Nel cuore del Ciad, gli abitanti della provincia di Guera si trovano a far fronte alle conseguenze del cambiamento climatico, in particolare all’avanzamento del deserto, che minaccia le loro risorse naturali e le condizioni di vita.
Questi nuovi “eco forni” consumano metà del legno abitualmente usato per cuocere qualsiasi pietanza, contribuendo a ridurre l’estirpazione degli arbusti, naturale argine al deserto, nelle vicinanze dei villaggi, lottando così contro la desertificazione.
Il successo del progetto si deve alle 250 donne che hanno scelto di adottare quotidianamente queste cucine, piccole stufe in metallo trasportabili, semplici da costruire: una scatola di lamiera e ghiaia, capace di mantenere il calore per lungo tempo, con dei supporti inferiori, aperta su di un lato per il fuoco e un foro superiore per il pentolame.
È un’iniziativa nel rispetto della tradizionale culinaria che contribuisce a ridurre il taglio degli alberi, a favorire la conservazione dell’ambiente ed a migliorare la qualità della vita delle donne. Si tratta di semplici cucine, costruite con materiali disponibili nel paese, che non richiedono una manutenzione speciale e, in ogni caso, l’officina meccanica ACDAR è in grado di ripararle.
La ACDAR è una piccola cooperativa di meccanica di Mongo che, oltre a produrre e riparare le cucinette, forma nuovo personale, i nuovi fabbri per la zona e per i paesi limitrofi.
Una decina di anni fa era stata promosso l’utilizzo delle cucine solari, ma aveva creato diffidenza nelle donne vedere quelle parabole con una pentola collocata nel mezzo che cuoceva senza il fuoco, bollando il marchingegno come magico se non addirittura malefico oltre all’ingombro ed alla necessità di essere esposto all’esterno, non adatto ai luoghi ristretti ed alle sole donne, violando la loro intimità.
La “magia”, oltre ai maggiori costi dei componenti di base delle cucine solari eco sostenibili, non hanno trovato il favore tra le donne, ma il gesuita Pietro Rusconi ha trovato la soluzione per ridurre il consumo del legname con queste scatole per cucinare e dare un’opportunità, con la formazione dei tecnici, di lavoro alla popolazione locale.
Le donne riceveranno una formazione tecnica per l’utilizzo delle cucinette e tutti i membri dei villaggi interessati saranno sensibilizzati ad una migliore protezione dell’ambiente ed a uno sviluppo sostenibile. In Italia, la Fondazione MAGIS promuoverà attività di educazione allo sviluppo nelle scuole e tra i gruppi missionari. Un obiettivo trasversale del progetto è la riduzione del tempo utilizzato. Le cucine sono infatti funzionanti con piccoli bastoncini che i bambini e le donne potranno raccogliere non lontano dalle loro capanne; il tempo risparmiato potrà essere usato per altro, i bambini avranno più tempo per studiare.
E’ curioso: nella storiografia spesso si tende a capire meglio gli avvenimenti passati sulla base dell’attualità invece di vedere il presente come risultato di processi precedenti. La riflessione sui cambiamenti climatici ha dato p.es. una nuova chiave interpretativa delle invasioni barbariche: è verosimile che gli Unni e altri allevatori nomadi della steppa siano stati spinti a occidente dalla progressiva mancanza di acqua e pascolo per le loro migliaia di cavalli. Ed è così che l’attuale pandemia può farci riflettere su analoghi episodi virali del passato. In questo articolo mi soffermerò sull’epidemia di peste nera che colpì Costantinopoli e l’Impero Romano d’Oriente dal 541-42 in poi e dopo cicli quasi endemici di 20-30 anni si esaurì verso il 750. E’ detta di Giustiniano perché infuriò durante il suo regno (527-565 d.C.). La fonte principale è lo storico Procopio di Cesarea (1), testimone oculare dell’epidemia: originaria dell’Etiopia, giunta in Egitto con le navi dal Mar Rosso e in seguito diffusa via navi granarie nei principali porti del Mediterraneo e in seguito anche nell’entroterra collegato dai grandi fiumi navigabili (come il Rodano da Marsiglia in su). Nell’Impero il granaio era infatti l’Africa mediterranea e vettori dell’infezione furono i topi neri dei porti, a loro volta infestati da cimici e pidocchi capaci di infettare il sangue degli umani col virus Yersinia pestis, di un ceppo simile a quello responsabile della Peste Nera del 1347-48 (quella del Decamerone, per intenderci). E siccome nelle popolose città portuali i ratti e i loro parassiti erano e sono la norma, l’infezione era inevitabile. Già c’era stata negli anni tra il 165 e 180 d.C. un’epidemia nota come “Peste Antonina” – in realtà vaiolo polmonare (2), ma questa nuova pandemia non aveva precedenti, quindi attaccò con virulenza popolazioni non immunizzate. Come abbiamo detto, difficile fare stime: si parla di una demografia ridotta di un terzo (cioè 15-30 milioni di morti), di 10.000 morti al giorno a Costantinopoli nel periodo di picco, ma i dati non sono sempre attendibili e di recente sono stati rimessi in discussione dai virologi, i quali se da un lato hanno identificato con precisione il genoma, hanno però ridimensionato i dati esagerati, basandosi su sull’analisi economica e lo studio delle sepolture (3). Sicuramente è difficile far stime in epoche prive di statistiche scientifiche, per cui dobbiamo basarci sulle testimonianze degli storici del tempo, che paragonavano la peste descritta da Tucidide – in realtà tifo esantematico (4) – a quanto vedevano ogni giorno nella nuova capitale dell’Impero e nelle terre riconquistate ai barbari invasori. Parlano di cataste di morti senza spazio per la sepoltura, di campi abbandonati, di reggimenti indeboliti, di burocrazia impotente, di cadaveri buttati a mare, di miasmi irrespirabili, di latifondi privi di manodopera. Nulla sapendo di virus e batteri, descrivono la realtà ma non sanno spiegarla, ripiegando sulle facili metafore del castigo divino, pagano o cristiano che sia. Conseguenza immediata dell’epidemia fu comunque la crisi della produzione agricola, più la paralisi militare dell’esercito imperiale e dell’apparato amministrativo che doveva inquadrarlo e alimentarlo, col risultato che la riconquista dell’Africa romana e dell’Italia non fu consolidata e da lì a poco sarebbero calati i Longobardi. Dunque il piano strategico di Giustiniano si rivelò troppo ambizioso e privo di risorse adeguate in una situazione d’emergenza, ma non era tutta colpa sua: senza la peste, quelle risorse non solo sarebbero state disponibili, ma avrebbero garantito anche la ricostruzione, mentre gli storici dell’epoca registrano una desolazione tale da scoraggiare qualsiasi ripresa.
Ora mi si permettano alcune osservazioni, che così schematizzo:
La pandemia è storicamente documentata anche da recenti studi di storia naturale.
Sulla strategia di Giustiniano gravano pregiudizi storiografici.
Gli studi che sminuiscono l’impatto della pandemia non invalidano la narrazione corrente.
Conclusioni
Procopio non è l’unico storico che abbia descritto la peste (5). Ma oggi le fonti storiche sono state integrate da recenti studi scientifici. In particolare, se l’analisi del genoma ha chiarito la natura e l’iter del virus (note 3 e 4), la climatologia ha rilevato attraverso il carotaggio dei ghiacci antartici che nel 541 ci fu una netta riduzione dei livelli di anidride carbonica in atmosfera, dovuta dunque al collasso demografico e alla riduzione del bestiame produttore di metano (6).
Sull’Impero Romano d’Oriente pesano tuttora due pregiudizi: quello dello storicismo tedesco e quello altrettanto fuorviante della cultura cattolica. L’interesse geopolitico tedesco per l’Europa continentale e l’Italia come sua appendice si direbbe ancora attuale, ma ha sempre avuto i suoi collaborazionisti. L’ossessivo accento sul Sacro Romano Impero ha relegato l’Impero Romano d’Oriente (volgarmente detto bizantino, come a dire né greco né romano) a zona residua, mentre in realtà è una grande entità statuale durata mille anni e assai più solida e strutturata delle coeve istituzioni imperiali germaniche. L’ingresso di Goti, Eruli e Longobardi in Italia e la creazione di regni romano–barbarici di fatto porta all’inserimento del Mediterraneo in un’orbita continentale, invertendo la dinamica che da Cesare in poi spingeva Roma ad assorbire l’Europa prima delle grandi invasioni germaniche. Ma i soldati e funzionari di Giustiniano non erano “greci” e il Codex Juris Civilis è scritto in latino. L’impero romano si riprendeva quello che era suo, anche se la divisione tra Impero Romano d’Occidente e Impero Romano d’Oriente era ormai una realtà funzionale già dai tempi di Diocleziano. Resta da capire se la grande strategia di Giustiniano era quella giusta. Edward Luttwack (7) fa notare che distruggere il nemico invece di farne un vassallo alleato significa dover combattere il successivo nemico (magari più forte) che occupa lo spazio vuoto e sostenere da soli lo sforzo militare, e infatti la politica imperiale successiva non farà mai più questo errore strategico; cercherà piuttosto di indebolire i nemici concedendo loro lo status di vassallo o di alleato e favorire le ibridazioni fra “romani” e allogeni. Quanto all’altro pregiudizio storiografico – quello cattolico – ha le sue ragioni profonde in quel processo di evoluzione genetica e culturale divergente che ha portato Latini e Greci cristiani a non parlarsi più per secoli, almeno fino al Concilio Vaticano II. Meglio un destino storico legato ai rudi Franchi e santificato da Roma piuttosto che una dipendenza da Bisanzio e dalla chiesa ortodossa, la quale altro non è che un cristianesimo orientalizzato. Da qui una “cattiva stampa” su Giustiniano, i suoi generali e i suoi esosi funzionari e l’esaltazione degli esperimenti di Teodorico, di Vitige e di Totila, sovrani guerrieri rozzi e stranieri, ma in fondo capaci di evoluzione e compatibili con l’ideologia monarchica sabauda (8), in parallelo alla denigrazione dei Greci infidi, corrotti e decadenti se non degenerati, più o meno come vengono rappresentati nell’Armata Brancaleone. Nella realtà i bizantini non si sono mai fatti chiamare così (a parte i residenti nella capitale), ma Romàioi, cioè romani, e si sono sempre considerati gli eredi di un’istituzione – l’Impero romano – che non è sparita come in Occidente, ma si è solo trasformata per adeguarsi ai tempi.
Ammettiamo ora, come suggeriscono alcuni specialisti (citati in nota 3), che la pandemia di Giustiniano vada ridimensionata. Non sono né archeologo né virologo, quindi non ho gli strumenti per confutare quei professionisti. Suggerisco però che gli effetti della pandemia siano stati amplificati dalla struttura stessa dell’Impero. Intanto, non è un caso che la peste non abbia devastato l’Europa d’oltralpe: poco popolata, priva di grandi centri urbani e di strade, quindi ha dato poco esca al contagio. Lo stesso vale per le zone desertiche a sud della Siria e della Palestina: le popolazioni arabe nomadi o seminomadi vivevano disperse in ampi spazi, e infatti saranno falciate solo un secolo dopo, quando conquisteranno le grandi città formicaio del Vicino e Medio Oriente e vivranno nelle stesse pessime condizioni igieniche dei popoli conquistati. Ma sul momento possono approfittare proprio della crisi sanitaria, demografica e amministrativa dei due imperi, Romano orientale e Persiano Sassanide. Lo stesso faranno nel Maghreb con le scarse difese dell’Africa romana, già riconquistata dalle tribù libiche dell’interno (come avvenne anche dopo secoli, quando la nostra conquista del 1912 fu messa subito sotto pressione dai discendenti delle stesse tribù). Ma torniamo al nostro Impero: anche se la peste avesse avuto danni limitati, ha comunque messo in crisi la testa di un’amministrazione molto centralizzata. I reggimenti erano ormai a organici ridotti, ma non funzionava più l’economia produttiva ed era paralizzato l’apparato statale che esigeva le tasse, reclutava, pagava e riforniva i soldati e le navi per trasportarli. Per un esercito barbarico o nomade era diverso: non si distraevano braccia dall’agricoltura, non si raccoglievano centralmente le tasse (da qui la lamentela sulla fiscalità bizantina) e non si dipendeva da una catena logistica estesa e complessa. E’ un po’ il problema che affligge oggi i tecnologici eserciti occidentali quando devono combattere conflitti di bassa intensità o viene interrotta la catena logistica. Sarà un caso, ma le difficoltà le abbiamo ancora negli stessi luoghi: Medio e vicino Oriente, Nordafrica.
Conclusioni: L’attuale pandemia da Coronavirus fornisce l’occasione per ripensare un fenomeno analogo avvenuto nel VI secolo d.C., che avrebbe influito profondamente sulla storia dell’Europa mediterranea. L’eccessiva centralizzazione dell’Impero Romano d’Oriente ne fu fortemente penalizzata e in pochi anni si scivolò realmente nel medioevo.
NOTE:
Procopio, Storia delle guerre ,Οἱ ὑπὲρ τῶν πολέμων λόγοι. Edizioni varie.
L’epidemia falciò anche l’imperatore Lucio Vero, della dinastia degli Antonini. E’ nota anche come “Peste di Galeno”, dal noto medico che la descrisse. Fu portata e diffusa dai soldati reduci delle guerre contro i Parti. Si vedano le analisi condotte dai virologi studiando le fonti storiche: La peste di Giustiniano, a cura di Sergio Sabbatani et alii, in Le infezioni in Medicina, 2012, 2, pag. 125 e segg.
Cito i contributi più autorevoli: Yersinia pestis and the Plague of Justinian (541-543 A.D.): a genomic analysis, David M. Wagner PhD, Jennifer Klunk BS et alii, in The Lancet. Infectious Diseases, Vol. 14, Issue 4, p. 319-326, April 1, 2014 < disponibile anche in web >. Per una revisione sono fondamentali: Mordechai, Lee; Eisenberg, Merle; Newfield, Timothy P.; Izdebski, Adam; Kay, Janet E.; Poinar, Hendrik (November 27, 2019). “The Justinianic Plague: An inconsequential pandemic?”. Proceedings of the National Academy of Sciences. 116 (51): 25546–25554. e il seguito: Mordechai, Lee; Eisenberg, Merle (August 1, 2019). “Rejecting Catastrophe: The Case of the Justinianic Plague“. Past & Present. 244 (1): 3–50.
Altre fonti: il giurista Agathias, l’ufficiale delle guardie Menandro, il retore Giovanni Malalas, il vescovo Vittorio di Tunnunna, Evagrio Scolastico di Antiochia, Giovanni da Efeso, lo Pseudo-Dionigi di Tell Mahre, il monaco Teofane (vissuto però nel IX secolo) e Paolo Diacono (id.)
Edward N. Luttwack, Great Strategy of Byzantine Empire, 2009, ed. Italiana: La Grande Strategia dell’Impero Bizantino. Milano, Rizzoli, 2009, pag. 101-107 e note bibliografiche. Qui cito dall’edizione italiana.
Luttwack, cit. E’ la tesi portante del suo libro.
Cito p.es. Il romanzo di Totila : primo re d’Italia / Guido Perale, 1960.
Le città, con il Coronavirus, hanno
svelato una nuova dimensione difficilmente paragonabile a quella vissuta negli
anni ’70 con la crisi energetica o le lontane permanenze ferragostane di una
metropoli deserta.
Non si tratta di un vigoroso
ridimensionamento del traffico stradale o di una presenza pedonale limitata
all’essenziale, ma di corpi trasformati in immagini; quello che conoscevamo ha
acquisito una nuova presenza, nel tempo che Freud definiva del perturbante, il
familiare che si trasforma in estraneo e l’assente che diventa quotidiano.
Cittadini che riscoprono la pazienza e
l’educazione di affrontare le file per l’acquisto di alimentari e farmaci, per
accedere ai servizi postali e bancari, per una riparazione informatica o
nell’acquistare materiale da bricolage e sistemare ciò che l’abitazione
attendeva da tempo.
Un periodo sospeso nel tempo da
utilizzare per le riparazioni casalinghe da tempo rimandate o un libro che
attendeva di essere letto, scoprire la cultura su internet visitando musei o
ascoltare musica, guardare film e documentari, sfogliare o gustarsi un romanzo
letto con patos.
La società si comprime sui singoli
individui, per celebrazioni comunitarie di balconi plaudenti, canterini, in una
lontananza che avvicina le persone nell’affrontare un diverso stile di vita che
abbatte il consumismo dello spreco, abbracciare l’oculatezza dell’acquisto,
dopo un primo momento di panico esternato in acquisti compulsivi da carta
igienica e scatolame vario.
File educate di persone con una bassa
conoscenza della geometria che sceglie alla linea retta quella a zig-zag o
quella sinuosa della serpentina, ponendo i pedoni interessati ad andare oltre
lo scendere dal marciapiede o affrontare calcoli algebrici per non entrare in
collisione negli spazi altrui.
La speranza è che al termine di questa
vicissitudine le persone possano aver acquisito l’educazione necessaria per
convivere con le altre persone.
Il rumore delle città ritornerà a
coprire il cinguettio e in quel momento è augurabile che persone, al termine
della pandemica reclusione, possano aver fatto tesoro dell’esperienza, per un
oculato stile di vita e di rapporto con gli altri.
Il Coronavirus come un corso di
rieducazione per il rispetto del prossimo, senza dare in escandescenze,
nell’uso dei mezzi di trasporto privati per brevi distanze. Le ipotesi di come
sarà il dopo comprende anche scenari di una diseguaglianza accentuata e di un
accentuato conflitto sociale.
Cosa dire in questo periodo surreale,
con Roma vuota e tutti reclusi ai domiciliari? Cosa fare ogni giorno col
coprifuoco di 24 ore? A quali ricordi fare riferimento per affrontare una
situazione mai vista se non in tempo di guerra? Come convivere serenamente con
chi altrimenti vedevi poche ore al giorno? E quando finirà una situazione che
pareva breve? Ogni giorno prendo appunti e come tutti gli altri cerco di
capirci qualcosa, di dare un senso a questa reclusione. Non sono originale,
però vivo come tutti una strana situazione che mai avrei immaginato possibile;
da qui il bisogno di mettere nero su bianco la quotidiana esclusione dallo
spazio sociale. Ma dopo venti giorni al telefono ci diciamo tutti più o meno le
stesse cose, cioè poco, visto che poco possiamo fare. Chi ha figli può
approfittarne per avere con loro un dialogo, un rapporto più stretto; ma noi
siamo solo in due e la giornata è lunga, molto lunga. Cristina per fortuna ora
può lavorare da casa e lo fa con entusiasmo, per ore. E’ una bibliotecaria come
lo sono stato io, quindi spesso collaboro con lei nella revisione delle schede
di catalogo. Tutto in linea, ovvio. Ieri sera invece mi sono collegato via
Skype con un’associazione, e con mia sorpresa il collegamento funzionava bene.
Oggi invece è domenica e la rete è sovraccarica e ricorda i collegamenti di
vent’anni fa. Ma sia chiaro: vivo quello che vivono tutti, a Roma la situazione
è ancora sotto controllo e io non sono in prima linea come medici, infermieri e
volontari. Seguo ogni giorno le notizie e mi chiedo come mai abbiamo oggi più
morti dei cinesi (se non hanno barato: ieri sera abbiamo visto tanti, troppi
pallets con imballate le urne cinerarie da restituire ai parenti); telefono
ogni tanto agli amici del nord e mi rimangono indelebili sia le immagini dei
camion militari che portano via le bare che quelle di Papa Francesco che da
solo predica in mezzo a piazza san Pietro totalmente vuota, vera Lux in
tenebris.
Ma come si svolge la vita quotidiana?
Primo consiglio: di questi tempi è meglio la radio. Ogni giorno, su tutti i
canali tv e a tutte le ore non solo si parla soltanto di Coronavirus, ma ne
parlano anche persone in cerca di visibilità quanto prive di competenza, e il
bollettino di guerra della Protezione Civile da solo non dice tutto. Ma
l’epidemia di fatto monopolizza l’informazione, al punto che nulla più sappiamo
dell’assedio di Tripoli, dei combattimenti in Siria, dei migranti che premono
sui confini greci o dei barconi pronti a partire dalle coste nordafricane;
forse aspettano che finisca l’epidemia per riprendere le consuete attività.
Oppure, i nostri giornalisti hanno sviluppato una sorta di monocultura che
esclude tutto il resto.
Qualcuno si è scagliato con violenza
contro le metafore di guerra che stanno saturando il vissuto quotidiano e il
suo immaginario. Non abbiamo il diritto di paragonare tre settimane sbracati
sul divano con quello che patiscono in questo momento i siriani assediati o con
gli anni di guerra vera vissuti dai nostri genitori e dai nostri nonni. Per
salvare l’Italia nessuno ci ha ancora mandato al fronte e i soldati ora
impegnati nell’emergenza sono tutti professionisti. Anche se c’è fila, i generi
alimentari non sono razionati e ognuno compra quello che può. Non siamo esposti
a bombardamenti e in ogni momento possiamo comunicare liberamente con tutti e
ascoltare informazione senza apparente censura. Abbiamo tecnologie che ci
permettono di lavorare da casa e restare in contatto con tutto e tutti. Le
limitazioni alla nostra libertà individuale sono temporanee e almeno per ora
non c’è pericolo immediato di un’involuzione autoritaria delle istituzioni.
Strana guerra poi: identificato il nemico, sgombriamo il terreno invece di
occuparlo. Eppure le metafore belliche saturano il nostro immaginario e
informano il linguaggio dei politici, degli esperti, dei giornalisti, più
quello dei presenzialisti da strapazzo che la tv invita ogni momento in studio
o in video chat. Il motivo è semplice: esse hanno facile presa su una società
che non conosce più privazioni e ha quindi perso il senso della realtà.
Sicuramente la doccia fredda nessuno se l’aspettava e le conseguenze le
pagheremo per anni, e non solo economiche. In più già si registra una fioritura
di testi apocalittici e moralistici, con il supporto dei presunti complotti
diffusi via social.
Ma parliamo di noi. La cosa più
importante: organizzare la giornata. Uno deve darsi un programma, una
disciplina. Come insegna il servizio militare, se la struttura è improduttiva
bisogna imporle precisi rituali quotidiani. In famiglia non sempre funziona,
nel senso che, convivendo h24 da venti giorni, non sempre tutto procede secondo
tabella e se c’è un periodo in cui viene messa alla prova la tenuta della
coppia, è proprio questo. Fra qualche mese è scontato che aumenteranno le separazioni
e/o i neonati. Molti negozi e alberghi falliranno, ma non gli avvocati e le
ostetriche.
Regola due: curare l’igiene personale e
il proprio corpo, radersi, mettersi sempre in camicia e cravatta. Questo non
solo per mostrare un’immagine decente di se stessi quando ti chiamano via Skype
o in videochiamata WhatSapp, ma per mantenere un tono. Ricordo l’immagine di
copertina di un romanzo di Evelyn Waugh (mi pare Unconditional Surrender):
anche nel campo di prigionia l’uffiziale inglese mantiene la sua dignità, anche
se la sua divisa è ridotta a stracci. Niente di peggio che rimanere tutta la
giornata in pigiama: di sicuro quello è il sistema migliore per non combinare
niente.
Altra regola, guardare la televisione il
meno possibile: è ansiogena e invece di comunicare sicurezza riesce a scatenare
l’effetto contrario. Un solo argomento occupa tutti i canali a tutte le ore,
con la continua presenza di presenzialisti ed esperti che spesso tali non sono.
E’ una comunicazione sbagliata. Un mio amico invece mi manda ogni giorno il
numero dei bambini nati: almeno è un segnale di vita. Meglio a questo punto la
radio: più variata, priva di censura. La radio poi riempie il silenzio della
casa nei momenti più noiosi. Personalmente sono da sempre un affezionato radioascoltatore
e anche un po’ radioamatore, visto che ogni tanto una radio me la sono anche
fabbricata da solo con materiali di fortuna, come nei campi di prigionia.
Lavorare alla radio è il mio sogno e presto inizierò a collaborare con una web
radio (1).
Ma torniamo alla nostra vita chiusi in
casa. Mettiamola in ordine. Io e Cri abbiamo “scoperto” che, uscendo la mattina
e tornando solo la sera, casa è incasinata. Morale: è da tre settimane che
spostiamo roba, buttiamo borse e buste di plastica, mettiamo altra roba in
lavatrice e inscatoliamo soprammobili, ritroviamo collane, cravatte, foto,
distintivi, ricette mediche. Ogni giorno si lavano bagno e cucina, si
innaffiano piante e si levano foglie secche. La metà di quello che sta nelle
case è ripetitivo o non serve a niente. Purtroppo le case sono strutturate in
modo irrazionale, almeno in alcune parti: angoli morti e mobili con zampe basse
son solo trappole per la polvere; sotto i cuscini il divano cela telecomandi
per televisore, telefoni viva voce, penne biro e libri tascabili. In compenso
dentro armadi e cassetti ritrovo cavi di prolunga, chiodi e viti, barattoli di
vetro vuoti e quant’altro “potrebbe servire”: in tempi normali è l’anticamera
del barbonismo, ma non potendo uscire tutto è utile; in più realizziamo la
quantità e varietà di detersivi e detergenti che la parossistica colf ci ha
fatto ricomprare ogni settimana. Tocca poi ai flaconi di shampoo, ai medicinali
scaduti, ai dopobarba svaniti, agli alimenti dimenticati nel frigorifero, ai
verbali del condominio di due anni fa… e così via. Per poi passare a borse,
scarpe e vestiti. Un capitolo a parte meritano i capi di vestiario militari o
compatibili: prima o poi sparirebbero se non riuscissi a convincere mia moglie
che gli ho trovato posto, il che naturalmente non è vero.
Da ragazzino – intendo fino a dieci anni
– stavo spesso a casa, come tanti altri. La mattina a scuola, ma il pomeriggio
a casa. Di giocare a pallone per strada non se ne parlava, eravamo borghesi.
Quindi, fatti i compiti, molto modellismo Airfix e letture di ogni tipo, più i
giochi insieme ai miei fratelli: Meccano, Lego, soldatini e giochi da tavolo,
forse oggi rivalutati. In più il teatrino dei burattini – ma mia sorella aveva
il Pollock’s Toy Theatre, un teatrino inglese con figure in cartoncino che
ancora è in commercio (2). E sentivo molto la radio, visto che il televisore è
entrato a casa nostra quando ormai avevo quindici anni. Mia madre fu chiamata
dalla maestra che le disse “suo figlio è un bugiardo”. Nel tema sui programmi preferiti
avevo infatti scritto che nulla avevo da dire perché a casa nostra il
televisore non lo avevamo proprio, e questo negli anni del boom era
impossibile. In compenso, a casa nostra siamo cresciuti in piena autonomia di
pensiero.
Uscire per fare la spesa sembra un film
di Tarkovskij: strade deserte, macchine ferme, pochi sopravvissuti al disastro
di Chernobyl, tutti attrezzati con mascherine, sciarpe e occhiali scuri. Come
gli asiatici, ormai ci si saluta solo con un inchino e abbiamo capito perché. Nei
negozi c’è la fila come nella Jugoslavia di Tito; si entra uno per uno, mentre
passa qualcuno che porta il cane a pisciare per la dodicesima volta. Si
ricontrolla il modulo di autocertificazione, giunto già alla quarta edizione in
due settimane. Passa un autobus che trasporta aria e nel frattempo vediamo
uscire un cliente con cinquanta rotoli di carta igienica e litri d’acqua,
mentre la lista della spesa noi l’abbiamo dimenticata a casa. Una volta
entrati, fa un certo effetto vedere alcuni scaffali vuoti. Penuria? In realtà
la logistica della filiera alimentare è regolare, ma la gente compra tutto a
carrello pieno. I supermercati e negozi di quartiere sono forse le uniche
imprese che guadagnano più di prima. Per gli altri saranno mesi molto duri:
niente clienti ma l’affitto corre e i lavoranti saranno mandati a casa. Dopo la
pandemia la carestia. Alla faccia dell’estetica: le città italiane – stupende ma vuote – ricorderanno pure le
foto di Alinari e hanno sicuramente il loro fascino, ma con negozi, uffici,
ristoranti e alberghi chiusi sono città morte. Perlomeno un mio amico cineasta
ne ha subito approfittato per girare un incisivo cortometraggio, che consiglio
a tutti:
In mancanza di un pianoforte (mentre mia
suocera ne ha due), altra attività quotidiana è la lettura. In molte case è impossibile
concentrarsi, e anche per questo esistono le biblioteche pubbliche. Casa nostra
è invece adatta per leggere, scrivere e studiare: abbastanza grande e
silenziosa, piena di libri ma senza bambini, con vicini educati e cantieri
fermi. E’ anche il momento di ricomporre le collezioni e dedicarsi a un hobby
arretrato. Un bel tavolo napoletano d’antiquariato è diventato lo smart office,
ma nel tempo libero (!) anche le affollate foto scattate a inizio marzo
sembrano appartenere a un’altra epoca. Si riprendono i contatti con amici,
parenti, compagni di scuola e di naja e persone che non chiamavamo da mesi. Si
cerca di interpretare i comunicati del Governo, lunghi e prolissi, che
rimandano ad almeno altri dieci tra leggi e comunicati precedenti, come se a
casa avessimo uno studio legale. Ricordo invece le poche, scarne regole che
Churchill fissò nel 1940 per la stesura dei documenti e che anche oggi
dovrebbero esser rese obbligatorie: la materia va divisa in scarni paragrafi
puntati; analisi dettagliate e statistiche vadano in allegato; si presenti solo
un promemoria con intestazioni, da
espandere a parte o verbalmente; evitare giri di frase inutili e dire le cose
con poche parole, prese anche dalla comune lingua parlata. Questo intervento
s’intitolava molto opportunamente
“Brevity” (3).
* Abbiamo anche tempo per meditare, per pregare. In fondo si viveva così d’inverno in un villaggio in montagna. Non si poteva uscire né fare i lavori agricoli, a parte la cura del bestiame. I social erano le osterie, le birrerie e i pub, oppure la parrocchia. In val Gardena tutta la famiglia d’inverno si dava alla lavorazione creativa del legno, in campagna la sera si raccontavano storie, e sicuramente Omero aveva più da spartire con loro che con noi. La mia famiglia non ha comunque origini contadine, quindi sull’argomento non ho nulla da dire. Ricordo invece quando mia madre mi parlava del coprifuoco nella Roma occupata dai Tedeschi, del razionamento e della fila davanti ai negozi. Papà ogni tanto citava “er beciainigung” (= Bescheinigung, il lasciapassare rilasciato dalle autorità militari tedesche) che aveva indosso come Guardia Palatina di Sua Santità e che ho pure ritrovato tra le sue carte. Ma sono ricordi scarsi, visto che della guerra a casa mia si parlava poco: piuttosto ero io, per i miei interessi storici, a sollecitare la loro memoria. E fu così che nonno mi affidò in vita le foto e i diari di guerra, che a suo tempo ho fatto anche pubblicare (4). E se continua così, di libri ne scriverò altri.
NOTE:
(1) https://www.bibliolorenzolodi.it/radio-giano/
(2) https://www.pollocks-coventgarden.co.uk/categories/toy-theatres/
(3) http://executivesummary.it/siate-brevi-please/
(4) Soldati e cannoni : diario e fotografie di un ufficiale di artiglieria / a cura di Enrico Acerbi e Marco Pasquali . 1996
Non
più giovane ma neanche vecchio, mi accosto alle novità con la curiosità mia innata,
ma anche con il disagio dell’alieno. A carnevale io e mia moglie siamo andati a
una festa familiare, dove si ballava tutti: noi grandi, le figlie adolescenti
(per conto loro) e anche i bambini: niente di strano, visto che per questi
ultimi c’era più di una rete televisiva o web che trasmetteva in esclusiva
baby-dance. Niente da stupirsi se imparano a muovere il culo e gli arti dai due
anni in su, non appena conquistata la posizione eretta, per diventare più agili
e armoniosi dei ballerini professionisti una volta adolescenti.
Questo
mi porta a parlare di quanto sia ormai pervasiva la sessualizzazione della
nostra cultura. Sapevo p.es. dell’esistenza delle chat e webchat lines, ma
ignoravo che ce ne fosse anche una gratis e ho voluto curiosare. Diversamente
da quelle più diffuse, questa linea garantisce un accesso realmente gratuito.
Il segreto? Chi vuole affiliarsi deve avere solo una webcam e un buon
collegamento ed esser maggiorenne, anche se forse qualcuno bara. Chi si
esibisce e chatta con gli utenti collegati ama ricevere mancette (tips) e ogni
gettone costa 10 centesimi di dollaro. Quando si raggiunge un certo importo si
accontentano i desideri dell’utente collegato. Se poi qualcuno è più generoso,
si va in camera privata, cioè la scena resta visibile solo per chi ha pagato.
Ma prima di quel momento posso assicurare che si vede di tutto e di più: il
dialogo è quasi pubblico e tutt’altro che esclusivo e non c’è limite alla
fantasia sessuale. Chi sta davanti alla telecamera fa a mezzi con l’azienda e i
pagamenti vengono liquidati con paypal o simili. Perché ne parlo? Perché c’è di
tutto e di più: ragazze, gay, coppie, trans, amiche, signore sposate,
addirittura persone anziane quanto coraggiose. Il porno è stato sdoganato a un
punto tale che ormai ne tocchi la banale quotidianità. Quella che era nata come
esibizione teatrale di professionisti è scaduta a dopolavoro per coppie
esibizioniste o lavoretto per studentesse fuorisede. Se nessuno ti riconosce perché
studi lontano dal paese (il che è da dimostrare), se hai tagliato i ponti col
tuo ambiente, se vivi in un villaggio siberiano o in una favela sudamericana
non te ne frega niente se per far soldi col sesso virtuale devi scherzare con
sconosciuti e infilarti dentro arnesi finti. C’è chi va oltre: dopo gli scritti
(la chat in tastiera) vengono.. gli orali. La puttanella colombiana tra
un’esibizione e l’altra si fuma pure una sigaretta, mentre la studentessa
rigorosamente con gli occhiali aspetta i “tips” per levarsi il reggiseno ma ha
lasciato la radio accesa, e canticchia. La ragazzotta russa con gli occhi verdi
chiama nel frattempo l’amica di rinforzo e per un attimo non parla quella specie
di inglese che usa coi suoi fans, mentre i
rumori di fondo comprendono giornali radio in russo, musica pop e
sciacquoni di water. Nel frattempo una ragazza mostra i suoi tatuaggi, la
casalinga sposata sculetta in cucina tra un fornello e l’altro e una ragazzona non
bella si scatena col fidanzato o con due uomini insieme, uscendo spesso fuori
campo. Negli accoppiamenti, l’aspetto più curioso è che soprattutto le donne
non guardano quello che fanno, ma controllano lo schermo del video con la
stessa attenzione per l’andamento dei titoli di Wall Street. Un occhio
all’arnese, uno al salvadanaio, in modo da orientare l’audience o seguirne i
desideri. Ognuna poi sceglie il proprio look o si muove a modo suo: più
raffinate nelle movenze le asiatiche, un po’ meno le russe, anche se sanno bene
come tirarsela con lo spettatore affezionato e generoso. Qualcuna tiene
infilata dentro la vagina una specie di peretta da clistere. E’ un “lovense”,
un vibratore con telecomando a distanza, ultimo ritrovato dell’elettronica
sessuale. Capito? Chi paga può mandare scosse di diversa intensità e vibrazione
e a ogni “ding” la ragazza si eccita o fa finta di farlo, mentre in calce alla
scena vengono pubblicati in diretta i testi della chat di gruppo, che comprendono
sia commenti da caserma cha sincere manifestazioni di affetto. In effetti
alcune fanno proprio tenerezza e sono anche coraggiose. E se a condurre il
gioco è una donna non bella o matura, per ogni “ding” l’espressione estatica è
sincera. Anche gli ambienti sono i più svariati: la camera propria, un lettone
popolato di peluche, la cucina, il camerino di un bordello, un ufficio, più
raramente una piscina, dove naturalmente i vestiti durano poco. Libertà
assoluta, visto che l’unico limite è l’età certificata per esibirsi: tutti
maggiorenni, compresi quelli che ogni tanto entrano in scena si direbbe
saltuariamente. Quando dico libertà significa che puoi anche vedere una donna
legata come un salame dal partner sadomaso. Sganasciante poi una scena dove una
ragazza forse russa o romena chatta mezza nuda con accanto addirittura la
nonna, che segue le prodezze della nipote con lo sguardo di chi vede un film di
fantascienza ma in fondo si diverte, salvo dover abbassare anche lei un
reggiseno non proprio lingerie. Ma in democrazia tutti possono partecipare. A
sentire le poche interviste con le ragazze, tutte sembra lo facciano per soldi,
ma anche per esibizionismo. Ma è persino difficile ormai distinguere la puttana
professionista dalla brava ragazza: tutte spigliate ma normali, non importa se
accanto tengono giocattoli sessuali o loro stesse diventano giocattoli
comandati a distanza: in fondo il gioco lo conducono loro. Lo fanno ora
saltuariamente, ora ogni giorno come primo lavoro. Gli americani
pragmaticamente chiamano tutti “sex workers”, la legge italiana, più
idealistica, considera prostituzione anche quella senza contatto fisico. Ma la
rete corre molto più veloce.
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