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Eserciti finti

In alcune cerimonie civili e militari frequenti a Roma e provincia non è raro vedere rappresentanze paramilitari di associazioni di protezione civile o di ordini cavallereschi. L’occhio esperto distingue subito le copie dagli originali, ma la gente comune e persino gli amministratori locali ci cascano, e del resto questi figuranti spesso imitano formalmente l’ordinanza militare, con un accorto quanto ridicolo mix di gradi, uniformi e distintivi delle forze armate e dei corpi di polizia, per non parlare degli ordini cavallereschi con tanto di mantella, croci e altri simboli medievali, ma paralleli a quelli riconosciuti ufficialmente e quindi indipendenti dalle gerarchie. Posso testimoniare di aver parlato con un gruppo di Cavalieri Teutonici che ignoravano persino l’indirizzo del bailato romano, per non parlare degli ordini cavallereschi il cui unico scopo sociale è concederere onoreficenze dietro il versamento di un congruo contributo volontario. Altro discorso sono i gruppi di protezione civile che amano vestirsi da militari. Faccio parte di un’associazione d’arma riconosciuta dal Ministero della Difesa e più di una volta abbiamo fatto allontanare dal nostro settore rappresentanze di finti generali o di guerrieri della domenica in tuta mimetica. Presi in castagna, vantano sempre agganci internazionali: posso citare una fantomatica “Guardia di difesa costiera delle Nazioni Unite” priva persino di email e alcuni corpi sanitari noti anche per una serie di grane giudiziarie documentabili in rete. Infatti alcune di queste strane associazioni non si limitano al volontariato civile o alle cerimonie di piazza, ma mandano avanti anche operazioni finanziarie o producono in proprio documenti e onoreficenze, e in più possono accedere a contributi regionali di vario genere.

Ma limitiamoci a parlare di uniformi. Il Ministero della Difesa esercita un controllo ferreo sull’uso della divisa da parte dei militari in congedo e delle associazioni d’arma, evitando qualsiasi ambiguità. Non altrettanto può dirsi del Ministero dell’Interno e del Dipartimento per la Protezione Civile, ai quali afferiscono guardie giurate, volontari di protezione civile e assimilati. Si sta attenti a interdire alle polizie private l’uso di divise e distintivi troppo simili a quelle della Polizia di Stato e dei Carabinieri (ma non sempre, com’è facile vedere in una delle foto) ma per il resto si lascia carta bianca nella scelta delle uniformi e delle mostreggiature, con risultati di cui forniamo alcune pittoresche immagini. C’è di tutto: giubbe rosse, generali di corpo d’armata, rangers. Sarebbe ora che il Ministero degli Interni stabilisse una volta per tutte uno standard, cominciando p.es. dal colore delle camicie: negli Stati Uniti gli sceriffi di contea e i rangers guardaparco vestono con colori sul marrone chiaro, mentre le forze di polizia hanno camicie blu o comunque scure, pur nella differenza tra uno stato e l’altro. In ogni caso è ora di mettere ordine in queste pagliacciate tutte italiane.

 

Gli studenti sfidano Trump e la Nra: Davide contro Golia?

Di Domenico Maceri

“Non si tratta di armi per legittima difesa. Sono armi di guerra. Non posso immaginare com’è possibile comprarle”. Queste dice Sam Zeif, studente del quarto anno del liceo Douglas di Parkland, Florida, dove 17 persone sono state massacrate il 14 febbraio 2018 da un assassino con un AR-15, un fucile semiautomatico. Zeif parlava  alla Casa Bianca dove era stato invitato dal presidente Donald Trump in una riunione che includeva un gruppo di ragazzi sopravvissuti, genitori e maestri con legami alle vittime delle stragi di Columbine (1999) e Sandy Hook Elementary School (2012). Una delle vittime del liceo in Florida era il miglior amico di Zeif.

L’incontro alla Casa Bianca doveva dare il segnale che  Trump prende seriamente la tragedia di Parkland. Il presidente aveva inizialmente suggerito alcune misure per ridurre i pericoli delle armi da fuoco specialmente quando vanno a finire nelle mani di individui con disturbi mentali. Il 45esimo presidente aveva anche detto che favoriva si eseguissero controlli sui precedenti di voglia acquistare armi da fuoco. Inoltre aveva dichiarato la sua opposizione al “bump-stock”, un meccanismo che converte un fucile semiautomatico in automatico, capace di sparare da 400 a 800 colpi al minuto. Questo tipo di meccanismo era stato usato nella strage di Las Vegas, nell’ottobre del 2017 dove 58 persone hanno perso la vita. L’individuo arrestato per l’attentato in Florida non ha usato questo meccanismo, ma si ritiene che abbia seri problemi mentali.

Dopo pochi giorni però Trump è ritornato sui suoi passi auspicando misure che rientrano nella filosofia della National Rifle Association (Nra), che ha contribuito 30 milioni di dollari alla sua campagna presidenziale. L’attuale inquilino della Casa Bianca ha dichiarato che i maestri dovrebbero essere addestrati e portare armi da fuoco  a scuola per potere proteggere i loro studenti in caso di situazioni di pericolo. Trump ha spiegato che se l’allenatore di football morto al liceo Douglas di Parkland mentre difendeva i suoi studenti fosse stato armato avrebbe potuto evitare la tragedia. Esattamente come ha detto spesso la Nra che per fermare un uomo cattivo armato ce ne vuole uno buono anche lui armato. Le scuole sono per Trump e la Nra facili bersagli, per la mancanza di personale armato che fermi gli aspiranti assassini.

Si tratta di prese di posizione smentite dai fatti. Nella scuola di Parkland c’era una guardia armata che però è rimasta nscosta per 4 dei 6 minuti della sparatoria. Non si conoscono tutti i dettagli ma potrebbe darsi che la guardia abbia avuto paura di dovere affrontare un individuo armato con fucile mitragliatore. Credere che addestrare maestri armandoli per sparare contro potenziali assalitori armati fino ai denti è illusorio. In situazioni di stress solo il 18 percento delle pallottole sparate dai poliziotti riescono a centrare il bersaglio. Farebbe meglio un maestro?

Dopo ogni strage del genere i politici non vogliono offrire soluzioni, si concentrano invece sulle preghiere e sui sentimenti di cordoglio per le famiglie. Una buona maniera per guadagnare tempo e poi riprendere la vita normale come se nulla fosse accaduto. Questa volta  però gli studenti si sono organizzati. Si sono mobilitati con manifestazioni riprese dai media locali e nazionali. Più di 200 sopravvissuti a Parkland si sono recati alla sede della legislatura di Tallahassee, capitale della Florida, forzando un voto sulle armi da fuoco. La legislatura, dominata dai repubblicani, ha sfortunatamente votato contro (71-36): in cambio ha approvato una risoluzione sui pericoli della pornografia… Gli studenti però non si arrendono. In diverse parti degli Stati Uniti si sono mobilizzati richiedendo incontri con politici per bandire fucili semi-automatici. Si preparano scioperi degli studenti in tutto il Paese il 14 marzo 2018 e una marcia a Washington D.C. dieci giorni dopo.

Tutte queste attività e la concentrazione dei media sulla questione hanno ovviamente attirato la reazione della Nra e dei suoi sostenitori, che ribadiscono l’importanza di difendere il secondo emendamento che sancisce il diritto del possesso armi.

Il problema però è la definizione di armi. Quando il secondo emendamento fu scritto, “armi” voleva dire un moschetto che sparava una pallottola. Adesso le armi sono molto più pericolose e il governo ha tutti i diritti di limitarne l’uso e di stabilire in che luoghi siano legali. Non si viola dunque il secondo emendamento quando si proibiscono le armi negli aeroporti, nel Congresso,nei tribunali e in altri luoghi. Né esiste la completa libertà di ottenere carri armati o mitragliatrici, che sono strettamente di uso militare. Persino Antonin Scalia, giudice conservatore della Corte Suprema, aveva scritto che il diritto del possesso armi ha i suoi limiti.

Trump ha abbracciato la Nra dichiarando i suoi membri “grandi patrioti”, suggerendo che i loro avversari non lo sono. Wayne LaPierre, leader della Nra, ha continuato ad attaccare i suoi detrattori etichettandoli come “socialisti stile europeo” che “odiano la libertà individuale e il secondo emendamento”. In realtà coloro che si oppongono alla facile disponibilità di armi da fuoco vogliono che anche in America si raggiunga il basso livello di sparatorie che si registra in Europa ed ovunque le armi da fuoco sono difficili da ottenere.

Pubblicato il 27 febbraio 2018

su Frontiere

Articolo originale

 

Mancuso vs Odifreddi

Ascolto il giovane teologo Vito Mancuso nel dibattito/confronto con il matematico/razionalista Piergiorgio Odifreddi. In conclusione e alla fine del suo dotto intervento (ricchissimo di citazioni che fanno sempre grande impressione sull’incolto spettatore comune!) si giunge inevitabilmente all’eterna ennesima conclusiva frase:” la ragione dell’uomo, pur profonda, geniale ed onesta che sia non giunge né giungerà mai a comprendere Dio”. La ragione dell’uomo, qui, in questo mondo, non può incontrare Dio in una formula adeguata e definitiva. Di questa umana insufficienza lo sapevamo già e l’abbiamo proclamata tutti!

 

 

 

 

Del resto fa buon gioco alla replica dell’ateo scienziato che ha ragione (ragionevolmente!) di ridacchiare: “Troppo comodo! Quello che non riesci a spiegarti è Mistero. Troppo facile! A me interessa il mondo in cui vivo, non le ipotetiche divinità trascendentali di cui favoleggi!”

Troppo giusto; la ragione affascina sempre con la sua risolutiva concretezza; essa dà sempre risposte ragionevoli…anche queste però troppo comode. Già, perché non basta il cordone ombelicale dell’intelligenza umana per arrivare alle stelle, e non è neanche giusto dire: tutto quello che è incomprensibile fuori dalla mia porta non mi interessa, o peggio, è puro irragionevole caos!

Non è caos perché l’Ordine delle cose è sovrano e assoluto. Ogni giorno scienziati sbalorditi scoprono connessioni e concordanze di incredibile perfezione nel Mistero della realtà che ci circonda.

Un Ordine e una conseguenzialità che definire geniale è riduttivo: esso è Divino.

Del resto il teologo “alternativo” Mancuso si perde troppo nei meandri affascinanti di un Idealismo panteistico ce pure devia, come altri fecero, dalla necessità cristiana (Nascita, Morte e Resurrezione di Cristo), della dottrina della umana Redenzione.

Né ci conquista la risaputa parlantina (al solito un po’ sarcastica e presuntuosa) dell’ateo convinto Odifreddi. Dio è aldilà di qualsiasi dotta risposta. Ad ogni passo che la ragione fa’ verso di Lui, Egli si allontana anni-luce! Perché Dio è troppo lontano e troppo vicino, è in noi e nel senso del nostro esistere. Scoprirlo nel cuore e nelle ragioni dell’amore è l’unica utopia realizzabile dall’uomo.

Troppo semplice e troppo difficile: è per questo che Egli, come si disse, si manifesta più facilmente ai semplici di cuore.

Ai semplici, beninteso, non agli idioti!

Uomini e semidei

Fantascienza? Alieni? Universi paralleli? Buchi neri? … Sciocchezze! Cosa c’è di più incredibile dell’Umanità? … Venire al mondo: incredibile! Morire: inimmaginabile. La coscienza di esistere ci impedisce di concepire il Nulla.

La coscienza ci rende semidei e come tale è inconcepibile morire … Ecco che siamo eterni nell’Assoluto: ecco il miracolo. Siamo un pazzesco scherzo della Natura o siamo veramente figli di Dio: propendo per la seconda ipotesi.

Un filosofo un giorno disse: “Il vero assurdo è che noi esistiamo; sarebbe molto più ragionevole che non ci fossimo ….”

Ma che senso ha l’Oceano se nessuno mai lo attraversa?

 

Cantate un canto nuovo

“Cantate Domino canticum novum, cantate Domino omnis terra” (Salmo 96)

Nella mia parrocchia non conoscono il suono di un organo: a messa solo chitarre ed ora pure un bongo, percosso da un ragazzotto di provata fede. Sempre meglio di una parrocchia vicina, dove i neocatecumenali cantavano rumorosamente e in modo abominevole. E a questo punto mi chiedo a che serve il Pontificio Istituto di musica sacra e perché non chiuderlo (1). Aggiungo pure di far parte di una schola cantorum sfrattata da una basilica romana dal nuovo parroco, accolta ora in un’altra basilica e impegnata per tutto l’anno nelle liturgie solenni. Amo dunque la musica sacra, so cantare e ho un minimo di competenza in un paese dove pochi sanno leggere uno spartito e la scuola non educa alla musica. Detto questo, andate a messa la domenica in qualsiasi parrocchia romana e sentite cosa cantano e come: è un confuso repertorio di musica pop, canzonette, corali simil-luterani, brani di musical, salmi e inni vari, ora imparati a memoria, ora letti su un libretto promosso dalla CEI. I singoli brani sono numerati, ma non seguono l’anno liturgico (come nel Liber usualis) (2), la sequenza la decide di volta l’officiante, senza comunque ricorrere a quei tabelloni coi numeri che si vedono nelle funzioni dei protestanti. Ma quelli almeno sanno cantare: sono disciplinati, si sentono parte di una comunità e il corale protestante è schematico quanto facile da intonare, vista la sua origine popolare. Lutero aveva visto giusto e capiva di musica. La tradizione sia cattolica che delle chiese orientali invece previlegiava il canto gestito da un coro separato dall’assemblea dei fedeli, che comunque partecipava nelle formule responsoriali e ha localmente elaborato un ricco patrimonio di inni popolari, spesso legati al culto mariano. Tutto questo fino al Concilio Vaticano II (1962-1965) (Atti: Sacrosanctum Concilium, in sigla SC) e alla sua ossessione per la partecipazione. Senza addentrarci in una discussione teologica, ci limiteremo a constatare che l’evoluzione della musica liturgica è imprescindibile dalla riforma della liturgia, e in questo gli atti del SC sono fondamentali. Il principio di partecipatio actuosa (SC 14) è infatti una pietra miliare della riforma liturgica post-conciliare, anche se il primato sulla partecipazione era stato richiamato anche da documenti precedenti (3). Ripeto: non è il caso di entrare in una discussione teologica che richiede ben altra competenza. Mi limito pertanto a dire che, per quanto riguarda la musica che deve accompagnare la liturgia, nella pratica la partecipazione si è appiattita sull’omologazione e si è finito per impoverire ciò che il Concilio voleva invece arricchire. Nella pratica corrente il canto assembleare è divenuto la “traduzione simultanea” della partecipazione attiva. Tutto ciò che lo esclude si configura quindi come elemento in sé negativo perché in contraddizione “a priori” con  tale principio, quasi fosse un diaframma tra l’assemblea e l’officiante. La debole riflessione ecclesiale ha fatto il resto, contribuendo a determinare un progressivo degrado della prassi liturgico-musicale. Non cantare la liturgia, usando solo musica di consumo piuttosto che musica sacra, rifiutare di educarsi o di educare gli altri nella tradizione della Chiesa e nelle sue direttive, mettendo poco o nessuno sforzo per l’edificazione di un programma dignitoso di musica sacra è a mio parere un atteggiamento colpevole e anti-intellettuale. E quello che è più pericoloso, la liturgia ha subìto una deriva dalla spiritualità verso l’autoesaltazione emotiva, cosa che peraltro le chiese evangeliche sanno fare molto meglio, mentre in realtà i giovani cattolici  sono oggi i primi a cercare la spiritualità, un segnale preciso da non sottovalutare. Ma quando il mio parroco, giovane e capace pastore di anime, nella messa domenicale ha testualmente affermato che “la messa è un balletto”, invitando dunque i fedeli all’animazione della liturgia, nessuno gli ha replicato che la liturgia non è un musical, né un happening che celebra sé stesso, ma dovrebbe essere animata dalla fede e dalla celebrazione collettiva del mistero del sacramento, senza ricorrere a contributi esterni legati allo spettacolo più che alla spiritualità.

Ma le premesse erano diverse: si vedano in SC le disposizioni relative alla musica sacra e al suo rapporto con la liturgia. Le indicazioni generali dei paragrafi 114 e 115 (Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della Musica sacra […] Si curi molto la formazione e la pratica musicale nei seminari […] ai musicisti e ai cantori, e in primo luogo ai fanciulli, si dia anche una vera formazione liturgica) sono suggellate dal paragrafo 116, intitolato specificamente Canto gregoriano e polifonico. Il paragrafo recita alla lettera “a)”:

La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale.

Malgrado le chiare indicazioni conciliari, nella fase successiva le conferenze episcopali hanno invece previlegiato un repertorio musicale estraneo al latino e al gregoriano, con forme vicine al pop e alla musica leggera, mettendo in secondo piano la cura del repertorio gregoriano che, pur ritenuto tradizionalmente solido, è invece scomparso dalla scena liturgica. Sono state dunque imposte nella pratica liturgica idee estranee al testo conciliare, troppo spesso con la complicità di una mancanza di vigilanza da parte del clero e della gerarchia ecclesiastica. Il patrimonio della musica sacra, che il Concilio aveva chiesto venisse preservato, non solo non è stato preservato ma è stato combattuto; e questo certamente contro il Concilio, che aveva chiaramente affermato ben altro. Purtroppo il dibattito post-conciliare si è sostanzialmente appiattito e impoverito nella contrapposizione puramente ideologica fra un gregoriano comunque indiscutibile e un gregoriano da eliminare del tutto, al punto di farne un estraneo in casa propria. In realtà, se pur tradizionale, il canto sacro non è esclusivamente il gregoriano, né è intangibile. E se la risposta ideologica è stata una congerie musicale non strutturata e di basso livello artistico, ancora più assurdo è che ancora nessuno abbia insegnato all’assemblea dei fedeli il canto corale. Eppure, dal Concilio a oggi vescovi e parroci hanno avuto ben cinquant’anni di tempo.

Ma scorriamo il canzoniere della mia parrocchia, ufficializzato dalla CEI: sono 170 pagine con il testo di 246 tra inni, salmi, canzoni e canzonette. La musica non c’è e s’impara a memoria, tanto nessuno la saprebbe leggere. Il legame armonico tra le parole e la musica è spesso casuale, segno che nessun musicista ha mai affrontato il problema. Le traduzioni degli inni dal latino sono sciatte, forse opera di un prete straniero: in un Sanctus stile spaghetti western “Hosanna in Excelsis” diventa un banale “Osanna nelle altezze”. Ma del Sanctus esiste anche una versione country , accompagnata da battiti delle mani e movimenti sincronizzati delle braccia. Partecipazione, d’accordo, ma a che cosa? Bisogna sottolineare che il magistero non richiede un’indistinta partecipazione di tutto il popolo nel canto liturgico, ma raccomanda un buon coordinamento di tutti, ciascuno secondo i propri compiti e ministeri, da cui “scaturisca quel giusto clima spirituale che rende il momento liturgico veramente intenso, partecipato e fruttuoso” (Giovanni Paolo II, chirografo sulla musica sacra Mosso dal vivo desiderio, 23 novembre 2003) (4). E proprio questo testo ci ricorda che la Santa Sede si è sempre occupata del problema, molti essendo i documenti dedicati alla musica sacra, dalla “Docta Sanctorum Patrum” (1324) di Giovanni XXII alla “Annus Qui” (1749) di Benedetto XIV, giù fino al Motu Proprio “Tra le sollecitudini” (1903) di San Pio X, la “Musicae Sacrae Disciplina” (1955) di Pio XII, e appunto il Chirografo sulla Musica Sacra (2003) di cui sopra. Interessanti poi gli interventi di papa Benedetto XVI, vista la sua reale competenza musicale: servirebbe un lungo articolo solo per darne una sintesi. Qui basta notare che il pensiero di Ratzinger – grande teologo e grande pontefice – non si limita alla musica liturgica, ma riconosce la musica come espressione dell’anima dell’uomo. Il suo non è un elogio formale e scontato, ma un contributo importante per lo sviluppo della dottrina sulla musica. Egli ricorda come con la riforma conciliare si fosse rinnovato l’“antichissimo contrasto” tra i sostenitori della musica sacra nella liturgia e i fautori della partecipazione attiva dei fedeli nelle celebrazione della fede con la loro maggiore semplicità, anche musicale. Proprio la liturgia celebrata da San Giovanni Paolo II in ogni continente ha mostrato “tutta l’ampiezza delle possibilità espressive della fede nell’evento liturgico” e, insieme, che la “grande musica della tradizione occidentale non sia estranea alla liturgia, ma sia nata e cresciuta da essa”. E con un valore, soggiunge, senza paragoni:

Si può dire che la qualità della musica dipende dalla purezza e dalla grandezza dell’incontro con il divino, con l’esperienza dell’amore e del dolore. Quanto più pura e vera è quell’esperienza, tanto più pura e grande sarà anche la musica che da essa nasce e si sviluppa “ … L’origine della musica è l’incontro con il divino, che sin dall’inizio è parte di ciò che definisce l’umano” (dal discorso del 4 luglio 2015 tenuto a Cracovia)

Un compendio è accessibile in un suo libro intitolato appunto: Sulla musica (5).

E passiamo a papa Francesco. Non è un intenditore come Ratzinger, ma nel 2017 scrive testualmente (6) :

L’incontro con la modernità e l’introduzione delle lingue parlate nella Liturgia ha sollecitato tanti problemi: di linguaggi, di forme e di generi musicali”:.. “Talvolta è prevalsa una certa mediocrità, superficialità e banalità, a scapito della bellezza e intensità delle celebrazioni liturgiche. Per questo i vari protagonisti di questo ambito, musicisti e compositori, direttori e coristi di scholae cantorum, animatori della liturgia, possono dare un prezioso contributo al rinnovamento, soprattutto qualitativo, della musica sacra e del canto liturgico”.

Tutto bene allora? No, se rileggiamo un capoverso iniziale:

emerge una duplice missione” per la Chiesa: da una parte, si tratta “di salvaguardare e valorizzare il ricco e multiforme patrimonio ereditato dal passato, utilizzandolo con equilibrio nel presente ed evitando il rischio di una visione nostalgica o archeologica” … “d’altra parte, è necessario fare in modo che la musica sacra e il canto liturgico siano pienamente ‘inculturati’ nei linguaggi artistici e musicali dell’attualità; sappiano, cioè, incarnare e tradurre la Parola di Dio in canti, suoni, armonie che facciano vibrare il cuore dei nostri contemporanei, creando anche un opportuno clima emotivo, che disponga alla fede e susciti l’accoglienza e la piena partecipazione al mistero che si celebra”.

Che vuol dire “visione nostalgica e archeologica”? Gregoriano? Più chiara la tesi dell’inculturazione, cara ai Gesuiti, dalle cui file papa Francesco proviene. Come si vede, più preoccupato che appassionato dal tema, egli auspica comunque la qualità. Quanto all’inculturazione, essa significa – se compresa correttamente – che noi dovremmo introdurre la cultura di ogni popolo nella liturgia. Ma non nel senso che la liturgia e la sua musica debbano divenire il luogo dove esaltare una cultura secolare. Essa è un luogo dove la cultura, ogni cultura, deve essere trasportata a un altro livello e purificata. E qui entriamo nel vivo: nel canto gregoriano come in quello delle chiese orientali – ma stavo per dire anche nel corale luterano – la parola di Dio si fonde indissolubilmente con la musica, entra in un’altra dimensione, si dispiega. La natura liturgica del canto sta nella sua capacità di strutturarsi in stili e forme precise, laddove nella musica di consumo (ma non nella musica popolare) il legame tra il testo e la forma musicale resta labile, né ha pretesa alcuna di trascendenza..

Chi deve cantare è un problema successivo. Ma se decidiamo che a cantare debba essere solo l’assemblea, a questo punto va condotta una seria alfabetizzazione musicale e soprattutto il clero deve dare più spazio ai musicisti, gli unici che possono indicare la strada per superare l’attuale degrado della musica liturgica. Detto questo, concludo la mia analisi con alcuni suggerimenti pratici, con la speranza che in parrocchia se li leggano e se ne discuta insieme:

  1. Se di musica si parla, vanno coinvolti i musicisti. E’ assurdo che coloro che hanno competenza e amore per la musica siano gli ultimi ad essere ascoltati, come se il loro parere non fosse invece fondamentale.
  2. A un volontario di coro parrocchiale consiglierei di provare a cantare tutti i quasi 250 canti contenuti nel libro degli inni, con la sola voce, senza chitarre o percussioni. Se ha un minimo di sensibilità musicale scarterà tutti quelli dove parole e musica mal si accordano, seguiti da quelli con testi troppo concettuali (quindi poco cantabili) o persino ambigui (p.es., Te lodiamo Trinità) e infine tutto quanto è Sanremo con le parole cambiate.
  3. Il canto liturgico deve mantenere un minimo di solennità, non è un musical.
  4. Com’è unitaria la liturgia, unitario dovrebbe essere anche il canto liturgico. Invece spesso si cantano in sequenza brani musicali diversi per stile e privi di un vero legame organico. L’insieme non è strutturato.
  5. Nel repertorio attuale, spesso gli intervalli tra le note sono spesso troppo ampi. Il corale luterano si canta con naturalezza perché il motivo è contenuto anche in una sola ottava e tra una nota e l’altra l’intervallo è minimo, mentre le canzoni in stile Sanremo sono riservate a cantanti professionisti, capaci di passare da un’ottava all’altra senza steccare e di passare dal basso all’acuto con naturalezza. Ma sono atleti della voce.
  6. Un’iniziativa elementare ma pratica consiste nel selezionare in ogni parrocchia almeno una voce guida. Una persona che abbia una bella voce, sappia cantare e leggere uno spartito e intoni per primo il canto, seguito dall’assemblea. E che sia capace anche di dare quelle indicazioni minime per cantare insieme in modo decente, visto che la pratica del canto corale è decaduta anche nella scuola primaria. Chiediamo troppo?

NOTE: