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Clod Pat

A Claudia Patruno che apprezzava profondamente gli interventi di Luigi M. Bruno su RomaCultura ed i suoi scritti poetici e narrativi e non ha avuto il tempo dimostrarlo con il suo lavoro ispirato al racconto “Peccato di gola”

A metà dicembre ci ha lasciato Claudia Patruno, una giovane donna e madre di grande creatività non solo nell’ambito digitale, ma anche nella pittura.

Claudia era una grafica e una webmaster che nel 2005 ha promosso e realizzato il magazine RomaCultura.it, con una particolare attenzione all’arte.

Questo suo interesse per l’arte ha stimolato il progetto del calendario di RomaCultura.it dedicato alle immagini ed alle parole di artisti e poeti conosciuti in ristretti ambiti, partecipando anche  in prima persona a delle iniziative dedicate ai Diritti (Visioni dell’Umanità, 2007) ed ai progetti di microeconomia del Magis in Africa (Opere solidali, 2015) ed in particolare ha collaborato nel 2016, nonostante la malattia, alla realizzazione della tela a più mani, ispirata all’opera dell’artista ciadiano Idriss Bakay, come omaggio all’opera missionaria di padre Martellozzo nel Ciad per la promozione degli orti comunitari e le banche delle sementi.

Era entusiasta nel realizzare un’opera ispirata ad uno dei racconti (Peccato di gola) della pubblicazione “Nuvole nell’Armadio” di Luigi M. Bruno, ma la malattia non gli ha lasciato la concentrazione e la forza.

Ci mancherai è stato bello conoscerti e collaborare con te

 

Paura di vincere (o di aver vinto)

05 MP AdN Paura di vincere 1A cento anni dalla fine della Grande Guerra, il manifesto ufficiale del Ministero della Difesa che celebrava il 4 novembre mostrava un esercito italiano in versione “Caritas”. Ora, se vuole mantenere la propria identità, un’istituzione non deve mai derogare alla propria funzione esclusiva: per la religione è la trascendenza, per l’esercito il combattimento; tutto il resto è solo un valore aggiunto che non può tuttavia sostituire la funzione primigenia. Ma quello che è più curioso, quel manifesto non conteneva alcun accenno all’avvenimento che doveva commemorare. Celebrare un anniversario senza chiarirne il motivo è assolutamente illogico e può essere spiegato unicamente dalla pervasiva rimozione politica della nostra identità nazionale, di cui la vittoria del 1918 è un simbolo identitario. Vittoria all’epoca “mutilata”, oggi rimossa. Eppure da quella vittoria uscì un’Europa diversa, senza più gli Imperi centrali, anche se la pace fu realmente raggiunta solo nel 1945. Le istituzioni politiche italiane non furono all’altezza della situazione né al momento del trattato di pace né dopo, quando nel giro di quattro anni furono assorbite dal Fascismo. Avevano però completato sia pur a caro prezzo l’unificazione della nazione e forgiato nello sforzo collettivo una nuova società italiana. E anche se non priva di difetti, l’azione militare italiana nella prima G.M. fu sicuramente meno confusa che nella seconda, dove erano invece sbagliate le motivazioni, le scelte strategiche, la condotta delle operazioni e la logistica. Ma la classe militare italiana accettò lo stesso di combattere, col risultato di una disfatta totale. E proprio questo peccato originale peserà per anni sulle nostre forze armate, peraltro ricostruite invece che riformate, come furono invece quelle tedesche. Questo per dire che il rifiuto della forza militare stessa in Italia ha una sua storia e forti basi ideologiche, al punto che l’articolo 11 della nostra Costituzione nel 1948 lo mette nero su bianco:
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni.05 MP AdN Paura di vincere
La politica però non può negare la realtà di un fatto storico. In questo modo invece i programmi scolastici continueranno ad accennare al Novecento senza studiarlo e i ragazzi resteranno nella loro ignoranza, convinti che l’Italia non ha mai fatto una guerra e che soldati aiutano i migranti e le vecchiette. Questa sistematica castrazione simbolica delle nostre Forze Armate va avanti da anni, ma non è dovuta solo alla sconfitta della seconda G.M. Quando ho fatto il militare, in piena Guerra Fredda, nessuno ci chiedeva realmente di combattere, ma la guerra si chiamava col suo nome e dovevamo essere pronti a farla, anche se difensiva. Le parate militari poi duravano ore e per via dei Fori Imperiali sfilavano decine di mezzi pesanti e migliaia di soldati. Mentre ora il video di propaganda delle nostre Forze armate è stato “riveduto e corretto” perché ritenuto troppo bellicista, all’epoca i filmati analoghi mostravano uomini armati e in addestramento, proiettando all’esterno un’immagine di forza militare sicuramente sovrastimata, ma esplicita. Il cambiamento è avvenuto nella seconda metà degli anni Settanta, quando Sandro Pertini era presidente della Repubblica: si approfittò del terremoto in Friuli per dare una nuova motivazione ai militari (all’epoca non c’era ancora la Protezione civile), col risultato che i manifesti e la pubblicistica militare dell’epoca mostrano i soldati all’opera per aiutare la popolazione colpita da calamità naturali, ma senza fucile. Allo stesso tempo si rilanciò l’immagine della Guerra dei partigiani (Pertini lo era stato) e dell’Esercito di popolo (immagine rimossa a fine secolo col passaggio al professionismo militare). Qualche anno dopo l’Esercito trovò una nuova motivazione nell’impegno profuso nelle missioni all’estero (dal Libano nel 1982 in poi), stando però molto attento che nessuno le interpretasse come azioni di guerra.
In realtà in tutti questi anni si è sparato, e anche tanto; ci sono stati anche morti e feriti. Lo dimostrano da sole le motivazioni di tante medaglie al valore, il numero dei caduti e feriti nelle varie missioni c.d. di pace. In realtà ve ne sono state anche di guerra, nel senso che per mantenere o imporre la pace si è dovuto usare anche le armi, ora per difendere se stessi o le popolazioni da proteggere, ora per imporre lo status quo a chi non voleva saperne di deporre le armi. Ma questo la gente spesso non lo sa, né i militari avevano interesse a farlo sapere al di fuori del loro ambiente, dove tutto invece viene narrato in modo esplicito. Ma l’Italia non può rimanere al di fuori dei giochi politici e delle alleanze internazionali, quindi tutto si gioca sempre sul filo del compromesso.

Europa: Il futuro delle diseguaglianze

L’insulto e la mancanza di empatia da parte di certi politici diventa sempre più evidente con le continue “lezioncine” di Macron, come nel caso dell’arrogante risposta con la quale stigmatizzava l’affermazione del giovane disoccupato che non riusciva ad ottenere alcuna risposta al suo continuo inviare curricula, con un «Je traverse la rue, je vous trouve un emploi».

Al presidente francese gli basta attraversare la strada per trovare lavoro ed accusare i francesi di essere refrattari ai cambiamenti, al non voler trasferirsi, ma due articoli sui giornali statunitensi mostrano come il problema non è il trovare un posto di lavoro dopo il crollo della Lehman Brothers, ma avere un giusto compenso per poter vivere.

Nell’articolo “Americans Want to Believe Jobs Are the Solution to Poverty. They’re Not.” del NYT, la soluzione alla povertà non è avere un lavoro, come viene ribadito dal Time con I Work 3 Jobs And Donate Blood Plasma to Pay the Bills.’ This Is What It’s Like to Be a Teacher in America.

C’è chi insegna e poi si barcamena tra metal detector e visite guidate per poter non solo pagare le bollette, ma avere una vita dignitosa. Certe volte non basta e si sceglie di “donare” il sangue o magari vendere i propri vestiti. Questa è la “middle class” della provincia statunitense “fortunata” e poi ci sono gli indigenti, quelli che vivono, secondo l’Istituto nazionale di statistica e studi economici (Insee) francese, 13 anni meno dei ricchi, al maschile, i quali potendo vantare un tenore di vita medio di 5.800 euro al mese, possono ambire a restare in vita quasi 84 anni, mentre è probabile che chi ha 470 euro al mese non riesca ad arrivare al 72esimo compleanno.

In Russia le aspettative di vita scendono a 64 anni per gli uomini, mentre in Italia e in Spagna è intorno agli 80/84 anni senza essere benestanti, ma la qualità della vita non è comunque delle migliori.

Gli anni ‘70 con i suoi conflitti hanno portato una rinascita culturale ed economica che negli anni ‘80 è ‘90 si è consolidata tanto da far pensare che nel futuro poteva solo andar meglio, ma l’incapacità del centro destra nel gestire l’euro ha portato all’impoverimento di gran parte degli italiani, che solo ora sembravano di intravedere un lumicino, ma è stata presentata la “manovra popolo” che alcuni hanno voluto ribattezzare “manovra contro il popolo”, perché è manovra in deficit che può spaventare i mercati. Una manovra ispirata dalla Francia, senza voler contare che la situazione francese è ben diversa da quella italiana.

La Francia conta un Pil in rapporto con il debito pubblico pari al 96,4 , mentre l’Italia ha il 130%, poi ci sono altri fattori sommati di esposizione, ma in definitiva la Francia offre maggiori garanzie dell’Italia per gli investimenti/prestiti finanziari, pertanto è un rischio per gli italiani affidarsi ad una manovra in deficit per puntare alla crescita: immettere maggiore denaro non è una garanzia che poi circoli, perché si tagliano le tasse avvantaggiando però la fascia alta della società che è minoritaria nella popolazione.

Macron, nel tentativo di confutare l’appellativo di “presidente dei ricchi”, vuol varare un investimento di 8 miliardi in quattro anni, mentre il connubio pentastellato leghista vuol farsi amici tutti con il “reddito di cittadinanza” che dovrà essere modulato con dei controlli per renderlo inaccessibile agli “indigenti” dell’economia sommersa, del lavoro in nero, da una parte e dall’ altra con la Flat tax per rendere i facoltosi più ricchi, mentre chi non dovrebbe avere dei vantaggi è la fascia sociale media, quella più numerosa e che si troverà nel bel mezzo di una crescente disuguaglianza, fomentata dall’indebitamento.

Una disuguaglianza, quella italiana, che non si limita nel evidenziare la disparità tra gruppi sociali, ma anche tra le diverse aree geografiche. Una povertà che il Rapporto Caritas 2018 sentenzia in crescita, nel meridione tra gli italiani nel nord tra gli stranieri.

La mancanza di empatia, mascherata da un menzognero interesse per alcuni a discapito di altri, sembra la sigla distintiva della politica interessata a raccogliere consensi da un elettorato che ha dimenticato o non ha ancora scoperto che può avere una sua opinione e non è necessario accodarsi a chi grida e spaccia le sue decisioni per scelte popolari.

Si agita lo spauracchio di complotti “demo-pluto-giudaico-massonici” di tragica memoria, prendendosela con i tecnocrati di Bruxelles, con l’Unione europea incompiuta e con Soros, quando un governo pentastellato leghista si prepara a condonare, sotto mentite spoglie, i miliardi dovuti allo Stato.

Poi ci sono le scelte temerarie che hanno portato lo Stato a scommettere sui derivati per ridurre il deficit, creando una lacuna, tra il 2006 e il 2016, nei conti pubblici per quasi 24 miliardi di euro, ponendo la manovra all’attenzione della Corte dei Conti.

Il pentaleghismo parla di un complotto dilagante che coinvolge anche la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale e le agenzie di rating: l’Italia contro tutti questi miscredenti.

Orban ha usato Soros come “nemico”, ora anche i leghisti ne vorrebbero trarre vantaggio nell’additarlo come un capitalista impegnato nella solidarietà e di origine ebrea, d’altronde anche Trump ha imputato a Soros l’organizzazione delle manifestazioni contro la nomina di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema.

Anche il NYT potrebbe, se riescono a leggere almeno solo il titolo dell’articolo, rientrare tra chi complotta contro l’Italia “Why Italy Could Be the Epicenter of the Next Financial Crisis” (Perché l’Italia potrebbe essere l’epicentro della prossima crisi finanziaria), mentre The Economist amplia il panorama della prossima recessione con “The next recession”, coinvolgendo Trump e la sua guerra commerciale.

Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, oltre a rinnovare l’ammonimento sul prepararsi ad una nuova crisi ed a ricordare all’Italia che come membro della Ue è tenuta a rispettare le regole, pone l’accento sulla necessità di affrontare le crescenti diseguaglianze dei redditi e delle ricchezze non con delle politiche nazionali, come dimostrano i condoni italiani mescolati a redditi di cittadinanza, ma con uno sforzo comune a livello internazionale.

I vari governanti annuiscono alle affermazioni di Christine Lagarde, per molti una moderna Cassandra, ma continuano nello sport nazionale di ottenere un prestito senza rendersi conto che si perde un po’ della propria sovranità e chi ha elargito vuol proteggere comunque i suoi investimenti.

Il ministro francese degli affari europei Nathalie Loiseau, in un’intervista al quotidiano francese Le Monde (Budget italien: la ministre des affaires européennes française conteste l’argument démocratique invoqué par Rom), ammette le « trasgressioni” della Francia, ma ritiene anche difficile per l’Italia riuscire a coniugare le richieste degli elettori della Lega Nord e del Movimento a 5 stelle, tra la flat tax e l’amnistia fiscale con il reddito di cittadinanza e la riforma delle pensioni.

Al coro dei preoccupati per lo spread si aggiunge anche Draghi, governatore della Banca centrale europea, aggiungendo che non ha la “Cristal bowl” la sfera di cristallo per predire il futuro, ma la Bce non è stata istituita per finanziare i deficit nazionali. Uno spread sui 300 punti solo perché i governanti italiani non riescono a convincere l’Europa nella volontà dell’Italia di rimanere nella Ue e nell’eurozona

È difficile prendere sul serio chi proclama di voler rimanere nell’Unione quando dichiara di non rispettare le sue regole e c’è anche chi prospetta, visto il consolidato risparmio italiano, un “autofinanziamento”.

L’Italia gioca sulla scadenza dei vari commissari europei, con le elezioni, e la Ue cerca di procrastinare ogni decisione punitiva per non fomentare umori antieuropeistici.

I due si studiano, aspettando le elezioni europee di primavera, a spese di quegli italiani che hanno qualcosa da perdere senza saperlo.

L’Italia è lasciata sola, in questa battaglia, anche dagli altri paesi che proclamano l’euroscetticismo, ma che gridano il rispetto delle regole.

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Qualcosa di più:
Europa che si emancipa
L’Europa in cerca di una nuova anima
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Migrazione | Conflitti e insicurezza alimentare
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Europa: la Ue sotto ricatto di Albione & Co.
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Tutti gli errori dell’Unione Europea
Un’altra primavera in Europa

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La Cultura nel dialogo tra i popoli

La cultura è stata sempre un ottimo biglietto da visita dell’Italia e l’iniziativa itinerante, Classic Reloaded. Mediterranea, intrapresa dal MAXXI (Museo nazionale delle arti del XXI secolo ) di Roma, sul legame tra tradizione classica e ricerca artistica contemporanea, è coraggiosa nel proporre le opere non tanto di Gino De Dominicis o Mimmo Jodice, ma quelle di Maurizio Cattelan e Luigi Ontani che dopo Villa Audi (Mosaic Museum) di Beirut (Libano), viene allestita in novembre al Museo Nazionale del Bardo di Tunisi, luogo del drammatico attacco terrorista di tre anni fa.

L’iniziativa vuole rappresentare, attraverso 20 opere di 13 artisti italiani dalla Collezione del MAXXI in relazione agli spazi e alle opere dei Villa Audi e del Bardo, la cultura del “mare che sta tra le terre”, quella autonomia culturale ma nello stesso tempo apertura all’altro, coesistenza tra popoli, rapporto tra locale e globale, che da sempre caratterizza le nazioni del Mediterraneo.

Le opere dialogano, a Beirut, con gli splendidi mosaici romani del II-VI secolo d.C. di Villa Audi e, a Tunisi, con le architetture e le decorazioni ornamentali del Petit Palais, al Museo Bardo.

Gli artisti in mostra: Salvatore Arancio, Maurizio Cattelan, Enzo Cucchi, Gino De Dominicis, Bruna Esposito, Flavio Favelli, Mimmo Jodice, Sabrina Mezzaqui, Liliana Moro, Luigi Ontani, Pietro Ruffo, Remo Salvadori, Luca Trevisani.

A ottobre, in concomitanza con la XIV edizione della Giornata del Contemporaneo, è stata proposta per la prima volta l’Italian Contemporary Art, coinvolgendo un’ottantina tra Ambasciate, Consolati e Istituti Italiani di Cultura che hanno organizzato dibattiti e mostre incentrate sul tema della cultura artistica contemporanea, cercando di porre in evidenza non solo artisti e opere, ma produttori, curatori, allestitori, direttori di musei, critici, riviste e libri d’arte.

L’iniziativa ha visto anche la collaborazione della Società Dante Alighieri che può contare su numerosi luoghi preposti più alla promozione della lingua italiana che dell’immagine.

Della cultura italiana, in generale, e della lingua in particolare è il tema del progetto Limes che l’Istituto Dante Alighieri di Tripoli ha finanziato per essere implementato dalla Ong Terre des Hommes Italia in Libano, con il gruppo Scout Palestinese “Al Qadisieh” e Al Mobader Association nel campo Palestinese di Beddawi, nel nord del paese, per realizzare attività ludico-educative (quali musica e teatro in lingua) finalizzate all’introduzione della lingua Italiana per 50 bambini rifugiati del campo.

L’iniziativa, come supporto linguistico e introduzione alla lingua italiana, è finalizzata a promuovere la pace e portare la speranza con la lingua e la cultura italiane ai più piccoli (da 10 a 13 anni), agli indifesi e a tutti coloro che futuro non hanno.

Il progetto Limes, iniziato a giugno 2018 e che proseguirà fino a fine dicembre 2018, è stata anche l’occasione per varare la convenzione tra il Ministero della Difesa e la Società Dante Alighieri per inaugurare la Biblioteca della Pace con la donazione di mille libri in lingua italiana al contingente di pace UNIFIL di stanza a Shamaa (Tiro).

La promozione e la valorizzazione della lingua italiana trova un valido strumento nella Giornata ProGrammatica, inserita nella XVIII settimana della Lingua italiana nel Mondo, si rivolge non solo alle realtà italofone (Città del Vaticano, Repubblica di San Marino, Svizzera italiana e allo stato senza terra del Sovrano militare ordine di Malta), ma anche alle Comunità Radiotelevisiva Italofona (CRI) che riunisce le principali radio in lingua italiana all’estero, e inoltre alle numerose nazioni interessate alla cultura e alla lingua italiana (Albania, Bulgaria, Croazia, Francia, Macedonia, Malta, Montenegro, Monaco, Serbia, Slovenia, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Crimea, Giappone, Guatemala, Somalia, Stati Uniti, Tunisia, Uruguay, Venezuela), dove la Società Dante Alighieri svolge, con le sue numerosi sedi, una preziosa missione sin dal 1889.

Sono oltre 5 milioni gli italiani residenti all’estero (+20% rispetto al 2012), secondo i dati del Ministero degli affari esteri e come si rileva anche dal Rapporto 2018 “Italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes. Oltre a ribadire la inarrestabile partenza dei giovani, si aggiunge anche la presenza di adulti per cercare un lavoro e degli anziani per trovare un luogo dove poter vivere con gli assegni pensionistici insufficienti per risiedere in Italia.

In Argentina sono stati censiti 948mila italiani, in Germania sono 787 e in Svizzera 631, mentre nel Regno unito sono 315mila gli italiani registrati all’Aire (Anagrafe Italiani residenti all’estero).

Con queste prospettive migratorie italiane il ruolo che gli Istituti italiani di cultura e le sedi della Società Dante Alighieri svolgeranno sarà sempre più impegnativo e decisivo non solo nel promuovere la cultura, ma per tenere i contatti con i connazionali.

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Qualcosa di più:

Dopo la fuga dei cervelli è la volta dei pensionati
http://www.agoravox.it/Dopo-la-fuga-dei-cervelli-e-la.html

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Jenin e la rimozione della realtà

– di Enrico Campofreda –
Jenin e la rimozione della realtà

Mohammad Bakri è un regista e attore palestinese con cittadinanza israeliana. E’ nato nel villaggio di Bi’ina, nella valle di Beit Hakarem, in piena Galilea, una zona a stragrande maggioranza musulmana, con una minoranza cristiana. In quel luogo, nell’aprile 1948, ha operato l’organizzazione terroristica ebraica denominata ‘Banda Stern’ facendo stragi di civili, distruggendo parte del villaggio. Nelle successive operazioni militari l’esercito di Israele ha sconfitto la resistenza arabo-palestinese e la gente di quel villaggio si è dispersa fra la fuga in Libano e l’impiego presso la comunità agricola ebraica di Nahalal. Bakri è nato nel 1953, quando lo Stato d’Israele insediato nella terra di Palestina aveva cinque anni. Poco più che ventenne s’è avviato alla carriera teatrale in Cisgiordania e Israele. Il suo sguardo s’è rivolto anche al cinema, spaziando sui terreni della sceneggiatura e documentaristica. Impegnate. Da qui sono cresciute la fama e gli ostacoli incontrati sul percorso artistico.

Nel 2002, quando la seconda Intifada era nel pieno delle sue giornate drammatiche e insanguinate, presentò un documentario che fece epoca “Jenin Jenin” dal nome d’un campo profughi palestinese situato Cisgiordania, a meno di trenta km da Nablus. Nel mese di aprile l’esercito israeliano aveva invaso quel campo ponendolo sotto stato d’assedio per una dozzina di giorni. Non fu permesso a nessuno, né a giornalisti né a organismi di controllo internazionale di seguire quelle operazioni definite antiterroristiche. Bakri, che assieme ad altri artisti aveva compiuto proteste non violente, penetrò con una camera il 26 aprile 2002, appena l’esercito di Tel Aviv si ritirò. Riprese e parlò con la gente scioccata. Ci furono testimonianze di violenza e massacri fra la popolazione. Il lungometraggio, montato a Roma e comunque diffuso nonostante gli ostacoli opposti dagli stessi Paesi arabi, subì attacchi da Israele che lo bollò insieme al regista di propaganda antisemita. Alle denunce per calunnia, presentate da militari israeliani contro Bakri, seguì nel 2006 un’assoluzione.

Ma tuttora quel film scottante, proibitissimo nelle comunità ebraiche di tutto il mondo, costituisce un fantasma. Recente è una nuova denuncia contro il regista lanciata da un altro soldato di Tsahal che si ritiene diffamato. Il regista israelo-palestinese continua a difendere più che se stesso il suo intento di sensibilizzare quella parte dei suoi concittadini che sulla spinta di quanto deciso dal Parlamento di Tel Aviv puntano alla discriminazione del milione di arabi tuttora presenti in Israele. Una nazione passata dall’apartheid alla esaltazione razziale col passo legislativo di considerare il Paese Stato ebraico. A quei concittadini ignari della storia di Jenin, come di quella della nascita di Israele, Bakri – in questi giorni in Italia per rilanciare fra gli altri quello stesso documentario – rivolge il suo appello ai cittadini d’Israele che non vogliono farsi manipolare da una politica non solo omologante, ma assolutista e razzista. Quando essi chiederanno una vita diversa, cadranno anche odio e oppressione.

Pubblicato 19 ottobre 2018
Articolo originale
dal blog Incertomondo
nel settimanale Libreriamo