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La Peste di Giustiniano

E’ curioso: nella storiografia spesso si tende a capire meglio gli avvenimenti passati sulla base dell’attualità invece di vedere il presente come risultato di processi precedenti. La riflessione sui cambiamenti climatici ha dato p.es. una nuova chiave interpretativa delle invasioni barbariche: è verosimile che gli Unni e altri allevatori nomadi della steppa siano stati spinti a occidente dalla progressiva mancanza di acqua e pascolo per le loro migliaia di cavalli. Ed è così che l’attuale pandemia può farci riflettere su analoghi episodi virali del passato. In questo articolo mi soffermerò sull’epidemia di peste nera che colpì Costantinopoli e l’Impero Romano d’Oriente dal 541-42 in poi e dopo cicli quasi endemici di 20-30 anni si esaurì verso il 750. E’ detta di Giustiniano perché infuriò durante il suo regno (527-565 d.C.). La fonte principale è lo storico Procopio di Cesarea (1), testimone oculare dell’epidemia: originaria dell’Etiopia, giunta in Egitto con le navi dal Mar Rosso e in seguito diffusa via navi granarie nei principali porti del Mediterraneo e in seguito anche nell’entroterra collegato dai grandi fiumi navigabili (come il Rodano da Marsiglia in su). Nell’Impero il granaio era infatti l’Africa mediterranea e vettori dell’infezione furono i topi neri dei porti, a loro volta infestati da cimici e pidocchi capaci di infettare il sangue degli umani col virus Yersinia pestis, di un ceppo simile a quello responsabile della Peste Nera del 1347-48 (quella del Decamerone, per intenderci). E siccome nelle popolose città portuali i ratti e i loro parassiti erano e sono la norma, l’infezione era inevitabile. Già c’era stata negli anni tra il 165 e 180 d.C. un’epidemia nota come “Peste Antonina” – in realtà vaiolo polmonare (2), ma questa nuova pandemia non aveva precedenti, quindi attaccò con virulenza popolazioni non immunizzate. Come abbiamo detto, difficile fare stime: si parla di una demografia ridotta di un terzo (cioè 15-30 milioni di morti), di 10.000 morti al giorno a Costantinopoli nel periodo di picco, ma i dati non sono sempre attendibili e di recente sono stati rimessi in discussione dai virologi, i quali se da un lato hanno identificato con precisione il genoma, hanno però ridimensionato i dati esagerati, basandosi su sull’analisi economica e lo studio delle sepolture (3). Sicuramente è difficile far stime in epoche prive di statistiche scientifiche, per cui dobbiamo basarci sulle testimonianze degli storici del tempo, che paragonavano la peste descritta da Tucidide – in realtà tifo esantematico (4) – a quanto vedevano ogni giorno nella nuova capitale dell’Impero e nelle terre riconquistate ai barbari invasori. Parlano di cataste di morti senza spazio per la sepoltura, di campi abbandonati, di reggimenti indeboliti, di burocrazia impotente, di cadaveri buttati a mare, di miasmi irrespirabili, di latifondi privi di manodopera. Nulla sapendo di virus e batteri, descrivono la realtà ma non sanno spiegarla, ripiegando sulle facili metafore del castigo divino, pagano o cristiano che sia. Conseguenza immediata dell’epidemia fu comunque la crisi della produzione agricola, più la paralisi militare dell’esercito imperiale e dell’apparato amministrativo che doveva inquadrarlo e alimentarlo, col risultato che la riconquista dell’Africa romana e dell’Italia non fu consolidata e da lì a poco sarebbero calati i Longobardi. Dunque il piano strategico di Giustiniano si rivelò troppo ambizioso e privo di risorse adeguate in una situazione d’emergenza, ma non era tutta colpa sua: senza la peste, quelle risorse non solo sarebbero state disponibili, ma avrebbero garantito anche la ricostruzione, mentre gli storici dell’epoca registrano una desolazione tale da scoraggiare qualsiasi ripresa.

Ora mi si permettano alcune osservazioni, che così schematizzo:

  1. La pandemia è storicamente documentata anche da recenti studi di storia naturale.
  2. Sulla strategia di Giustiniano gravano pregiudizi storiografici.
  3. Gli studi che sminuiscono l’impatto della pandemia non invalidano la narrazione corrente.
  4. Conclusioni
  1. Procopio non è l’unico storico che abbia descritto la peste (5). Ma oggi le fonti storiche sono state integrate da recenti studi scientifici. In particolare, se l’analisi del genoma ha chiarito la natura e l’iter del virus (note 3 e 4), la climatologia ha rilevato attraverso il carotaggio dei ghiacci antartici che nel 541 ci fu una netta riduzione dei livelli di anidride carbonica in atmosfera, dovuta dunque al collasso demografico e alla riduzione del bestiame produttore di metano (6).
  • Sull’Impero Romano d’Oriente pesano tuttora due pregiudizi: quello dello storicismo tedesco e quello altrettanto fuorviante della cultura cattolica. L’interesse geopolitico tedesco per l’Europa continentale e l’Italia come sua appendice si direbbe ancora attuale, ma ha sempre avuto i suoi collaborazionisti. L’ossessivo accento sul Sacro Romano Impero ha relegato l’Impero Romano d’Oriente (volgarmente detto bizantino, come a dire né greco né romano) a zona residua, mentre in realtà è una grande entità statuale durata mille anni e assai più solida e strutturata delle coeve istituzioni imperiali germaniche. L’ingresso di Goti, Eruli e Longobardi in Italia e la creazione di regni romano–barbarici di fatto porta all’inserimento del Mediterraneo in un’orbita continentale, invertendo la dinamica che da Cesare in poi spingeva Roma ad assorbire l’Europa prima delle grandi invasioni germaniche. Ma i soldati e funzionari di Giustiniano non erano “greci” e il Codex Juris Civilis è scritto in latino. L’impero romano si riprendeva quello che era suo, anche se la divisione tra Impero Romano d’Occidente e Impero Romano d’Oriente era ormai una realtà funzionale già dai tempi di Diocleziano. Resta da capire se la grande strategia di Giustiniano era quella giusta. Edward Luttwack (7) fa notare che distruggere il nemico invece di farne un vassallo alleato significa dover combattere il successivo nemico (magari più forte) che occupa lo spazio vuoto e sostenere da soli lo sforzo militare, e infatti la politica imperiale successiva non farà mai più questo errore strategico; cercherà piuttosto di indebolire i nemici concedendo loro lo status di vassallo o di alleato e favorire le ibridazioni fra “romani” e allogeni. Quanto all’altro pregiudizio storiografico – quello cattolico – ha le sue ragioni profonde in quel processo di evoluzione genetica e culturale divergente che ha portato Latini e Greci cristiani a non parlarsi più per secoli, almeno fino al Concilio Vaticano II. Meglio un destino storico legato ai rudi Franchi e santificato da Roma piuttosto che una dipendenza da Bisanzio e dalla chiesa ortodossa, la quale altro non è che un cristianesimo orientalizzato. Da qui una “cattiva stampa” su Giustiniano, i suoi generali e i suoi esosi funzionari e l’esaltazione degli esperimenti di Teodorico, di Vitige e di Totila, sovrani guerrieri rozzi e stranieri, ma in fondo capaci di evoluzione e compatibili con l’ideologia monarchica sabauda (8), in parallelo alla denigrazione dei Greci infidi, corrotti e decadenti se non degenerati, più o meno come vengono rappresentati nell’Armata Brancaleone. Nella realtà i bizantini non si sono mai fatti chiamare così (a parte i residenti nella capitale), ma Romàioi, cioè romani, e si sono sempre considerati gli eredi di un’istituzione  – l’Impero romano – che non è sparita come in Occidente, ma si è solo trasformata per adeguarsi ai tempi.
  • Ammettiamo ora, come suggeriscono alcuni specialisti (citati in nota 3), che la pandemia di Giustiniano vada ridimensionata. Non sono né archeologo né virologo, quindi non ho gli strumenti per confutare quei professionisti. Suggerisco però che gli effetti della pandemia siano stati amplificati dalla struttura stessa dell’Impero. Intanto, non è un caso che la peste non abbia devastato l’Europa d’oltralpe: poco popolata, priva di grandi centri urbani e di strade, quindi ha dato poco esca al contagio. Lo stesso vale per le zone desertiche a sud della Siria e della Palestina: le popolazioni arabe nomadi o seminomadi vivevano disperse in ampi spazi, e infatti saranno falciate solo un secolo dopo, quando conquisteranno le grandi città formicaio del Vicino e Medio Oriente e vivranno nelle stesse pessime condizioni igieniche dei popoli conquistati. Ma sul momento possono approfittare proprio della crisi sanitaria, demografica e amministrativa dei due imperi, Romano orientale e Persiano Sassanide. Lo stesso faranno nel Maghreb con le scarse difese dell’Africa romana, già riconquistata dalle tribù libiche dell’interno (come avvenne anche dopo secoli, quando la nostra conquista del 1912 fu messa subito sotto pressione dai discendenti delle stesse tribù). Ma torniamo al nostro Impero: anche se la peste avesse avuto danni limitati, ha comunque messo in crisi la testa di un’amministrazione molto centralizzata. I reggimenti erano ormai a organici ridotti, ma non funzionava più l’economia produttiva ed era paralizzato l’apparato statale che esigeva le tasse, reclutava, pagava e riforniva i soldati e le navi per trasportarli. Per un esercito barbarico o nomade era diverso: non si distraevano braccia dall’agricoltura, non si raccoglievano centralmente le tasse (da qui la lamentela sulla fiscalità bizantina) e non si dipendeva da una catena logistica estesa e complessa. E’ un po’ il problema che affligge oggi i tecnologici eserciti occidentali quando devono combattere conflitti di bassa intensità o viene interrotta la catena logistica. Sarà un caso, ma le difficoltà le abbiamo ancora negli stessi luoghi: Medio e vicino Oriente, Nordafrica.
  • Conclusioni: L’attuale pandemia da Coronavirus fornisce l’occasione per ripensare un fenomeno analogo avvenuto nel VI secolo d.C., che avrebbe influito profondamente sulla storia dell’Europa mediterranea. L’eccessiva centralizzazione dell’Impero Romano d’Oriente ne fu fortemente penalizzata e in pochi anni si scivolò realmente nel medioevo.

NOTE:

  1. Procopio, Storia delle guerre ,Οἱ ὑπὲρ τῶν πολέμων λόγοι. Edizioni varie.
  2. L’epidemia falciò anche l’imperatore Lucio Vero, della dinastia degli Antonini. E’ nota anche come “Peste di Galeno”, dal noto medico che la descrisse. Fu portata e diffusa dai soldati reduci delle guerre contro i Parti. Si vedano le analisi condotte dai virologi studiando le fonti storiche: La peste di Giustiniano, a cura di Sergio Sabbatani et alii, in Le infezioni in Medicina, 2012, 2, pag. 125 e segg.
  3. Cito i contributi più autorevoli: Yersinia pestis and the Plague of Justinian (541-543 A.D.): a genomic analysis, David M. Wagner PhD, Jennifer Klunk BS et alii, in The Lancet. Infectious Diseases, Vol. 14, Issue 4, p. 319-326, April 1, 2014 < disponibile anche in web >. Per una revisione sono fondamentali:  Mordechai, Lee; Eisenberg, Merle; Newfield, Timothy P.; Izdebski, Adam; Kay, Janet E.; Poinar, Hendrik (November 27, 2019). “The Justinianic Plague: An inconsequential pandemic?”. Proceedings of the National Academy of Sciences. 116 (51): 25546–25554. e il seguito: Mordechai, Lee; Eisenberg, Merle (August 1, 2019). “Rejecting Catastrophe: The Case of the Justinianic Plague“. Past & Present. 244 (1): 3–50.
  4. Vedi: Manolis J. Papagrigorakis, Christos Yapijakis, Philippos N. Synodinos e Effie Baziotopoulou-Valavani, DNA examination of ancient dental pulp incriminates typhoid fever as a probable cause of the Plague of Athens, in International Journal of Infectious Diseases, vol. 10, nº 3, 2006, pp. 206–214
  5. Altre fonti: il giurista Agathias, l’ufficiale delle guardie Menandro, il retore Giovanni Malalas, il vescovo Vittorio di Tunnunna, Evagrio Scolastico di Antiochia, Giovanni da Efeso, lo Pseudo-Dionigi di Tell Mahre, il monaco Teofane (vissuto però nel IX secolo) e Paolo Diacono (id.)
  6.  Edward N. Luttwack, Great Strategy of Byzantine Empire, 2009, ed. Italiana:  La Grande Strategia dell’Impero Bizantino. Milano, Rizzoli, 2009, pag. 101-107 e note bibliografiche. Qui cito dall’edizione italiana.
  7. Luttwack, cit. E’ la tesi portante del suo libro.
  8. Cito p.es. Il romanzo di Totila : primo re d’Italia / Guido Perale, 1960.

La Vita cambiata dal Coronavirus

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Le città, con il Coronavirus, hanno svelato una nuova dimensione difficilmente paragonabile a quella vissuta negli anni ’70 con la crisi energetica o le lontane permanenze ferragostane di una metropoli deserta.

Non si tratta di un vigoroso ridimensionamento del traffico stradale o di una presenza pedonale limitata all’essenziale, ma di corpi trasformati in immagini; quello che conoscevamo ha acquisito una nuova presenza, nel tempo che Freud definiva del perturbante, il familiare che si trasforma in estraneo e l’assente che diventa quotidiano.

Cittadini che riscoprono la pazienza e l’educazione di affrontare le file per l’acquisto di alimentari e farmaci, per accedere ai servizi postali e bancari, per una riparazione informatica o nell’acquistare materiale da bricolage e sistemare ciò che l’abitazione attendeva da tempo.

Un periodo sospeso nel tempo da utilizzare per le riparazioni casalinghe da tempo rimandate o un libro che attendeva di essere letto, scoprire la cultura su internet visitando musei o ascoltare musica, guardare film e documentari, sfogliare o gustarsi un romanzo letto con patos.

La società si comprime sui singoli individui, per celebrazioni comunitarie di balconi plaudenti, canterini, in una lontananza che avvicina le persone nell’affrontare un diverso stile di vita che abbatte il consumismo dello spreco, abbracciare l’oculatezza dell’acquisto, dopo un primo momento di panico esternato in acquisti compulsivi da carta igienica e scatolame vario.

File educate di persone con una bassa conoscenza della geometria che sceglie alla linea retta quella a zig-zag o quella sinuosa della serpentina, ponendo i pedoni interessati ad andare oltre lo scendere dal marciapiede o affrontare calcoli algebrici per non entrare in collisione negli spazi altrui.

La speranza è che al termine di questa vicissitudine le persone possano aver acquisito l’educazione necessaria per convivere con le altre persone.

Il rumore delle città ritornerà a coprire il cinguettio e in quel momento è augurabile che persone, al termine della pandemica reclusione, possano aver fatto tesoro dell’esperienza, per un oculato stile di vita e di rapporto con gli altri.

Il Coronavirus come un corso di rieducazione per il rispetto del prossimo, senza dare in escandescenze, nell’uso dei mezzi di trasporto privati per brevi distanze. Le ipotesi di come sarà il dopo comprende anche scenari di una diseguaglianza accentuata e di un accentuato conflitto sociale.

Restare a casa

Cosa dire in questo periodo surreale, con Roma vuota e tutti reclusi ai domiciliari? Cosa fare ogni giorno col coprifuoco di 24 ore? A quali ricordi fare riferimento per affrontare una situazione mai vista se non in tempo di guerra? Come convivere serenamente con chi altrimenti vedevi poche ore al giorno? E quando finirà una situazione che pareva breve? Ogni giorno prendo appunti e come tutti gli altri cerco di capirci qualcosa, di dare un senso a questa reclusione. Non sono originale, però vivo come tutti una strana situazione che mai avrei immaginato possibile; da qui il bisogno di mettere nero su bianco la quotidiana esclusione dallo spazio sociale. Ma dopo venti giorni al telefono ci diciamo tutti più o meno le stesse cose, cioè poco, visto che poco possiamo fare. Chi ha figli può approfittarne per avere con loro un dialogo, un rapporto più stretto; ma noi siamo solo in due e la giornata è lunga, molto lunga. Cristina per fortuna ora può lavorare da casa e lo fa con entusiasmo, per ore. E’ una bibliotecaria come lo sono stato io, quindi spesso collaboro con lei nella revisione delle schede di catalogo. Tutto in linea, ovvio. Ieri sera invece mi sono collegato via Skype con un’associazione, e con mia sorpresa il collegamento funzionava bene. Oggi invece è domenica e la rete è sovraccarica e ricorda i collegamenti di vent’anni fa. Ma sia chiaro: vivo quello che vivono tutti, a Roma la situazione è ancora sotto controllo e io non sono in prima linea come medici, infermieri e volontari. Seguo ogni giorno le notizie e mi chiedo come mai abbiamo oggi più morti dei cinesi (se non hanno barato: ieri sera abbiamo visto tanti, troppi pallets con imballate le urne cinerarie da restituire ai parenti); telefono ogni tanto agli amici del nord e mi rimangono indelebili sia le immagini dei camion militari che portano via le bare che quelle di Papa Francesco che da solo predica in mezzo a piazza san Pietro totalmente vuota, vera Lux in tenebris.

Ma come si svolge la vita quotidiana? Primo consiglio: di questi tempi è meglio la radio. Ogni giorno, su tutti i canali tv e a tutte le ore non solo si parla soltanto di Coronavirus, ma ne parlano anche persone in cerca di visibilità quanto prive di competenza, e il bollettino di guerra della Protezione Civile da solo non dice tutto. Ma l’epidemia di fatto monopolizza l’informazione, al punto che nulla più sappiamo dell’assedio di Tripoli, dei combattimenti in Siria, dei migranti che premono sui confini greci o dei barconi pronti a partire dalle coste nordafricane; forse aspettano che finisca l’epidemia per riprendere le consuete attività. Oppure, i nostri giornalisti hanno sviluppato una sorta di monocultura che esclude tutto il resto.

Qualcuno si è scagliato con violenza contro le metafore di guerra che stanno saturando il vissuto quotidiano e il suo immaginario. Non abbiamo il diritto di paragonare tre settimane sbracati sul divano con quello che patiscono in questo momento i siriani assediati o con gli anni di guerra vera vissuti dai nostri genitori e dai nostri nonni. Per salvare l’Italia nessuno ci ha ancora mandato al fronte e i soldati ora impegnati nell’emergenza sono tutti professionisti. Anche se c’è fila, i generi alimentari non sono razionati e ognuno compra quello che può. Non siamo esposti a bombardamenti e in ogni momento possiamo comunicare liberamente con tutti e ascoltare informazione senza apparente censura. Abbiamo tecnologie che ci permettono di lavorare da casa e restare in contatto con tutto e tutti. Le limitazioni alla nostra libertà individuale sono temporanee e almeno per ora non c’è pericolo immediato di un’involuzione autoritaria delle istituzioni. Strana guerra poi: identificato il nemico, sgombriamo il terreno invece di occuparlo. Eppure le metafore belliche saturano il nostro immaginario e informano il linguaggio dei politici, degli esperti, dei giornalisti, più quello dei presenzialisti da strapazzo che la tv invita ogni momento in studio o in video chat. Il motivo è semplice: esse hanno facile presa su una società che non conosce più privazioni e ha quindi perso il senso della realtà. Sicuramente la doccia fredda nessuno se l’aspettava e le conseguenze le pagheremo per anni, e non solo economiche. In più già si registra una fioritura di testi apocalittici e moralistici, con il supporto dei presunti complotti diffusi via social.

Ma parliamo di noi. La cosa più importante: organizzare la giornata. Uno deve darsi un programma, una disciplina. Come insegna il servizio militare, se la struttura è improduttiva bisogna imporle precisi rituali quotidiani. In famiglia non sempre funziona, nel senso che, convivendo h24 da venti giorni, non sempre tutto procede secondo tabella e se c’è un periodo in cui viene messa alla prova la tenuta della coppia, è proprio questo. Fra qualche mese è scontato che aumenteranno le separazioni e/o i neonati. Molti negozi e alberghi falliranno, ma non gli avvocati e le ostetriche.

Regola due: curare l’igiene personale e il proprio corpo, radersi, mettersi sempre in camicia e cravatta. Questo non solo per mostrare un’immagine decente di se stessi quando ti chiamano via Skype o in videochiamata WhatSapp, ma per mantenere un tono. Ricordo l’immagine di copertina di un romanzo di Evelyn Waugh (mi pare Unconditional Surrender): anche nel campo di prigionia l’uffiziale inglese mantiene la sua dignità, anche se la sua divisa è ridotta a stracci. Niente di peggio che rimanere tutta la giornata in pigiama: di sicuro quello è il sistema migliore per non combinare niente.

Altra regola, guardare la televisione il meno possibile: è ansiogena e invece di comunicare sicurezza riesce a scatenare l’effetto contrario. Un solo argomento occupa tutti i canali a tutte le ore, con la continua presenza di presenzialisti ed esperti che spesso tali non sono. E’ una comunicazione sbagliata. Un mio amico invece mi manda ogni giorno il numero dei bambini nati: almeno è un segnale di vita. Meglio a questo punto la radio: più variata, priva di censura. La radio poi riempie il silenzio della casa nei momenti più noiosi. Personalmente sono da sempre un affezionato radioascoltatore e anche un po’ radioamatore, visto che ogni tanto una radio me la sono anche fabbricata da solo con materiali di fortuna, come nei campi di prigionia. Lavorare alla radio è il mio sogno e presto inizierò a collaborare con una web radio (1).

Ma torniamo alla nostra vita chiusi in casa. Mettiamola in ordine. Io e Cri abbiamo “scoperto” che, uscendo la mattina e tornando solo la sera, casa è incasinata. Morale: è da tre settimane che spostiamo roba, buttiamo borse e buste di plastica, mettiamo altra roba in lavatrice e inscatoliamo soprammobili, ritroviamo collane, cravatte, foto, distintivi, ricette mediche. Ogni giorno si lavano bagno e cucina, si innaffiano piante e si levano foglie secche. La metà di quello che sta nelle case è ripetitivo o non serve a niente. Purtroppo le case sono strutturate in modo irrazionale, almeno in alcune parti: angoli morti e mobili con zampe basse son solo trappole per la polvere; sotto i cuscini il divano cela telecomandi per televisore, telefoni viva voce, penne biro e libri tascabili. In compenso dentro armadi e cassetti ritrovo cavi di prolunga, chiodi e viti, barattoli di vetro vuoti e quant’altro “potrebbe servire”: in tempi normali è l’anticamera del barbonismo, ma non potendo uscire tutto è utile; in più realizziamo la quantità e varietà di detersivi e detergenti che la parossistica colf ci ha fatto ricomprare ogni settimana. Tocca poi ai flaconi di shampoo, ai medicinali scaduti, ai dopobarba svaniti, agli alimenti dimenticati nel frigorifero, ai verbali del condominio di due anni fa… e così via. Per poi passare a borse, scarpe e vestiti. Un capitolo a parte meritano i capi di vestiario militari o compatibili: prima o poi sparirebbero se non riuscissi a convincere mia moglie che gli ho trovato posto, il che naturalmente non è vero.

Da ragazzino – intendo fino a dieci anni – stavo spesso a casa, come tanti altri. La mattina a scuola, ma il pomeriggio a casa. Di giocare a pallone per strada non se ne parlava, eravamo borghesi. Quindi, fatti i compiti, molto modellismo Airfix e letture di ogni tipo, più i giochi insieme ai miei fratelli: Meccano, Lego, soldatini e giochi da tavolo, forse oggi rivalutati. In più il teatrino dei burattini – ma mia sorella aveva il Pollock’s Toy Theatre, un teatrino inglese con figure in cartoncino che ancora è in commercio (2). E sentivo molto la radio, visto che il televisore è entrato a casa nostra quando ormai avevo quindici anni. Mia madre fu chiamata dalla maestra che le disse “suo figlio è un bugiardo”. Nel tema sui programmi preferiti avevo infatti scritto che nulla avevo da dire perché a casa nostra il televisore non lo avevamo proprio, e questo negli anni del boom era impossibile. In compenso, a casa nostra siamo cresciuti in piena autonomia di pensiero.

Uscire per fare la spesa sembra un film di Tarkovskij: strade deserte, macchine ferme, pochi sopravvissuti al disastro di Chernobyl, tutti attrezzati con mascherine, sciarpe e occhiali scuri. Come gli asiatici, ormai ci si saluta solo con un inchino e abbiamo capito perché. Nei negozi c’è la fila come nella Jugoslavia di Tito; si entra uno per uno, mentre passa qualcuno che porta il cane a pisciare per la dodicesima volta. Si ricontrolla il modulo di autocertificazione, giunto già alla quarta edizione in due settimane. Passa un autobus che trasporta aria e nel frattempo vediamo uscire un cliente con cinquanta rotoli di carta igienica e litri d’acqua, mentre la lista della spesa noi l’abbiamo dimenticata a casa. Una volta entrati, fa un certo effetto vedere alcuni scaffali vuoti. Penuria? In realtà la logistica della filiera alimentare è regolare, ma la gente compra tutto a carrello pieno. I supermercati e negozi di quartiere sono forse le uniche imprese che guadagnano più di prima. Per gli altri saranno mesi molto duri: niente clienti ma l’affitto corre e i lavoranti saranno mandati a casa. Dopo la pandemia la carestia. Alla faccia dell’estetica: le città italiane  – stupende ma vuote – ricorderanno pure le foto di Alinari e hanno sicuramente il loro fascino, ma con negozi, uffici, ristoranti e alberghi chiusi sono città morte. Perlomeno un mio amico cineasta ne ha subito approfittato per girare un incisivo cortometraggio, che consiglio a tutti:

In mancanza di un pianoforte (mentre mia suocera ne ha due), altra attività quotidiana è la lettura. In molte case è impossibile concentrarsi, e anche per questo esistono le biblioteche pubbliche. Casa nostra è invece adatta per leggere, scrivere e studiare: abbastanza grande e silenziosa, piena di libri ma senza bambini, con vicini educati e cantieri fermi. E’ anche il momento di ricomporre le collezioni e dedicarsi a un hobby arretrato. Un bel tavolo napoletano d’antiquariato è diventato lo smart office, ma nel tempo libero (!) anche le affollate foto scattate a inizio marzo sembrano appartenere a un’altra epoca. Si riprendono i contatti con amici, parenti, compagni di scuola e di naja e persone che non chiamavamo da mesi. Si cerca di interpretare i comunicati del Governo, lunghi e prolissi, che rimandano ad almeno altri dieci tra leggi e comunicati precedenti, come se a casa avessimo uno studio legale. Ricordo invece le poche, scarne regole che Churchill fissò nel 1940 per la stesura dei documenti e che anche oggi dovrebbero esser rese obbligatorie: la materia va divisa in scarni paragrafi puntati; analisi dettagliate e statistiche vadano in allegato; si presenti solo un promemoria con  intestazioni, da espandere a parte o verbalmente; evitare giri di frase inutili e dire le cose con poche parole, prese anche dalla comune lingua parlata. Questo intervento s’intitolava molto  opportunamente “Brevity” (3).

* Abbiamo anche tempo per meditare, per pregare. In fondo si viveva così d’inverno in un villaggio in montagna. Non si poteva uscire né fare i lavori agricoli, a parte la cura del bestiame. I social erano le osterie, le birrerie e i pub, oppure la parrocchia. In val Gardena tutta la famiglia d’inverno si dava alla lavorazione creativa del legno, in campagna la sera si raccontavano storie, e sicuramente Omero aveva più da spartire con loro che con noi. La mia famiglia non ha comunque origini contadine, quindi sull’argomento non ho nulla da dire. Ricordo invece quando mia madre mi parlava del coprifuoco nella Roma occupata dai Tedeschi, del razionamento e della fila davanti ai negozi. Papà ogni tanto citava “er beciainigung” (= Bescheinigung, il lasciapassare rilasciato dalle autorità militari tedesche) che aveva indosso come Guardia Palatina di Sua Santità e che ho pure ritrovato tra le sue carte. Ma sono ricordi scarsi, visto che della guerra a casa mia si parlava poco: piuttosto ero io, per i miei interessi storici, a sollecitare la loro memoria. E fu così che nonno mi affidò in vita le foto e i diari di guerra, che a suo tempo ho fatto anche pubblicare (4). E se continua così, di libri ne scriverò altri.


NOTE:
(1) https://www.bibliolorenzolodi.it/radio-giano/
(2) https://www.pollocks-coventgarden.co.uk/categories/toy-theatres/
(3) http://executivesummary.it/siate-brevi-please/
(4) Soldati e cannoni : diario e fotografie di un ufficiale di artiglieria / a cura di Enrico Acerbi e Marco Pasquali . 1996

Torno subito

Non più giovane ma neanche vecchio, mi accosto alle novità con la curiosità mia innata, ma anche con il disagio dell’alieno. A carnevale io e mia moglie siamo andati a una festa familiare, dove si ballava tutti: noi grandi, le figlie adolescenti (per conto loro) e anche i bambini: niente di strano, visto che per questi ultimi c’era più di una rete televisiva o web che trasmetteva in esclusiva baby-dance. Niente da stupirsi se imparano a muovere il culo e gli arti dai due anni in su, non appena conquistata la posizione eretta, per diventare più agili e armoniosi dei ballerini professionisti una volta adolescenti.

Questo mi porta a parlare di quanto sia ormai pervasiva la sessualizzazione della nostra cultura. Sapevo p.es. dell’esistenza delle chat e webchat lines, ma ignoravo che ce ne fosse anche una gratis e ho voluto curiosare. Diversamente da quelle più diffuse, questa linea garantisce un accesso realmente gratuito. Il segreto? Chi vuole affiliarsi deve avere solo una webcam e un buon collegamento ed esser maggiorenne, anche se forse qualcuno bara. Chi si esibisce e chatta con gli utenti collegati ama ricevere mancette (tips) e ogni gettone costa 10 centesimi di dollaro. Quando si raggiunge un certo importo si accontentano i desideri dell’utente collegato. Se poi qualcuno è più generoso, si va in camera privata, cioè la scena resta visibile solo per chi ha pagato. Ma prima di quel momento posso assicurare che si vede di tutto e di più: il dialogo è quasi pubblico e tutt’altro che esclusivo e non c’è limite alla fantasia sessuale. Chi sta davanti alla telecamera fa a mezzi con l’azienda e i pagamenti vengono liquidati con paypal o simili. Perché ne parlo? Perché c’è di tutto e di più: ragazze, gay, coppie, trans, amiche, signore sposate, addirittura persone anziane quanto coraggiose. Il porno è stato sdoganato a un punto tale che ormai ne tocchi la banale quotidianità. Quella che era nata come esibizione teatrale di professionisti è scaduta a dopolavoro per coppie esibizioniste o lavoretto per studentesse fuorisede. Se nessuno ti riconosce perché studi lontano dal paese (il che è da dimostrare), se hai tagliato i ponti col tuo ambiente, se vivi in un villaggio siberiano o in una favela sudamericana non te ne frega niente se per far soldi col sesso virtuale devi scherzare con sconosciuti e infilarti dentro arnesi finti. C’è chi va oltre: dopo gli scritti (la chat in tastiera) vengono.. gli orali. La puttanella colombiana tra un’esibizione e l’altra si fuma pure una sigaretta, mentre la studentessa rigorosamente con gli occhiali aspetta i “tips” per levarsi il reggiseno ma ha lasciato la radio accesa, e canticchia. La ragazzotta russa con gli occhi verdi chiama nel frattempo l’amica di rinforzo e per un attimo non parla quella specie di inglese che usa coi suoi fans, mentre i  rumori di fondo comprendono giornali radio in russo, musica pop e sciacquoni di water. Nel frattempo una ragazza mostra i suoi tatuaggi, la casalinga sposata sculetta in cucina tra un fornello e l’altro e una ragazzona non bella si scatena col fidanzato o con due uomini insieme, uscendo spesso fuori campo. Negli accoppiamenti, l’aspetto più curioso è che soprattutto le donne non guardano quello che fanno, ma controllano lo schermo del video con la stessa attenzione per l’andamento dei titoli di Wall Street. Un occhio all’arnese, uno al salvadanaio, in modo da orientare l’audience o seguirne i desideri. Ognuna poi sceglie il proprio look o si muove a modo suo: più raffinate nelle movenze le asiatiche, un po’ meno le russe, anche se sanno bene come tirarsela con lo spettatore affezionato e generoso. Qualcuna tiene infilata dentro la vagina una specie di peretta da clistere. E’ un “lovense”, un vibratore con telecomando a distanza, ultimo ritrovato dell’elettronica sessuale. Capito? Chi paga può mandare scosse di diversa intensità e vibrazione e a ogni “ding” la ragazza si eccita o fa finta di farlo, mentre in calce alla scena vengono pubblicati in diretta i testi della chat di gruppo, che comprendono sia commenti da caserma cha sincere manifestazioni di affetto. In effetti alcune fanno proprio tenerezza e sono anche coraggiose. E se a condurre il gioco è una donna non bella o matura, per ogni “ding” l’espressione estatica è sincera. Anche gli ambienti sono i più svariati: la camera propria, un lettone popolato di peluche, la cucina, il camerino di un bordello, un ufficio, più raramente una piscina, dove naturalmente i vestiti durano poco. Libertà assoluta, visto che l’unico limite è l’età certificata per esibirsi: tutti maggiorenni, compresi quelli che ogni tanto entrano in scena si direbbe saltuariamente. Quando dico libertà significa che puoi anche vedere una donna legata come un salame dal partner sadomaso. Sganasciante poi una scena dove una ragazza forse russa o romena chatta mezza nuda con accanto addirittura la nonna, che segue le prodezze della nipote con lo sguardo di chi vede un film di fantascienza ma in fondo si diverte, salvo dover abbassare anche lei un reggiseno non proprio lingerie. Ma in democrazia tutti possono partecipare. A sentire le poche interviste con le ragazze, tutte sembra lo facciano per soldi, ma anche per esibizionismo. Ma è persino difficile ormai distinguere la puttana professionista dalla brava ragazza: tutte spigliate ma normali, non importa se accanto tengono giocattoli sessuali o loro stesse diventano giocattoli comandati a distanza: in fondo il gioco lo conducono loro. Lo fanno ora saltuariamente, ora ogni giorno come primo lavoro. Gli americani pragmaticamente chiamano tutti “sex workers”, la legge italiana, più idealistica, considera prostituzione anche quella senza contatto fisico. Ma la rete corre molto più veloce.

Quando la letterature è un Virale virus

Un preside ha invitato gli studenti a rileggersi le pagine manzoniane sulla peste a Milano e questo mi ricorda i classici temi del liceo (la peste in Tucidide, in Lucrezio, nel Decamerone e nei Promessi Sposi, col primato manzoniano nell’umanità delle descrizioni) ma anche letture meno scolastiche, non tanto The Journal of Plague Year di Daniel Defoe (1722) o La Peste di Camus (1947), quanto piuttosto L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez (1985), dove l’epidemia ostacola ma non scoraggia affatto chi ama la vita. Già, perché l’epidemia scatena l’angoscia di massa (basta vedere ora i supermercati presi d’assalto come in guerra o la diffidenza dei passeggeri in metropolitana), ma anche frenetiche reazioni vitali: ogni giorno in mail o whatsapp mi arrivano scherzi, barzellette e vignette sul coronavirus, che subito ritrasmetto in modo virale (!) agli amici. Questo almeno compensa i frequenti consigli di chi ti suggerisce di lavarti spesso le mani, di non tossire in faccia agli altri, di sanificare water e lavandini, cioè quello che una persona civile dovrebbe comunque fare ogni giorno senza aspettare un’infezione. L’epidemia diventa sempre una metafora: ora castigo divino, ora segno di malessere o degenerazione politica, ora prova del complotto internazionale o dei cambiamenti climatici. Una letteratura che va dalla Bibbia a Manzoni, da Thomas Mann ad Albert Camus fino a Saramago, ma non disdegna inverosimili rivelazioni del Mossad (che non rilascia mai dichiarazioni, ndr.) o profezie apocalittiche. Ma gli antichi erano in parte giustificati: privi di microscopio e di antibiotici, non avevano idee migliori che relegare in isole lazzaretto le navi provenienti dall’Oriente o le carovane con cui viaggiavano insieme uomini, merci, animali, virus e batteri. Soprattutto gli intellettuali francesi  – alludo ai Nouveaux Philosophes degli anni ’70 del secolo scorso – hanno scritto colti volumi sulla strategia dell’isolamento e della reclusione ed esclusione del malato infetto, sia esso appestato o psichiatrico, ma i pragmatici Veneziani di cinque secoli fa certi problemi non se li ponevano proprio e quindi provvedevano a isolare – esattamente – gli infetti. Ricordo anni fa di aver trovato un teschio scavando in un campeggio nell’isola di Osljak (in veneziano: Calugerà) davanti Zara, in Dalmazia. L’isola naturalmente si chiamava anche Lazaret. Le navi di un tempo viaggiavano comunque lente e così le carovane, quindi le epidemie non si spargevano rapidamente come ora, dove bastano un aereo o una nave da crociera per creare il panico mondiale. Ne La morte a Venezia di Thomas Mann l’impiegato inglese dell’agenzia di viaggio spiega al prof. Aschenbach il lento itinerario del colera di cui nessuno deve parlare: alla fine dalla Turchia è arrivato a Venezia, dopo aver fatto per anni il giro di altri porti. Quell’epidemia non se l’era inventata Thomas Mann, ma si è saputo dopo: la censura sull’informazione era stretta, tant’è vero che pochi sanno che l’epidemia di febbre spagnola del 1918 fu introdotta in Europa dai soldati americani inviati in Francia contro i Tedeschi. La chiamiamo universalmente “spagnola” perché la Spagna era un paese neutrale e quindi solo i giornali iberici ne parlavano senza censura militare. In realtà il focolaio si era sviluppato tra le reclute del Kansas che lavoravano negli allevamenti dei maiali e si sparse in Francia fra la truppa ammassata nelle retrovie del fronte occidentale. Il tentativo di dar la colpa agli operai cinesi non regge: erano stanziati lontano, sulla costa californiana (1). Ma come sempre, il Male lo porta sempre lo Straniero. L’epidemia fece 100 milioni di morti, di cui 20 solo in Europa, più dei 17 milioni di soldati caduti al fronte, anche se bisogna mettere in conto una popolazione indebolita da quattro anni di guerra e dalla mancanza di antibiotici, inventati e diffusi vent’anni più tardi. Ma la memoria della spagnola si è spenta con i nostri nonni, i veri sopravvissuti a tutto quanto può essere accaduto nel Secolo Breve.

Naturalmente nel momento della disgrazia collettiva saltano fuori il meglio e il peggio del Genius Loci. I Cinesi hanno dimostrato ancora una volta una grande organizzazione collettiva, ma anche la differenza tra un ordine che parte dall’alto e una comunicazione che dalla periferia deve raggiungere il centro. Noi italiani abbiamo finora scoperto che la frettolosa e sgangherata riforma del Titolo quinto della Costituzione ha portato allo scoordinamento totale tra Stato e poteri locali. Voluta qualche anno fa per contrastare il federalismo e il pericolo della secessione, ha precluso al Ministero della Salute la possibilità di imporre standard sanitari coerenti su tutto il territorio nazionale. Ma neanche l’Europa brilla per capacità organizzativa: non si è stabilito un protocollo comune per stabilire il grado di contagio; si permette ai singoli stati di decidere chi entra e chi esce, senza neanche avvertire i viaggiatori e le ambasciate. E se da noi abbiamo scoperto tanti casi, è anche perché abbiamo fatto un controllo con 10.000 tamponi invece dei 1000 come in Germania. Ma anche la chiusura dei voli con la Cina è stato un atto unilaterale italiano e forse anche dannoso: chi voleva entrare da noi magari ha fatto scalo a Monaco e poi ha preso un Flixbus, eludendo i controlli e diventando il Paziente 1 (una volta si diceva Untore). Infine, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ancora non ha deciso se è pandemia o no.

Nel frattempo è sparita l’Amuchina, insieme ai partiti politici in continua lite fra di loro. Forse per senso civico, ma anche perché il Coronavirus ha – come direbbero  i pubblicitari – vampirizzato la comunicazione, complice anche una tv che mobilita un esercito di esperti – virologi, ospedalieri, volontari, ricercatori a tempo pieno. Momenti di Gloria. Nel frattempo finalmente anche in Italia si scopre lo smart working, lavoro agile, quello che anni fa si chiamava telelavoro ma non poteva ancora valersi delle linee veloci, di whatsapp e della logistica in stile Amazon. Ma ci voleva la Peste Nera per modernizzare l’Italia?

E sempre a proposito della Peste, mi piace essere originale e di parlare di un libro tradotto solo nel 1940 da Elio Vittorini e di cui ho fatto cenno all’inizio: A Journal of the Plague Year (Diario dell’anno della peste o La peste di Londra ) pubblicato nel 1722 anonimo, ma riferito all’epidemia che falciò la popolazione di Londra nel 1665. Presentato come cronaca autografa di un testimone oculare dell’epidemia e integrato da documenti originali, era stato in realtà scritto da Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe, pubblicato anch’esso come reale autobiografia. Fake news? No, il nostro autore sapeva far bene il suo mestiere di scrittore e pioniere del giornalismo. La critica italiana preferisce naturalmente Manzoni: «Nel libro di Defoe c’è meno arte, meno maestria, meno meditazione e più peste» , scrive Vittorini. Sarà, ma io provo una profonda ammirazione per i grandi falsari, e Daniel Defoe lo era (2). Alieno da sentimentalismi e sovrastrutture morali, ha confezionato una vivida e accurata cronaca fingendosi testimone oculare.

Tutti gli altri scrittori hanno esteso invece la descrizione dell’epidemia proiettandola in una dimensione morale, metafisica. Lucrezio nel sesto e ultimo libro del De rerum natura descrive la peste di Atene del 430 a.C. sulla scia di Tucidide (3), il quale notava la destrutturazione morale della società colpita dal morbo, il che non sfugge neanche a Boccaccio nel Decamerone. Se gli dèi non ti proteggono, l’etica non paga. Ma è proprio Lucrezio a suggerire che l’epidemia è un fenomeno naturale e gli dèi poco c’entrano: proprio i santuari sono pieni di cadaveri e la malattia non distingue tra buoni e cattivi. Sarà piuttosto Manzoni ad affidare alla peste il compito di punire Don Rodrigo e il Griso, anche se sapremo solo dopo anche della morte di Fra’ Cristoforo nel Lazzaretto, dove prestava aiuto agli altri. Epidemia invece tutta laica, decadente e tardo romantica ne La Morte a Venezia di Thomas Mann (1912), libro noto anche per l’interpretazione cinematografica di Luchino Visconti (1971). Peste che Albert Camus interpreta invece come metafora del Nazismo, anche se la dinamica resta la stessa: all’inizio si sottovaluta il contagio, poi non si deve creare allarmismo e in questo modo la situazione peggiora; quindi si ordina un rigido cordone sanitario attorno alla città e si studia il vaccino. Qui siamo a Orano, in Algeria, forse nel 1940 o comunque sotto il governo di Vichy (1940-44), e a descrivere tutto è un medico. La trama è abbastanza nota, quindi non la riassumo, come nota è la morale: bisogna vigilare perché solo la prevenzione può evitare il ritorno del flagello. Ma che si parli di Nazismo è solo sottinteso, visto che i topi neri che hanno invaso Orano non portano incisa la svastica. In fondo, il romanzo di Camus potrebbe essere reinterpretato di continuo, come certe opere di Brecht.

Mi piace però terminare questo excursus con Cecità di José Saramago (1995). Questa improvvisa cecità che si espande a macchia d’olio fra gli abitanti di una città non definita è inspiegabile, come non si capisce il motivo per cui nel finale tutti i ciechi guariscono senza alcuna ragione apparente, proprio come all’inizio della vicenda era sopraggiunta improvvisa l’epidemia. Nel libro non manca niente: la sofferenza collettiva, i morti per le strade, una protagonista immune dal contagio, la strategia della reclusione dei malati, il crollo della morale e l’affermarsi della legge del più forte. E’ un romanzo complesso e va letto per intero, ma ha una precisa chiave di lettura, espressa da uno dei personaggi, più precisamente la moglie del medico: «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono». E’ quindi un j’accuse all’indifferenza, il nuovo male del secolo.

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NOTE

  1. Laura Spinney, 1918. L’influenza spagnola. L’epidemia che cambiò il mondo. Trad. di Anita Taroni, Stefano Travagli. Nodi editore, 2018. Prezzo: 20 euro, 7.99 ebook
  2. Defoe è considerato il padre del moderno romanzo, ma è stato anche un giornalista, e il suo stile realistico lo dimostra. Tutte le sue opere narrative (Robinson Crusoe, Capitan Singleton, Memorie di un Cavaliere, Moll Flanders, Lady Roxana) si presentano come autobiografiche e lasciano poco spazio al sentimentalismo che avrebbe imperato dopo.
  3. Dai sintomi, gli specialisti hanno ipotizzato che si trattasse in realtà di tifo esantematico. Vedi: Manolis J. Papagrigorakis, Christos Yapijakis, Philippos N. Synodinos e Effie Baziotopoulou-Valavani, DNA examination of ancient dental pulp incriminates typhoid fever as a probable cause of the Plague of Athens, in International Journal of Infectious Diseases, vol. 10, nº 3, 2006, pp. 206–214