Porter si presta benissimo al ruolo che gli è stato affidato; stiamo parlando di un bravissimo attore oltre che splendido trasformista. “Si adatta così bene al ruolo”, ha continuato Cannon. “Per me, Billy è magico”. Questo dice il comunicato ufficiale. Personalmente non mi pronuncio prima di aver visto il film: censura significa pregiudizio o semplicemente non saper vedere in profondità. Ricordo quel bel film di Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House (1982): il disegnatore Neville si illude di aver compreso i meccanismi della storia, ma sarà solo una illusione. Come commenta lo stesso regista “Neville ritrae ciò che vede e non ciò che sa”. Esattamente lo stesso meccanismo mentale del censore.

La cultura fa male quando vuol far bene

Woke è un termine che si riferisce alla consapevolezza di questioni che riguardano la giustizia sociale e la giustizia razziale. A volte è usato nell’espressione inglese vernacolare afroamericana “stay woke”.

Le dure polemiche che stanno scuotendo la cultura universitaria americana e in Europa quella francese, olandese, belga e inglese finora sembrano non toccare le nostre università: da noi ancora si discute sulle guerre del fascismo, come se il dibattito fosse ancora fermo alla linea del 25 aprile (1). Questo ritardo culturale non è strano: in Italia le novità arrivano sempre dall’America o dalla Francia, e può darsi che sia solo questione di tempo: nel ’68 gli effetti del maggio francese smossero i nostri atenei con qualche mese di ritardo. In più, le condizioni della cultura italiana sono diverse: non abbiamo il razzismo come problema endemico; non abbiamo ancora grandi comunità islamiche “assertive”; né abbiamo avuto decolonizzazione perché nel ’43 le colonie le abbiamo perse da un giorno all’altro e da quel momento quella storia non ci riguardava più. Inoltre, le nuove minoranze etniche o le comunità Lgbt ancora non hanno raggiunto una massa critica tale da scalare il potere negli atenei e nei posti chiave dei mass media e dell’editoria. Perché di lotta per il potere si tratta: l’università è il luogo dove bene o male si seleziona la futura classe dirigente e si elabora la cultura del Potere. Come insegna proprio il ’68, nell’arco di due decenni è possibile occupare i posti di potere nel giornalismo, nell’editoria, nei telegiornali e naturalmente nell’università. Alla fine, mutatis mutandis, sono semplicemente i giovani che scalzano i vecchi. Ma chi sono oggi gli studenti? E cosa sono gli atenei?

La situazione dell’università è cambiata nel tempo soprattutto per l’attuale  natura dei finanziamenti: a meno che a investire negli atenei non siano le industrie private in funzione della ricerca (a loro funzionale, ovvio), nelle università private i finanziamenti sono strettamente legati alle rette degli studenti, mentre in quelle pubbliche al loro numero. Sono fattori analoghi ma convergono su un punto: gli studenti condizionano  la natura dei corsi universitari in maniera molto maggiore che nel secolo scorso. Da qui anche un certo conformismo del corpo accademico: corsi e contratti vengono rinnovati se hanno un numero sufficiente di studenti. Quando mi sono laureato io in Lettere (1976), alcune tesi in archeologia venivano date solo a chi sapeva leggere il tedesco, mentre oggi non è richiesto più neanche l’esame scritto di latino: la facoltà perderebbe studenti, né la scuola secondaria li aveva preparati come una volta. C’è poi talvolta un curioso conformismo dell’anticonformismo: una teoria radicale se non addirittura strampalata può attirare più studenti di un corso “normale”. Anche se qualificato, devi essere “cool”, “fico”. Ricordo ancora la tesi di un accademico straniero, che per anni si è fatto un nome attribuendo il declino e la caduta dell’Impero romano esclusivamente all’uso delle tubature di piombo. Quella che al massimo poteva essere una causa di inquinamento e fonte di malanni vari, per chi gestiva la cattedra era il proprio asso nella manica, riverberato in decine di articoli di riviste accademiche obbligate comunque a discuterne. Morale: se sei originale fino al paradosso, la tua carriera è assicurata. Ma questo avveniva in tempi normali. La novità è nella violenza con cui ora alcune idee vengono veicolate se non imposte, andando persino contro l’idea stessa di Università.

In realtà l’università americana punta di diamante della Cancel Culture è un po’ diversa dalle altre: nella Howard University di Washington si è formata la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris e tale ateneo è da molti anni la roccaforte degli afroamericani, una sorta di “Harvard nera”: è stata uno dei simboli della contestazione negli anni ’60 e del movimento per i diritti civili. Fra i suoi studenti più celebri, oltre alla vicepresidente Usa, il giudice della Corte Suprema Thurgood Marshall, l’ex ambasciatore Usa presso l’Onu Andrew Young, il deputato Elijah Cummings, il Premio Nobel Toni Morrison, l’attore Isaiah Washington. È qui che si formano l’intellighenzia e la classe dirigente afroamericane. Niente di strano che l’ideologia del politically correct e della Cancel Culture prendesse qui una deriva radicale. E a farne le spese ora sono gli studi classici, pur presenti dal 1867: la Howard University ha deciso di dichiarare guerra ai classici della letteratura e della filosofia, che hanno il difetto di essere bianchi e quindi non abbastanza “inclusivi” e al passo coi tempi per le università – soprattutto statunitensi e anglosassoni – diventate la culla del politically correct. Il Dipartimento di studi classici verrà smantellato per creare “priorità diverse” nei piani di studi degli studenti e i professori di ‘classics’ verranno spostati in altri dipartimenti, dove i loro corsi potranno ancora essere insegnati (immaginiamo come). Ma già la Princeton University attraverso Dan-el Padilla Peralta, professore associato di classici, aveva spiegato al New York Times, insieme ad altri accademici progressisti, che i classici dovrebbero un giorno essere rimossi dai programmi universitari in quanto sono così “invischiati nella supremazia bianca da essere inseparabili da essa”. Peralta (aspirante suicida?) va oltre e afferma che gli studi classici sono ostili alle minoranze. “Se si volesse pensare a una disciplina i cui organi istituzionali fossero esplicitamente volti a disconoscere lo status legittimo degli studiosi del colore”, ha detto al New York Times, “non si potrebbe fare di meglio di ciò che hanno fatto i classici”. Non va meglio nel regno Unito, dove nelle scorse settimane l’Università di Leicester ha annunciato l’intenzione di accantonare Geoffrey Chaucer – il Boccaccio inglese – a favore di modelli sostitutivi che rispettino di più razza e genere. L’università giustifica tale scelta con l’esigenza di modernizzare i piani di studio rendendoli più adeguati alla sensibilità e alle prospettive degli studenti di letteratura inglese. I quali si suppone provengano ormai da estrazioni sociali ed etniche diverse, altrimenti non si capirebbe questo senso di estraneità verso una cultura superiore, tale da rasentare il delirio e il fascismo mascherato. Quando poi veniamo a sapere che la curatrice del museo della scrittrice Jane Austen deve preoccuparsi di giustificare l’uso del tè e di altri generi ”coloniali” da parte di una scrittrice vissuta due secoli fa, allora chiediamoci piuttosto se la raccolta dei pomodori nel Cilento non sia un esempio di neoschiavismo. Sicuramente gli antichi Romani erano imperialisti: la parola stessa “Imperium” è latina. Ma il “cultural heritage” comprende anche il Diritto Romano. E poi, davvero Russia e Cina non perseguono dopo duemila anni obiettivi simili a quelli dei Romani e con mezzi altrettanto discutibili sul piano morale?  Per fortuna, da noi l’espulsione della cultura e delle lingue classiche dall’istruzione superiore sancirà al massimo il consolidamento definitivo del Liceo Statale Semplificato (LSS), obiettivo perseguito per anni da certa pedagogia. Ma bisogna comunque tenere gli occhi ben aperti: imitare costa meno che creare e noi italiani sappiamo sempre adattarci.

Quello che piuttosto sorprende è la timida risposta a questo modo di vedere il mondo. Pur di non perdere il posto per motivi da noi ancora considerati illegali, troppi giornalisti e accademici hanno fatto un auto-da-fé che ricorda le confessioni spontanee dei tempi di Stalin. Noam Chomsky – ormai un vegliardo ma pur sempre combattivo e soprattutto grande analista del Potere e del suo linguaggio – ha invece risposto a tono: il movimento nato per fare i conti col passato si è avvitato in se stesso diventando motivo di divisione tra generazioni (3). La lettera aperta è stata firmata da altri 150 intellettuali americani, tutti comunque di una certa età. Ma c’è anche chi semplicemente si è adeguato allo Zeitgeist, lo spirito del tempo: alcune ditte inglesi curano a pagamento i profili dei clienti di fascia alta che vogliono ripulire il proprio curriculum o profilo Facebook con Spic&Span (2). Chi paga fino a 13.000 sterline vuole dunque difendersi in anticipo da qualsiasi accusa che possa distruggere da un giorno all’altro la sua carriera, il che mostra i nervi scoperti di una società spiazzata e insicura, ma anche troppo legata alla costruzione della propria immagine pubblica. Mi viene in mente la frase tipica della serie televisiva Perry Mason: “Ricordi che ogni parola che dice potrà essere usata contro di lei”.

Note:

  1. https://www.ilpost.it/flashes/marina-militare-celebra-battaglie-fascismo/
  2. Inside the ‘digital cleanse’ companies taking on cancel culture, sul Financial Times: https://www.ft.com/content/3f1c1edd-a319-4bec-af7b-a4a839919a91