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Infanzia in pericolo: Uno più di 100

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Il turbamento che ha suscitato il dramma della piccola Noemi, in una città tra le meno tranquille, è commovente, pensando alla partecipazione del popolo nel far recapitare messaggi di auguri e peluche, oltre alle personalità che hanno dedicato preghiere e promesse di giustizia . Una bimba che viene ferita da un proiettile come se vivesse in una zona di guerra. Una ferita di guerra, come ha dichiarato il primario di chirurgia pediatrica del Santobono, in una Napoli così bella e ricca di violenza.

Quanta commozione può provocare la tragedia di una bimba in una piazza partenopea o di un bimbo sulla spiaggia di Bodrum, paradiso turistico della Turchia, nel tentativo di fuggire dalle guerre e dalla fame, ma quando l’infanzia coinvolta nel dramma della vita è superiore ad uno l’empatia viene meno, forse per la mancanza di dettagli.

La notizia di un adolescente morto in mare con la pagella cucita in tasca o quella di un ragazzo annegato abbracciato al suo violino, trovano spazio nei nostri pensieri, anche se fugacemente, magari perché non sono solo un numero, ma hanno un nome e un cognome, spesso una foto, mentre già 4 bambini uccisi da un missile nel villaggio siriano, nella provincia di Hama, poco importa se erano cristiani durante il catechismo, o decine di morti in una scuolabus nello Yemen, rimangono nell’ambito delle statistiche.

I mezzi d’informazione non hanno lo spazio per umanizzare le vittime di stragi di bombe o missili dei “buoni” o dei “cattivi”.

Un nome commuove più di 100 morti in mare o in un conflitto.

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Dopo che il New York Times aveva commosso con Amal, la bimba yemenita di 7 anni, simbolo della sofferenze della guerra, ha scelto Anailin Nava, venezuelana di 2 anni, immagine della denutrizione.

Un’infanzia vittima non solo delle guerre, ma anche del lavoro minorile e della prostituzione, dei maltrattamenti e della malnutrizione.

Vittime strumentalizzate per fini politici e dove l’Onu e l’Unicef si trovano in attrito con L’Organizzazione Internazionale del Lavoro, un’altra ‘agenzia specializzata delle Nazioni Unite, sul salvaguardare i diritti del lavoratore e  dell’infanzia, per proteggere i minori dal lavoro.

Accordi e trattati internazionali messi a rischio dall’incipienza dei nazionalismi e dei sovranismi e da una mancata sensibilizzazione delle persone ai diritti umani di ogni singolo individuo è anche un nostro diritto, senza differenza di età, sesso, nazionalità, cultura.

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Cantate Domino – Postilla

Di musica liturgica avevo scritto in modo articolato su queste pagine (vedi) e non intendevo più tornare sull’argomento, se non avessi ora letto l’ultimo documento del Papa Emerito, il quale mi ha illuminato sui motivi dello scadimento del canto che deve accompagnare la liturgia. Per correttezza riporto per intero la parte che m’interessa:

Pensiamo a questo riguardo a una questione centrale, la celebrazione della Santa Eucaristia. Il nostro modo di trattare l’Eucaristia non può che suscitare preoccupazione. Il Concilio Vaticano II si è giustamente concentrato sul riportare questo sacramento della Presenza del Corpo e del Sangue di Cristo, della Presenza della Sua Persona, della Sua Passione, Morte e Risurrezione, al centro della vita cristiana e dell’esistenza stessa della Chiesa. In parte, questo è realmente avvenuto, e dovremmo essere molto grati al Signore per questo.

Eppure è prevalente un atteggiamento piuttosto diverso. Ciò che predomina non è una nuova venerazione per la presenza della morte e risurrezione di Cristo, ma un modo di trattare con Lui che distrugge la grandezza del Mistero. Il calo della partecipazione alla celebrazione eucaristica domenicale dimostra quanto poco noi cristiani di oggi sappiamo ancora apprezzare la grandezza del dono che consiste nella Sua Presenza Reale. L’Eucaristia viene svalutata in un mero gesto cerimoniale quando si dà per scontato che la cortesia esiga che Egli sia offerto in occasione di celebrazioni familiari o in occasioni come matrimoni e funerali a tutti gli invitati per motivi familiari.

Il modo in cui le persone spesso ricevono il Santissimo Sacramento nella Comunione come una cosa ovvia mostra che molti vedono la Comunione come un gesto puramente cerimoniale. Pertanto, quando si pensa a quali azioni siano necessarie in primo luogo e soprattutto, è piuttosto ovvio che non abbiamo bisogno di un’altra Chiesa di nostra iniziativa. Piuttosto, ciò che è richiesto in primo luogo e soprattutto è il rinnovamento della Fede nella Realtà di Gesù Cristo che ci è stata data nel Santissimo Sacramento

Dunque: dalla Trascendenza si scende al Convivio, dal Mistero alla Cerimonia; dalla mistica celebrazione del Sacramento si arriva all’Assemblea di quartiere, alla gioiosa Mensa comune aziendale. A questo punto è quasi normale spingersi fino all’estrema, logica conseguenza successiva: l’esaltazione di un repertorio musicale secolare. Se è una festa di famiglia o di quartiere, tutto diventa un musical, la celebrazione di un incontro tra famiglie di credenti. La musica sacra ha infatti valore soltanto se ha valore il Sacro, altrimenti è cosa buona e giusta cantare Sanremo con le parole cambiate. Ringrazio a questo punto il cardinal Ratzinger per avermi dato la chiave di lettura che mi mancava. Purtroppo il Papa Emerito era più colto dell’epoca in cui è stato costretto a vivere.

Precedentemente:

Cantate un canto nuovo
Del 2 Febbraio 2018
“Cantate Domino canticum novum, cantate Domino omnis terra” (Salmo 96)

Bella Ciao si aggiorna con Greta

Greta Thunberg ha indubbiamente spiazzato tutti, a cominciare dai partiti politici, e il movimento giovanile nato dalla sua caparbia protesta è l’unica novità positiva nel deprimente panorama politico europeo. Detto questo, quello che profondamente mi ha colpito è stato sentire “Bella ciao” rinverdita con un nuovo testo e divenuta inno ufficiale della Green Revolution. Anche chi non ha partecipato a uno dei tanti cortei può vedere in rete il bel video della canzone, con tanti volti di giovani sorridenti.

Bella ciao l’abbiamo cantata quasi tutti almeno una volta a scuola o durante una manifestazione, ed è così popolare da essere stata anche oggetto di studio. Senza dilungarmi troppo (trovate tutto su Wikipedia), dirò che è stata adattata dai partigiani italiani emiliani o comunque del nord Italia a partire da un canto popolare, forse un canto di lavoro. In realtà la sua popolarità si è ampliata assai più nel dopoguerra, diffusa nelle varie adunate giovanili europee e tradotta in varie lingue. A suo favore c’è un testo universale – si parla di un invasore, senza specificare quale, anche se il riferimento storico era chiarissimo. E soprattutto, la musica ha tutte le caratteristiche del canto popolare: facile, orecchiabile, corale: esattamente quello che non capiscono i nostri parroci quando stampano i loro astrusi canzonieri liturgici da proporre all’assemblea dei fedeli. Ma tornando a Bella ciao, ora ricompare sulla scena un cugino lontano: nel repertorio tradizionale di un musicista ebreo errante è stata registrata una melodia che, sia pur orientaleggiante – nel classico stile “klezmer” – nelle prime battute e anche in alcune altre somiglia molto alla nostra amata canzone partigiana. Ascoltare per credere.

Che dire? E’ forse ozioso chiedersi se quella canzone è stata creata dai musicanti yiddish o dai rom o piuttosto non siano stati loro a diffonderla in giro dopo averla ascoltata magari in Friuli. Ricordo ancora a memoria una melodia che quando ero bambino sentii da qualche parte in quel di Bolzano: un musicista ambulante tirolese l’aveva suonata al clarinetto per ore a una festa campestre e alla fine mi era entrata dentro per sempre. Certo, analizzandolo con un minimo di orecchio musicale, il motivo di Bella ciao è impostato in modo minore, tipico di tanta musica dell’Europa orientale, e risente più delle scale modali (tradizionali) che della musica tonale (più moderna). Ma quello che trovo più importante è la sua vitalità: rimane anche ora un inno al futuro che vorremmo.

 

Chi si ferma non è perduto!

Affascinati dal dramma e dal pathos pensiamo alta e sublime questa condizione, disprezzando l’immobilità come condizione mediocre e vile. Ma noi viviamo le passioni, necessarie e fatali, come il malato vive il delirio della febbre: guarirne  è il traguardo, non permanervi. La stasi è il simbolo di perfezione, è il segno dell’avvenuta osmosi tra noi e il Cosmo, è la fine del tragico conflitto individuo-mondo. Sì. è anche la fine dell’individualità in un darsi totale, nel trasmutarsi in materia ed essere indifferenziati. Buddha vede in ciò la perfezione finale: non più affrontare tragicamente il mondo ma ESSERE il mondo!…Ciò non significa indifferenza e vuoto, ma anzi pienezza totale, profondità assoluta, perché il mondo ci si svela interamente, e noi percepiamo l’Essere aldilà dell’angoscia e dei limiti impostici da pathos, fatale retaggio, soma dolorosa.

Il saggio, il santo, l’illuminato è sempre più avaro di gesti e di parole, egli cerca l’immobilità, simbolo di questo permanere nell’Assoluto; e non è immagine dell’Empireo dantesco, il più alto e immobile dei cieli divini? Immagine dello stesso “perno” divino che è immoto, ma da cui si sprigiona il movimento della Ruota celeste?

Nostro destino è vivere e rivivere i cicli e i ritorni dolorosi della nostra ruota che gira incessantemente (arcano X° simbolo della vita umana), pur desiderando disperatamente, eterna nostalgia, la patria perduta aldilà delle stagioni, del tempo e della morte. La patria che ci ebbe e forse un giorno ci riavrà, dopo un lunghissimo pellegrinare.

” A quando, finalmente, un appuntamento meno fallace con te?” dice malinconicamente alla stella il principe di Salina, il Gattopardo. Siamo stanchi del mondo, dell’eterno divenire, dell’eterno mutare che ritorna su sé stesso: ” Tutto ciò che è stato sarà di nuovo, e ciò che sarà è già stato”, recita l’Ecclesiaste.

per la cronaca risale all’89 dal mio “Zibaldone/zabaglione”

Navigatores

Qui a Roma, per trovare una segnaletica razionale bisogna andare all’Ikea. Almeno questa è l’opinione di chi guida. Ormai se non mi perdo più o non imbocco l’uscita sbagliata della tangenziale, del raccordo anulare, della galleria Giovanni XXIII o del sottopasso di piazza Fiume, è solo perché alla fine ti fai le ossa con le stesse strade. Non importa che i cartelli stradali siano messi nei punti sbagliati o non ci siano dove servono, né è considerato criminale mettere in galleria cartelli leggibili solo a due metri dal bivio, sempre che tu riesca a scalare le marce: alla fine conta solo l’esperienza. Ma torniamo all’Ikea. Prima ne ho lodato la segnaletica, ma parlavo di quella interna, realmente da manuale. All’esterno è diverso: i parcheggi del centro commerciale di Porta di Roma sono degni di Doom, quel videogioco pieno di passaggi.

Uscire dai parcheggi per tornare verso il centro significa poi quasi sempre ritrovarsi a Settebagni. E soprattutto, bisogna ricordarsi di dove abbiamo parcheggiato la macchina. Per farla breve, ho comprato da Ikea della merce voluminosa (scatole di cartone per imballaggio, codice Jaettene (jatevenne? Sui codici Ikea c’è da scriverci un libro, anzi l’hanno già fatto: si chiama La casa di cartone, di Alberto Moliterni) e mi sono ritrovato a duecento metri dalla macchina, da solo, senza possibilità di portare il carrello fuori della zona di scarico merce. Che fare? Come nella Roma antica, subito appare il “cliens” nella figura di un giovane immigrato.

Mi chiede dove ho la macchina. K12 rosso. La sua mente ormai ha la mappatura completa della zona e va sicuro della sua strada. Mi aiuta anche a caricare e ovviamente si merita una mancia. Come ti chiami? “Esperanza”. Bene, la prossima volta ti cerco io.