Archivi categoria: ALTRI DI NOI

De/scrivere Chiunque Ovunque

da Banksy.

Ho seguito la storia della traduttrice e scrittrice olandese Marieke Lucas scartata perché Amanda Gorman, la poetessa afroamericana che abbiamo visto il giorno dell’insediamento del presidente Biden, non può essere tradotta dalla “troppo bianca” scrittrice olandese. Intanto evitiamo l’equivoco: non è – come si è detto – razzismo alla rovescia; piuttosto, c’è qualcosa di vero nell’affermare che in poesia certe sfumature profonde della lingua e dello spirito può capirle meglio chi a quella cultura appartiene. La fortuna della letteratura ungherese in Italia – sia poesia che prosa – si deve soprattutto alla presenza anteguerra nella città di Fiume/Rijeka di una colta comunità bilingue italiana e ungherese presente fin dall’800 (1). Non è dunque il colore della pelle a fare la differenza, ma la lingua e la cultura alla quale appartieni. Dunque non ci troviamo di fronte a una surreale vertenza sindacale, ma a un modo diverso di affrontare il rapporto tra culture diverse.

Intanto, il rapporto fra la cultura egemonica e la cultura subalterna segue dinamiche precise, secondo l’ormai classica analisi di Cirese (2). Nel caso nostro, a descrivere e interpretare gli altri è tradizionalmente o almeno negli stadi iniziali un’élite progressista o di tendenza, che in buona fede si ritiene capace di interpretare una cultura subalterna. Sicuramente non si è esenti da stereotipi, ma spesso sono stati proprio certi romanzi a tema (come La capanna dello zio Tom) a promuovere idee progressiste, mentre l’esotismo di Salgari non va preso sul serio, pur avendo la mia generazione letto con avidità i suoi romanzi ambientati in India e in Malesia. Il problema si pone infatti quando lo scrittore o il regista si presentano come realistici e profondi conoscitori della cultura che vogliono descrivere, ma cadono invece nello stereotipo, sia in letteratura che soprattutto nel cinema, dove è più facile esser meno accurati o adeguarsi all’idea che gli africani parlano col verbo all’infinito, il che almeno in italiano è errato: l’infinito è più complesso, per esempio, della terza persona singolare del presente e non può essere la prima scelta di uno straniero. Sicuramente c’è molta più Africa nei film di Idrissa Ouédraogo (Burkina Faso) che in tanti film o libri ambientati in Africa, anche se La mia Africa di Karen Blixen non è da buttar via, visto che descrive anche i rapporti interni fra colonizzatori. Né bisogna per forza essere nati nel posto:  la Yourcenar p.es. ne Il colpo di grazia (3) descrive la guerra civile nel Baltico degli anni Venti, pur non essendo mai stata in quei posti. Del resto, per scrivere Le memorie di Adriano non bisognava per forza ssere ospiti dell’Imperatore a Villa Adriana. Questo per dire che se uno scrittore sa veramente il suo mestiere, meglio lasciarlo lavorare: saranno i lettori a giudicarlo. Sempre che sia in buona fede: non lo era p.es. Lion Feuchtwanger, autore di Suss l’ebreo, né il regista Veit Arlan che ne trasse l’omonimo film nazista (1940). Per le offese comunque ci sono almeno da noi i tribunali.

Più onesta è la letteratura che pone culture diverse a confronto diretto: penso a Passaggio in india di Forster, ai romanzi di Kipling, alla già citata La mia Africa di Karen Blixen. In quei casi il protagonista parte tutto d’un pezzo e lentamente cambia il suo modo di vedere il mondo (la famosa Weltanschaung) attraverso il rapporto più o meno traumatico con il diverso, che spesso si rivela cultura egemone alla pari di quella del protagonista. Alla fine il protagonista non sarà più lo stesso, secondo il classico schema del romanzo di formazione.

Ma spesso il problema è che per molto tempo una minoranza etnica o sociale non ha ancora raggiunto quel grado di istruzione e consapevolezza che gli permette di entrare nel mondo della cultura “alta”, oppure non si riconosce nei paradigmi tipici della cultura egemone perché ancora legata a una cultura orale, come nel caso dei Rom, i quali  peraltro hanno anche espresso buoni registi (4). Siamo abituati a considerare il romanzo borghese e il cinema come strumenti perfetti per esprimere la nostra cultura, ma in realtà non c’è niente di universale negli strumenti che usiamo. Oggi il punto di attrito si raggiunge quando questa minoranza raggiunge i posti chiave nelle università, nell’editoria, nella stampa, nel cinema e nella televisione: a quel punto si arroga il diritto di poter esprimere meglio degli altri il proprio punto di vista. Se vogliamo, i meccanismi sono analoghi a quelli della lotta di classe e alla fine l’obiettivo finale è anche qui il potere. Ma attenzione a non cadere nella mitologia: per descrivere gli italiani non si deve essere necessariamente italiani. Magari ne nasce anche un punto di vista diverso, come nei romanzi e negli articoli della scrittrice afroitaliana Igiaba Scego, somala di nascita ma ormai ben inserita nel nostro mondo culturale. E soprattutto, niente censura preventiva, anche se animata (come sempre) da buone intenzioni, anche perché sorge necessariamente un quesito: chi è il giudice?

Ora, in  Who Owns Culture?: Appropriation and Authenticity in American Law di Susan Scafidi (2005), giurista americana della Fordham University, bianca e con probabili ascendenze italiane, la questione viene così enunciata:

Prendere senza permesso la proprietà intellettuale, le conoscenze tradizionali, le espressioni culturali o gli artefatti dalla cultura di qualcun altro. Questo può includere l’uso non autorizzato della danza, dell’abbigliamento, della musica, della lingua, del folclore, della cucina, della medicina tradizionale, dei simboli religiosi ecc. di un’altra cultura (5).

Che significa senza permesso? Chi lo deve concedere? L’ufficio legale dei nativi americani? L’imam della moschea più vicina? Il rapper più autorevole? Non stiamo parlando di marchi commerciali da proteggere o prodotti DOC e DOP, ma di letteratura e cinema. Un onesto scrittore a chi deve chiedere tutte le autorizzazioni necessarie per una descrizione d’ambiente? Ogni volta che i sardi hanno ritenuto irrealistica la descrizione della loro cultura l’hanno fatto capire dopo che il film era nelle sale, e questo era nel loro diritto. Mai invece hanno impedito al regista di sbarcare in Sardegna con una troupe  o preteso di approvare loro la sceneggiatura.

Altra osservazione: un libro vale perché crea discussione. Attenendoci al manuale Cencelli esteso alle arti, non so quanto interessanti sarebbero film e romanzi dove non si può parlare degli altri senza offenderli e dove chi insulta o addirittura descrive un afroamericano o un disabile o un gay deve per forza morire dopo pochi minuti di proiezione. Conta il punto di vista dell’artista; è’ il discorso sulla violenza: a pesare non è l’atto in sé rappresentato, ma l’atteggiamento del regista verso la violenza. E qui è quasi istintivo pensare ai film di Pasolini.

Infine: per quanto riguarda l’ossessione della verginità culturale e dell’autenticità, la letteratura è di per sé inautentica. È falsa, coscientemente e volutamente falsa. È proprio la falsità la natura profonda di questa forma artistica, che parla di persone che non esistono ed eventi che non sono ma accaduti. E c’è chi lo ha saputo fare molto bene: Little bee di Chris Cleave (2009) descrive la dura vita di una quattordicenne nigeriana, ma l’autore è bianco e British. A parte Dashiel Hammett, nessuno scrittore di gialli è stato un vero detective. Sotto il vulcano di Malcom Lowry (1947) descrive il Messico e i messicani, ma con l’aria che tira oggi non dovrebbe scrivere niente. In realtà tentare di superare i confini dell’esperienza personale fa parte del mestiere dello scrittore di narrativa. La posta in gioco non è se il romanzo onora la realtà; ma se lo scrittore può cavarsela nel narrarla.

Postilla: fiutando lo Zeitgeist (lo spirito del tempo, o l’aria che tira se preferite), un poeta bianco statunitense nel 2015 si è spacciato per cinese per essere più facilmente pubblicato e recensito da Best American Poetry (6). Yi-Fen Chou si chiama in realtà Michael Derrick Hudson e il direttore editoriale (un cinese vero) così ha sentenziato: “He wanted power, the capital of multicultural difference” (voleva il potere, il capitale offerto dalla differenza multiculturale). E di potere i cinesi se ne intendono.

NOTE

  1. Le traduzioni italiane delle opere letterarie ungheresi / Péter  Sárközy, in: RSU, Rivista di Studi Ungheresi, 2004. Scaricabile  in PDF: http://epa.oszk.hu/02000/02025/00019/pdf/RSU_2004_03_007-016.pdf
  2. Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale / Alberto Mario Cirese, 1971 e successive ristampe.
  3. Prima edizione 1939. Prima edizione italiana; Milano, Feltrinelli 1962.
  4. Penso a Gagio dilo (lo straniero pazzo, 1997), di Tony Gatlif oppure a Anche gli zingari vanno in cielo (1976) di Emil Loteanu
  5. https://www.jstor.org/stable/j.ctt5hj7k9
  6. https://www.npr.org/sections/codeswitch/2015/09/10/439247027/why-a-white-poet-posed-as-asian-to-get-published-and-whats-wrong-with-that

PASSAPORTO VACCINALE

Art. 32 della Costituzione: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

Già, ma quale legge? Bella domanda. Ma in Europa non va poi tanto meglio: in sostanza, se la pandemia ha giustificato ovunque interventi di emergenza e limitazioni della libertà individuale, resta il baluardo della vaccinazione obbligatoria.

In una lettera alla Commissione europea, il premier ellenico Kyriakos Mitsotakis chiede di creare un documento per identificare le persone immunizzate: in questo modo sarebbero libere di viaggiare, a beneficio dell’industria del turismo (1). Ungheria, Belgio, Danimarca, Spagna e Polonia sono a favore, mentre Francia, Belgio  e Germania si oppongono. Nel mondo la situazione non è omogenea (2). Spostandoci sul privato, sono invece favorevoli le compagnie aeree internazionali, né c’è bisogno di spiegarne il motivo. In effetti, un documento sanitario unificato sarebbe pratico: garantisce uno standard di sicurezza certificato e abbrevia le operazioni di controllo alle frontiere. Si noti: nessun vaccino è obbligatorio; si spera piuttosto che così facendo la popolazione europea sia incentivata a immunizzarsi. Chi si è vaccinato e desidera viaggiare – la tesi di Mitsotakis – non dovrebbe più sottoporsi a quarantene e tamponi, vedendo quindi ripristinata la sua libertà di movimento, peraltro sancita dalla UE. Per la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è necessario trovare un “requisito medico che dimostri che le persone sono state vaccinate”. Ma guai a chiamarla tessera.

I motivi di tanta cautela? Elettorali. In Francia e Germania è diffusa sia la diffidenza e lo scetticismo verso il vaccino (è anche vero che si tratta di prodotti sperimentati da poco) che il fronte no-vax, quest’ultimo anche capace di manifestazioni violente. La questione intanto passa ai giuristi (3) e può essere così esemplificata: si mina il diritto alla privacy (parere del Garante europeo della protezione dei dati, il polacco Wojciech Wiewiórowski) e pone rischi molto alti in termini di coesione, discriminazione, esclusione e vulnerabilità. Ma se tutti avessero accesso al vaccino nello stesso periodo e con le stesse modalità sarebbe forse diverso? Chi non si vuole vaccinare sarebbe identificato per esclusione, e il Vaticano su questo non discute: il dipendente che rifiuta il vaccino rischia il licenziamento o comunque il declassamento di funzione. Il problema investe direttamente le prerogative dello Stato, che deve erogare lo stesso livello di servizi in tutto il territorio e nel contempo tutelare i cittadini senza discriminarli, anche se un medico o un infermiere che rifiutino il vaccino a mio parere sono solo degli asociali. In ogni caso, la mancanza di un passaporto vaccinale non impedisce ai singoli stati di bloccare l’accesso da singoli altri stati, lasciando quindi discrezionalità nella gestione delle frontiere e di fatto discriminando comunque chi non si è vaccinato.

Note:

  1. https://www.linkiesta.it/2021/01/vaccini-covid-europa-passaporto/
  2. https://siviaggia.it/notizie/passaporto-vaccinale-mondo-situazione/322508/
  3. https://www.agendadigitale.eu/sanita/passaporto-vaccinale-non-solo-questione-di-privacy-tutti-i-diritti-individuali-e-collettivi-in-gioco/

A PLACE CALLED KOSOVO

Il sito ufficiale della US Army ( www.military.com ) è molto ricco di servizi e video e recentemente si è occupato del Kosovo, zona circoscritta ma strategica. Ricordiamo che il Kosovo come stato indipendente nasce nel 2008, subito riconosciuto dagli USA (presidenza Clinton). Ma proprio gli USA si sono trovati a gestire uno stallo che dura tuttora: l’accordo “storico” stipulato da Trump il 4 settembre 2020 tra  il premier del Kosovo Avdullah Hoti e il presidente serbo Aleksandar Vucic sanciva solo la vittoria della dottrina di Donald Trump in politica estera, imponendola unilateralmente a Belgrado e Pristina, ma non offrendo un reale progresso ai rapporti tra i due paesi. Ora, le recenti elezioni parlamentari del Kosovo (14 febbraio 2021) hanno visto la vincita del Movimento di Albin Kurti (Vetëvendosje – Partito Nazionalista di sinistra), noto per la sua intransigenza sulle relazioni con la Serbia. Proprio su Kurti ora ricadrebbero le forti pressioni dell’Occidente di riavviare i colloqui con la Serbia, che non riconosce ancora lo Stato del Kosovo. Una disputa che causa grande tensione e instabilità in tutta la regione balcanica e ostacola il sogno di Belgrado e di Pristina di aderire all’Unione europea. Certo, è ancora presto per capire i futuri sviluppi, ma la presidenza Trump aveva puntato molto sul precedente governo, favorendo anche la creazione di forze armate del Kosovo (approvata il 14 dicembre 2018 dal parlamento di Pristina), progettando di inserirle nella NATO e farle partecipare alle missioni internazionali. Nel frattempo i due eserciti lavorano insieme, mentre la forza KFOR – di cui facciamo parte anche noi con più di 500 elementi – si occupa di evitare attriti fra serbi e kosovari e di aiutare la ricostruzione del paese. MA la strada è lunga.

Ma come viene presentato nel corso del tempo l’impegno in Kosovo su www.military.com ? Sono 30 articoli e 25 video in tutto, alcuni sotto marchio NATO. Inizialmente si parla solo di peacekeeping:

https://www.military.com/daily-news/2013/03/14/active-duty-us-troops-to-do-kosovo-peacekeeping.html
https://www.military.com/daily-news/2015/11/13/soldier-tackles-professional-personal-goals-in-kosovo.html

Il Kosovo viene presentato come un posto strano per i soldati…

https://www.military.com/video/operations-and-strategy/deployment/a-place-called-kosovo/661029606001

e magari un orso viene curato dal dentista di caserma…

https://www.military.com/video/us-soldiers-kosovo-treat-bears-damaged-tooth

In genere, più prosaicamente, si esalta la cooperazione con gli altri eserciti della KFOR:

https://www.military.com/video/specialties-and-personnel/physical-fitness/spartan-300-challenge-in-kosovo/4680916396001
https://www.military.com/video/forces/army-training/international-infantry-training-in-kosovo/5128245628001

Vengono poi registrati alcuni decessi di militari in incidenti, ma viene anche data importanza alle donne:  p.es. una irachena arruolata tre anni prima nella US Army e ora in missione in Kosovo, paese – ricordiamolo – musulmano:

https://www.military.com/daily-news/2018/11/05/female-iraq-native-empowers-kosovo-mission-through-personal-experience.html

oppure un’austriaca e una slovena:

https://www.military.com/video/forces/international-forces/nato-women-in-kosovo-austrian-logistics-officer/5366980614001
https://www.military.com/video/forces/military-foreign-forces/nato-women-in-kosovo-slovenian-infantry-platoon-leader/5365687635001

…e l’italiana Sara Sapienza, sottoufficiale della Brigata Trasmissioni, degli Alpini, intervistata nel Villaggio Italia di Pec’/Peja:

https://www.military.com/video/forces/international-forces/nato-women-in-kosovo-italian-signal-platoon-leader/5366972945001

Curiosamente, Sara Sapienza ha visibilità nei canali NATO in inglese ma sembra ignorata dalle fonti italiane:

https://jfcnaples.nato.int/newsroom/news/2017/the-limits-are-sometimes-mental
https://www.dvidshub.net/video/513148/nato-women-kfor-italian-signal-platoon-leader-with-music

Nel 2018 invece vengono registrate le proteste della Serbia per la formazione di un esercito nazionale kosovaro, “Serbia insists that the new army violates a U.N. resolution that ended Kosovo’s 1998-1999 bloody war of independence” :

https://www.military.com/daily-news/2018/12/14/serbia-talks-armed-intervention-kosovo-oks-new-army.html

L’anno scorso naturalmente si parlava di Covid, vista la presenza di 3400 fra soldati e civili da 27 paesi diversi in un paese male attrezzato per qualsiasi epidemia:

https://www.military.com/daily-news/2020/12/25/virus-changes-work-not-goal-of-kosovos-nato-peacekeepers.html

Ma uno dei piatti forti resta lo sminamento:

https://www.military.com/video/operations-and-strategy/land-mines/international-day-of-mine-awareness/5395555839001
https://www.military.com/video/ammunition-and-explosives/explosive-ordnance-disposal/meet-erin-natos-bomb-disposal-commander-in-kosovo/5363003266001

Qui vediamo il sottotenente sminatore Erin Schneider, a capo di un reparto EOD, perfettamente a suo agio nel suo ambiente. E con questo termina la nostra breve rassegna sul Kosovo visto con gli occhi della US Army. Si tratta di video brevi e ben confezionati, o di articoli concisi ma essenziali. Un esempio di comunicazione.

CONGO, ovvero Cuore di Tenebra

Dalla rilettura di “Cuore di tenebra“, sceneggiato da Giovanni Masi e disegnato da Francesca Ciriegia.

Onore al nostro giovane ambasciatore Luca Attanasio e al carabiniere Vittorio Iacovacci e condoglianze alla famiglia. Mi sento però in dovere di scrivere due righe in argomento:

  1. Il convoglio non era scortato. Dalle immagini non è chiaro neanche il numero dei veicoli, ma è evidente che era indifeso. Ora, in una zona di guerra civile endemica, infestata da bande armate in bilico tra ideologia e brigantaggio, buonsenso vuole che non si vada in giro senza una scorta armata. In un paese normale, a garantire la sicurezza del corpo diplomatico e delle missioni internazionali è il governo locale, vietando o sconsigliando il transito nelle zone contese o fornendo adeguata scorta militare ai convogli. D’altro canto un ambasciatore che si professa profondo conoscitore della zona è tenuto a sapere quali sono i pericoli del caso, senza fidarsi di chi dichiara l’area in questione “meno pericolosa”. C’è stata oggettivamente una carenza di intelligence.
  2. Nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) e nelle zone oltre la frontiera del Ruanda sono dislocati 20.000 caschi blu delle Nazioni Unite, che costano un miliardo di dollari all’anno alla comunità internazionale. I primi furono mandati in Congo ex-belga già nel 1960! L’attuale estrazione sociale di questi soldati non è molto diversa da quella delle bande che dovrebbero controllare, e gli standard di addestramento e organizzazione non sono sempre omogenei. Si continua ad avere un gran rispetto e una grande fiducia nell’ONU, ma storicamente i risultati non sono stati sempre brillanti. In più, le regole d’ingaggio dei caschi blu sono sempre complicate e la catena di comando priva di autonomia sul campo, sottoposta com’è a una serie di autorizzazioni successive.
  3. La nostra cooperazione – ufficiale o gestita in modo autonomo dalle ONG – ha finora avuto un prezzo alto, spesso pagato dalle donne. Ma non sempre l’atteggiamento della gente – parlo dei commenti sui social – è stato generoso verso chi dedica la propria vita e il proprio impegno quotidiano a migliorare le condizioni di vita di chi vive in zone difficili. Solo nella RDC operano 115 ONG da vari paesi (1). Ricordiamo le aggressive reazioni della gente di fronte al rapimento di Silvia Costanza Romano (2018) e di altre donne (2), il cui senso era: “te la sei cercata” o “così impari ad aiutare chi non se lo merita”. Per il nostro ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci il caso è diverso: si tratta di due servitori dello Stato in missione ufficiale, ai quali tributare i massimi onori. Ci auguriamo solo che nessuno ne infanghi la memoria.

Note:

  1. https://www.forumongi-rdc.org/
  2.  https://www.panorama.it/news/cooperante-italiana-rapita-precedenti-africa-riscatto-pagati

Revisionismo Animato

La Disney ha messo le mani avanti, sconsigliando ai minori di sette anni alcune sue pellicole: Dumbo, gli Aristogatti e Peter Pan; contengono alcuni stereotipi sbagliati. Negli Aristogatti è il perfido, ambiguo gatto siamese, sugli altri non mi sono informato. La Disney ora non rimuove i contenuti, ma ne riconosce l’impatto dannoso, e vuole stimolare il dibattito “per creare insieme un futuro più inclusivo”. E perché non sostenibile? La Disney si è parato il sottoschiena evitando un pericoloso boicottaggio commerciale. Certo si ricordava di Aladdin (1992), quando per le proteste dell’American-Arab Anti-Discrimination Committee (ADC) cambiò in fretta le parole di una canzone dove gli Arabi non ci facevano bella figura:

“Where they cut off your ear if they don’t like your face / It’s barbaric, but, hey, it’s home”

“E ti trovi in galera anche senza un perché / che barbarie, ma è la mia tribù”

Notare che nella versione originale ti tagliano un orecchio. Di seguito ecco la versione riveduta e corretta. Notare che in italiano “barbaric” diventa “non è facile”

 “Where it’s flat and immense and the heat is intense / It’s barbaric, but, hey, it’s home”

“C’è un deserto immenso e un calore intenso / Non è facile, ma io ci vivo laggiù”

Come si vede, Disney all’epoca l’aveva fatta proprio grossa e neanche era di moda la parola islamofobia, termine che io rimando sempre al mittente, non essendo lecito bollare un atteggiamento di opposizione ideologica usando le categorie della psichiatria clinica. Il dissenso non è una malattia mentale.

Ma torniamo al revisionismo estremo e trionfante dei nostri giorni. Che un’opera d’arte sia figlia del suo tempo è un optional. Si è visto di tutto: Dante censurato perché scortese con gay e musulmani, il Vangelo perché chiama Farisei gli ebrei ortodossi, Via col vento perché esalta i Sudisti schiavisti, e persino i classici latini e greci per intero perché basi fondanti del suprematismo bianco coloniale (1). Inutile dire che la civiltà europea ha dato al mondo anche la democrazia, il diritto romano, il pensiero laico, i diritti umani, il voto alle donne, la divisione dei poteri costituzionali: da quell’orecchio non ti sentono, preoccupati di azzerare la storia, la cultura e la memoria, possibilmente la propria. A questo punto ben vengano il Giorno della Memoria e i suoi derivati, a patto che diventino momenti di riflessione e di ricerca storica e non cerimonie retoriche. Il giorno della Memoria dell’esodo istriano e dalmata non è stato p.es. l’occasione di rinfocolare vecchi nazionalismi, ma anche di stimolare una ricerca storica seria, che ora ha rivelato anche la parte avuta dalle nostre forze armate nella dura repressione delle bande partigiane jugoslave. Un giudizio storico e politico si può dare soltanto cercando e rendendo pubblici i documenti storici. Memoria quindi come archivio della realtà fattuale, e non a caso il revisionismo per prima cosa si premura di riscrivere la storia e alterare i documenti, seguendo un preciso progetto di controllo politico. E qui gli esempi anche attuali non mancano, al punto di non dover neanche annoiare il lettore con le citazioni d’uso. Mi preme però far notare alcune novità.

La prima è che viviamo in un’epoca che ama poco la storia; basta vedere i programmi scolastici italiani attuali, parlare coi giovani o seguire le risposte ai quiz televisivi. Se non c’è interesse dal basso perché si vive nel presente e allo stesso tempo lo Stato non si preoccupa di insegnare storia e geografia aggiornando i programmi, il danno è completo. Notavo anni fa la mancanza di senso storico degli studenti americani con cui lavoravo: per loro l’Impero romano, l’antico Egitto, i Maya, i Ming o Guerre Stellari erano strutture complesse, strutturate ma praticamente sincroniche e parallele. Ma in fondo – si dirà – gli Stati Uniti esistono da due secoli e mezzo, quindi non hanno avuto tempo di stratificare la conoscenza. Già, ma noi? Perché buttare nel cesso la nostra cultura, come il Vaticano ha fatto con il latino e il canto gregoriano?

Seconda osservazione: se la storia non ha valore, ben vengano le contaminazioni. E qui diventa quasi un allegro gioco di società: nella serie Netflix inglese Bridgerton, dramma in costume che si ispira ai libri di Julia Quinn, vediamo attori di colore che interpretano aristocratici e dame di corte (la regina d’Inghilterra compresa) nella Londra di fine Ottocento. È il blind casting, cioè scegliere senza curarsi della coerenza. E’ antistorico, ma in fondo è finzione. Il pubblico sta al gioco: è gratificante e strizza l’occhio al politically correct. Già si era visto Achille nero in Iliad, come se la storia fosse uno spot pubblicitario dove secondo il mercato oggi è opportuno mostrare i vispi figli degli immigrati invece dei soliti pargoli biondi con gli occhi azzurri. Ricordo un film con Bud Spencer e Terence Hill ambientato in Africa: quando in un esclusivo club cittadino un bianco si scandalizza per l’ingresso di soci neri, la pronta risposta è: “per me non esistono bianchi e neri, ma solo clienti”.

Terza osservazione: il relativismo, da cui metteva in guardia papa Ratzinger. Se metti tutto sullo stesso piano, alla fine è il caos della conoscenza. E qui dilagano complotti, false verità, balle spaziali e quant’altro, amplificati se non legittimati dai social. L’Internet non era nata per diffondere odio, veleno e menzogna, ma la realtà attuale ci pone di fronte a una doverosa presa d’atto. E quando un falso ideologico o la distruzione morale di un dissidente dal pensiero corrente passano per la rete, si è visto che sono più micidiali dei mezzi di comunicazione precedenti. Si può davvero credere al delirio di QAnon? Eppure migliaia di persone ci credono o fanno finta di crederci per esaltare il proprio Ego frustrato e trovare conferma presso gli altri.

Quarta e ultima osservazione: parliamo di una censura che non viene imposta da governi autoritari e antidemocratici: quella in fondo neanche pone troppi problemi di analisi, essendo palese quanto rozza. Il problema è quando parte – come ora – da minoranze organizzate o addirittura docenti universitari che vivono in società libere e democratiche, quindi realtà apparentemente esterne al potere politico. L’unico precedente che mi sovviene è il codice Hays, censura cinematografica esterna allo Stato ma non per questo meno efficace (2) e non per niente nata negli Stati Uniti. Oggi il problema è che non solo accettiamo la censura, ma la introiettiamo per paura delle conseguenze. Censura sottovalutata solo perché non è imposta da una polizia segreta, ma da uno strisciante condizionamento mentale gestito da minoranze “social”. Ricordo una frase della regista ungherese Marta Meszàros: la vera censura è quella che hai dentro.

Note:

  1. https://www.linkiesta.it/2021/02/professore-cultura-classica/
  2. https://it.wikipedia.org/wiki/Codice_Hays