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Ucraina tra Sparta e Atene

Tutti mi chiedono che faranno ora i Russi, che nel frattempo hanno ampliato la loro offensiva militare in Ucraina e puntano alle grandi città. Se lo sapessi non starei qui ma al NATO College o consulente ben pagato di qualche istituto di ricerca, anche se va detto che proprio molti analisti di professione hanno sottovalutato la situazione e non certo da ora. Per il resto ho le stesse informazioni che hanno gli altri: frammentarie, parziali e partigiane, mentre i giorni precedenti all’attacco sapevamo tutto sullo schieramento di terra e di mare, ripreso dai satelliti e divulgato in rete. Davamo per scontato che i Russi avrebbero occupato e annesso il Donbass e forse qualcos’altro in Crimea, ma lasciando l’armata ai confini come deterrente e strumento di pressione politica, con reali risultati sul medio e lungo periodo. Ha sconcertato tutti dunque la decisione di scatenare un’invasione su larga scala di un paese che gravita da sempre fra due culture diverse ma che è fondamentalmente europeo. Il problema è culturale: nella nostra mentalità non ritenevamo più praticabile una guerra su larga scala; al massimo era prevedibile l’annessione delle due zone dove la minoranza russa aveva proclamato l’indipendenza dall’Ucraina, superando gli Accordi di Minsk in realtà mai applicati per la resistenza anche proprio del governo ucraino, restio a concedere un’autonomia alle zone del Donbass. Governo che si direbbe difficile da inquadrare in uno schema preciso: per Putin l’Ucraina non esiste, va liberata e denazificata, mentre per noi è un paese sovrano libero di scegliere da che parte stare, anche se non è chiaro quanto abbiano pesato nel 2014 le offerte e le pressioni statunitensi ed europee per quello che ancora oggi viene descritto più come un colpo di stato che un vero processo democratico. Tutto infatti parte da qui: dal momento in cui l’Ucraina non ha firmato l’accordo doganale con la Russia e si è invece orientata verso l’Unione Europea, sganciandosi dunque dalla tradizionale area di influenza russa, ma senza immaginare che gli statunitensi non erano disposti a impegnarsi in profondità. Biden poi come presidente si è visto di che pasta è fatto: Afghanistan docet.

E parliamo della NATO. Una volta caduto il Muro di Berlino (novembre 1989) i paesi prima aderenti al Patto di Varsavia si sono man mano smarcati con la fine dell’Unione Sovietica (1991) e all’inizio del nuovo secolo sono entrati nella NATO. C’era un accordo non scritto per evitare l’espansione a Est di un’alleanza nata proprio per contenere l’URSS, ma questo non è stato rispettato, col risultato di frustrare i Russi e proiettarli nella classica sindrome di accerchiamento. Fino all’ascesa di Putin la Russia e il suo esercito stavano comunque a pezzi e il presidente Eltsin era debole. Da parte statunitense si è quindi fatto l’errore di confondere l’Unione Sovietica con la Russia e non prevedere la futura rinascita di una nazione fortemente coesa, Ora, si dirà: ma un paese che occupa undici meridiani può sentirsi accerchiato solo perché la terra è tonda?  Ebbene, chi ritiene Putin un uomo misterioso e la politica estera russa ambigua, bene farebbe a studiare storia moderna. Dai tempi di Pietro il Grande (regnò dal 1682 al 1725) la strategia russa è sempre la stessa: sbocco al mare (Baltico e Mar Nero), colonizzazione e sfruttamento della Siberia, contenimento dell’Islam (all’epoca incarnato dall’Impero Ottomano) e creazione in Europa di una fascia di sicurezza a spese degli altri (baltici, polacchi, ucraini, tedeschi, etc.). La popolazione russa è concentrata verso l’Europa e la Russia è un paese europeo, invaso ora dagli Svedesi, ora da Napoleone, ora da Hitler. Niente di strano che da sempre venga tenuta frapposta una zona di stati cuscinetto neutrali o vassalli. Esattamente quello che l’espansione della NATO ha Est ha distrutto, creando solo frustrazione. Resta casomai da capire perché una faccenda così importante non sia stata mai messa per iscritto e affidata solo a promesse verbali o a note di ambasciata. Lo stesso Putin, se voleva negoziare o rinegoziare con la NATO, ha avuto vent’anni di tempo, né gli mancavano certo gli strumenti di pressione diplomatica per frenare l’aggressività statunitense da Bush in poi. In fondo, l’autodeterminazione dei popoli non vale solo per il Kosovo e la NATO aveva mantenuto il carattere di un’alleanza esclusiva, concettualmente ferma alla divisione tra Est e Ovest. Integrare la Russia nel sistema economico e politico europeo si è visto che non è facile, vista la sua struttura di potere, ma c’è stato comunque un periodo in cui si poteva fare certamente di più.

Torniamo dunque un passo indietro. Dopo la Caduta del Muro (1989) l’Unione Sovietica si dissolve e al suo posto rinasce la Russia, mentre i paesi legati al Patto di Varsavia si rendono indipendenti dall’alleanza nata nel dopoguerra per contrastare la NATO. Tutto questo avviene negli anni ’90 del secolo scorso, in un momento di particolare debolezza per la Russia e la CSI (Confederazione di Stati Indipendenti) intorno al nucleo centrale. In questo contesto molti paesi dell’Europa Orientale chiedono di aderire sia all’Unione Europea (che a tutt’oggi conta 27 membri) che alla NATO (attualmente 30 membri, di cui 22 nella UE). Ma se la UE è un’unione politica ed economica, la NATO ha funzioni essenzialmente militari e l’articolo 5 prevede l’aiuto reciproco fra paesi membri in caso di attacco anche a uno solo di essi. E’ chiaro a questo punto perché le tre Repubbliche Baltiche o la Polonia hanno aderito alla NATO: non per invadere la Russia, ma per difendersi dai Russi. Neanche strano che Putin non voglia l’ingresso dell’Ucraina nella NATO: finché ne resta fuori essa deve difendersi da sola, né c’è proporzione tra i due eserciti, come si è visto in queste ultime settimane. La Russia negli ultimi quindici anni ha investito molto sul rinnovamento e lo sviluppo delle sue forze armate, e soprattutto ha reagito nei tempi lunghi alla situazione di inferiorità in cui gli statunitensi l’avevano costretta. Non si può dunque comprendere la situazione attuale senza capire che la graduale estensione della NATO è stata sentita dalla Russia come una minaccia alle proprie frontiere, non più separate dall’Europa occidentale da una zona di stati-cuscinetto, di fatto vassalli. Ma se l’Unione Sovietica era finita, la Russia aveva invece le forze per rinascere, era solo questione di tempo. Sicuramente meglio sarebbe stato garantire una fascia neutrale, inserita nell’UE ma non nella NATO, oppure trasformare la NATO in un’Alleanza per la Sicurezza, inclusiva invece che esclusiva. Questo avrebbe meglio indirizzato gli sforzi, p.es., contro il pericolo islamista, con il quale i Russi devono confrontarsi sul terreno delle repubbliche asiatiche ex-sovietiche.

E passiamo ora all’Ucraina. Negoziati o meno, i Russi stanno distruggendo un paese con cui dovranno comunque convivere, non fosse altro perché metà delle famiglie ucraine ha parenti russi. Sicuramente pensavano di fare una guerra lampo, ma – come scrive Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale (1928) “Non si aspettavano di trovare tanta resistenza”. Sempre la stessa storia: a Budapest (1956) o a Praga (1968) i carri armati russi entrarono da liberatori, salvo accorgersi che buona parte della gente la pensava diversamente. E se vogliono entrare in Kharkiv (già Kharkov: nella seconda GM ci hanno combattuto quattro battaglie!) o in Kiev (o Kjiv?) i soldati sanno che combattere strada per strada in città con uno o due milioni di abitanti è una rogna che può durare mesi e si traduce in una snervante guerriglia urbana. L’esercito ucraino è molto inferiore per qualità e quantità a quello russo, ma l’Ucraina è enorme e capace di resistenza diffusa. Si è anche parlato molto di guerra partigiana, ma su quello esprimo qualche dubbio: organizzarla richiede capacità superiori a quelle di un esercito regolare e infatti ha funzionato dove un forte partito nazionalista o comunista stava già sul terreno, o dove – penso alla Jugoslavia di Tito – una parte della difesa territoriale era stata organizzata per tempo decentrando i depositi di armi e carburante in luoghi meno accessibili e addestrando sistematicamente i riservisti su base locale. Distribuire armi o tenerle nei depositi di caserma da sola non basta se la gente non sa usarle o se i Russi sanno già dove cercarle. E sicuramente agiscono da mesi agenti infiltrati o collaboratori fidati.

Detto questo, un’ultima considerazione. Si può vincere sul piano militare, ma perdere sul piano strategico. Putin non può permettersi una guerra prolungata: la Russia ha un PIL inferiore a quello dell’Italia e la colonna di mezzi corazzati e logistici lunga 60-65 km che sta puntando su Kiev in tre giorni di autonomia consuma da sola qualcosa come 2 milioni di litri di carburante, più olii lubrificanti, viveri e munizioni. I russi che manifestano per la pace in quaranta città sanno bene che presto dovranno rifare le file per il pane come ai tempi sovietici e anche per questo stanno in piazza. Dico “anche” perché nessun russo percepisce gli ucraini come stranieri, mica sono ceceni o abkhazi. Quindi tutti hanno interesse al negoziato, anche se ci si poteva arrivare con meno spesa, lacrime e sangue. Tutti hanno bisogno di una soluzione onorevole. E se Putin cadrà (magari per la rivolta degli oligarchi), è perché l’Unione Europea ha dimostrato maggiore compattezza e sa diversificare le armi e gli strumenti di pressione. Nessuno se lo aspettava, ma sottovalutare le democrazie è un classico dei regimi monocratici.

Infine, una parola sui profughi. L’Italia è il paese europeo dove vive la più estesa comunità ucraina, in maggioranza lavoratori e lavoratrici di basso rango (le donne sono l’80%). Si spera che saremo capaci di accogliere degnamente le migliaia di profughi che fuggono realmente da una guerra. Finora si è registrata una grande empatia con il popolo ucraino, ora è il momento di passare ai fatti.

Schwa – il giuoco si fa duro

Quella che poteva sembrare l’iniziativa di qualche intellettuale sta stimolando una discussione non priva di “vis polemica” ma interessante: in genere la linguistica non occupa molto spazio nella cultura di massa e nell’informazione generalista. Lo schwa poi fino all’altr’anno lo conosceva solo chi aveva fatto studi universitari di filologia, tant’è vero che alla radio l’ho sentito pronunciare “shoah” per assonanza con qualcosa di meno elitario. Eh, già, perché questo segno grafico ora tanto popolare non è stato promosso dal basso, ma da persone molto istruite. Leggo sulla rivista Domani la risposta di Christian Raimo ai linguisti che – a cominciare da Franco Arcangeli –  hanno firmato una petizione per fermare questa deriva fonetica: si difende la tradizione, non l’italiano. Lo schwa – cito letteralmente – parte dalle “proposte che emergono nei movimenti femministi, transfemministi, nelle assemblee dove da anni discutono insieme studentesse e operai*, docenti e attivist*”. Nel testo l’autore non usa l’asterisco ma lo schwa, solo che la mia tastiera non è ancora inclusiva e sono quindi ricorso all’asterisco, privo però di valore fonetico. “Studentesse” invece se lo poteva risparmiare: studenti è un participio, come docenti e quindi neutro. Nell’articolo si difende la popolarità e la pronunciabilità dello schwa dicendo che in fondo è presente in alcuni dialetti meridionali (campani, molisano-abruzzesi e pugliesi, ndr.). Vero: tutto questo si deve alla metafonesi, un fenomeno linguistico per il quale un forte accento tonico al centro della parola tende a indebolire la vocale finale. Ma se l’italiano è più comprensibile di un dialetto irpino o lucano è proprio perché le vocali in sillaba libera (cioè in fine parola) sono pronunciate in modo chiaro e rendono espliciti i legami morfologici e sintattici con il resto della frase.

Su Micromega invece Vera Gheno (sociolinguista dell’Università di Firenze) riconosce allo schwa il carattere di esperimento, e sperimentare con la lingua non è vietato, anzi ne arricchisce le potenzialità. Verissimo: nessuno ha mai impedito a D’Annunzio e a Marinetti di sperimentare, anche se pochi oggi si esprimerebbero come loro. Ricordo benissimo Gianni Toti, “videasta poetronico” come si definiva lui stesso, e ricordo le sue inesauribili re-invenzioni linguistiche con cui animava la cultura romana negli anni ‘70. Ma una cosa è sperimentare, altro imporre agli altri le proprie scelte. Lo schwa, semplice (ǝ) e “lungo” (з), è stato accolto in sei verbali redatti dalla Commissione per l’Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia del Settore concorsuale 13/B3 – Organizzazione Aziendale. Ma può un singolo ufficio statale inserire in un documento ufficiale una nuova regola grammaticale e darle quindi valore normativo? E’ quello che si chiede il linguista Massimo Arcangeli nella sua petizione lanciata su Change.org, firmata da 22.000 italiani e non solo filologi e linguisti universitari.  In mezzo a questa discussione l’Accademia della Crusca ha dimostrato una grande onestà intellettuale, facendo capire che il suo compito non è imporre il cambiamento linguistico, ma di registrarlo e di renderlo norma solo nel momento in cui esso si è esteso e stabilizzato nella maggioranza dei parlanti. Ogni lingua è un organismo vivo e quindi si adatta di continuo alle nuove esigenze. Personalmente trovo stupenda la capacità della lingua angloamericana nel trovare un termine esatto e aggiornato per qualsiasi novità tecnica e culturale del momento, segno di una società ben più dinamica della nostra, la quale è come ingessata e timorosa del Cambiamento inteso come qualsiasi cambiamento.

Due parole però sulle minoranze organizzate. Alla fine sono loro che fanno da apripista alle riforme, alle novità culturali, alle leggi che estendono agli altri i diritti prima previlegio di un’aristocrazia, di un’élite. Ma spesso sono loro stessi un’élite (in italiano: “eran l’eletta e il fior d’ogni gagliardo”, così Ariosto nell’Orlando Furioso). Tutto bene? No: sorvolando sui no-vax, ho scoperto su Facebook alcuni gruppi trentini separatisti e persino un gruppo “Istria e Dalmazia né Italia né Croazia: Serbia”.  In quest’ultimo sono raccolti documenti, foro e dati statistici per dimostrare la presenza di comunità serbe in quelle zone dove  italiani e croati hanno versato fiumi di inchiostro e di sangue. Se è per questo, più di 10.000 serbi vivono a Trieste, dove c’è anche il bellissimo Tempio serbo-ortodosso della Santissima Trinità e di San Spiridione. Ma ricordandomi che dopo la dissoluzione della Jugoslavia l’obiettivo di Milosevic’ era quello di riconnettere tutte le comunità serbe alla Grande Serbia attraverso operazioni militari, mi permetto di essere un po’ diffidente. Del resto nella provincia ucraina del Dombass la minoranza (?) russofona vorrebbe riunirsi alla Russia e i c.d. Accordi di Minsk stanno al palo. Dovevano sancire il cessate il fuoco, l’autonomia della regione e l’indissolubilità dell’Ucraina, ma per ora è un dialogo tra sordi.  Nella vecchia Europa occidentale abbiamo da tempo imparato a convivere con le minoranze, ma in quella orientale c’è ancora molto da fare.

Dopo Afghanistan anche in Ucraina una crisi umanitaria

Sono passati 6 mesi dalla fuga dei governi occidentali dall’Afghanistan e il risultato è stato tragico per chi confidava in un paese capace di garantire i diritti non solo per i prepotenti e sconfortante per chi aveva come obbiettivo la pacificazione.

Vent’anni anni non sono serviti, nonostante molti miliardi di dollari impegnati, alla realizzazione di una economia e di un sistema sociosanitario autosufficiente, se non quello di aver edificato qualche scuola e delle strutture di pubblico servizio, quando i fondi venivano gestiti dalle strutture militari o dalle organizzazioni umanitarie, senza dover sottostare alle richieste governative.

Un paese da un’economia fragile che si reggeva virtualmente sugli aiuti internazionali che ora vengono sospesi, anzi l’Occidente decide di sanzionare il governo afgano. Una scelta quella delle sanzioni contro i talebani con il solo effetto di aggravare le condizioni di vita della popolazione, senza avere alcuna conseguenza sul tenore di vita degli attuali governanti che per vent’anni hanno ricevuto cospicui finanziamenti per la loro attività terroristica e che ora continueranno a riceverli per la loro attività governativa.

Un servizio sanitario sorretto dall’impegno delle organizzazioni non governative (Emergency, Intersos) che continuano ad operare tra mille difficoltà, mentre le Nazioni Unite si sono fatte carico del pagamento degli stipendi. La maggioranza delle persone hanno difficoltà nel preoccuparsi cibo, mezzi di riscaldamento e gli indumenti per superare il periodo invernale.

L’Unhcr si è attivata per raccogliere fondi da devolvere alla sopravvivenza di migliaia di persone grazie anche alla donazione che si può fare, sino al 6 marzo 2022, inviando un SMS al 45588 con il costo di 2 euro o chiamando lo stesso numero da rete fissa per donare 5 o 10 euro.

Un’emergenza umanitaria che si ripropone con l’aggressione russa all’Ucraina per la quale l’Unhcr si trova affianco all’Unicef ed alla Croce Rossa per la raccolta fondi, iniziata il 27 febbraio con il solo numero solidale – 45525 – che permetterà alle tre organizzazioni, da sempre impegnate attivamente nelle crisi internazionali, di portare un aiuto concreto e di testimoniare la generosa vicinanza dell’Italia.

Un’invasione, quella russa all’Ucraina, dalle mille giustificazioni geopolitiche e fronteggiata dall’Occidente con una serie di sanzioni che come nel caso dell’Afghanistan colpirà la popolazione, mentre chi ha portato dolore e miseria non patirà alcuna sofferenza.

In Afghanistan quale danno possono subire i talebani dopo che per vent’anni sono stati e continuano ad essere foraggiati da organizzazioni e governi? Così Putin potrà continuare ad operare, avendo razziato le ricchezze russe, con il suo tono intimidatorio verso i suoi collaboratori e con il pacato sostegno della Cina.

L’Occidente in Afghanistan è intervenuto in forze, in Ucraina non può intervenire militarmente senza far scoppiare un conflitto internazionale, ma ha promesso aiuti finanziari e militari al governo ucraino che saranno difficili da far pervenire con le vie di comunicazioni in sofferenza.

Due popoli che si pongono verso la vita in diverso spirito ed ecco l’Afghanistan in miseria con dei genitori a vendere un loro rene o le loro figlie, mentre gli ucraini prendono le armi per reagire e difendere la famiglia dall’invasore.

C’è da riflettere su quanto l’Occidente si sente così benevolmente coinvolto con l’Ucraina, ben lontana dalla posizione interventista presa con il conflitto balcanica. L’Occidente si è dimostrato forte con i deboli e diplomatico con i prepotenti, d’altronde la Russia in quegli anni non era così bellicosi e la così detta società civile non era così presente, eppure i Balcani sono più in Europa che l’Ucraina e l’autodeterminazione dei popoli funziona a senso unico, l’unica voce coerente è quella del Papa.

Un’ultima riflessione è da dedicare ai profughi e sulla disparità di trattamento: mentre si erge un muro tra Polonia e Bielorussia, dall’Ucraina i “bianchi” sono agevolati nelle pratiche di accoglienza, ben diverso quello destinato agli altri.

2022 – l’anno che è iniziato

Iniziare l’anno da gennaio è una convenzione: per gli antichi Romani iniziava a marzo (la primavera) e per conto mio ormai il vero capodanno è il primo settembre. Mentre l’assalto a Capitol Hill di un anno fa è un “happening” difficilmente repetibile, per il resto c’è continuità fra il 2021 e il 2022, almeno su certi argomenti: il Covid, la crisi in Ucraina e la problematica gestione dell’immigrazione. Quanto all’Afghanistan, la frettolosa ritirata da Kabul ha lasciato scoperta anche l’informazione, col risultato che ormai se ne parla poco e solo per evidenziare la catastrofe umanitaria e la tetra gestione politica dei talebani. L’energia nel frattempo per varie ragioni ha aumentato le tariffe mettendo a dura prova la capacità industriale prima ancora che la gestione familiare, con ricadute pure sul “futuro verde” preconizzato a Glasgow. Le novità invece riguarderanno da noi l’elezione del Presidente della Repubblica e all’estero gli sviluppi della crisi in Kazakistan, scoppiata all’improvviso ma dall’incerto sviluppo. In realtà il 2021 ha registrato anche avvenimenti che la stampa italiana generalista ha trascurato. Il primo è il c.d. AUKUS, (acronimo inglese delle tre nazioni firmatarie), un patto di sicurezza trilaterale tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, annunciato il 15 settembre 2021 per frenare l’espansione marittima della Cina. L’altro è la sua controparte: lo sviluppo impressionante della flotta da guerra cinese e i progressi nel campo dei missili subsonici, ovvero ordigni che possono viaggiare a cinque volte la velocità del suono (300 mt./sec.) e pertanto sono più difficili da intercettare. Come pure si è evoluto in modo esponenziale il mercato dei droni (più tecnicamente, UAV, unmanned aerial vehicle, non più usati per la sola ricognizione e sorveglianza, ma anche come velivoli d’attacco, ampiamente usati p.es. in Libia o nel Tigrai.

Se la crisi in Libia o AUKUS sono stranamente sentite come remote, l’Ucraina occupa invece  le prime pagine. E’ una storia che viene da lontano: quando trent’anni fa l’Unione Sovietica si dissolse, gli stati che facevano parte del Patto di Varsavia ne approfittarono per smarcarsi dai Russi, ma non era previsto che entrassero nella NATO. Parliamo delle Repubbliche Baltiche, della Polonia, della Cechia, della Slovacchia, della Slovenia. Sono entrati nella NATO per difendersi dall’egemonia della Russia, non certo per invaderla. Il Patto Atlantico prevede che un paese membro che viene attaccato debba essere difeso da tutti gli altri, e questo spiega perché i Russi si oppongano all’ingresso di altri paesi nella NATO: dovrebbero vedersela con tutti gli altri. In fondo la politica russa e poi sovietica ha sempre perseguito gli stessi, pochi obiettivi: avere l’accesso al mare (non il Mediterraneo, ma il Mare del Nord e il Mar Nero), controllare le risorse energetiche dei vicini alleati euroasiatici (Kazakistan, Tagikistan) e garantirsi a occidente una frontiera sicura creando una fascia intermedia a spese dei vicini. La Russia occupa 11 meridiani ma i suoi 148 milioni di abitanti sono concentrati soprattutto a occidente piuttosto che in Siberia, enorme quanto ricca di materie prime dalla cui esportazione dipende gran parte del PIL russo. Anche se è un’arma di pressione politica, non quindi c’è interesse a bloccare i gasdotti e gli oleodotti se non per breve tempo. Gli Americani all’epoca potevano anche puntare sul disarmo bilaterale o creare una forza di difesa europea, ma preferirono agire d’iniziativa, anche se – almeno sulla base dei documenti finora disponibili – non risulta nessun patto formale o informale russo-americano che vietasse l’ampliamento della NATO in Europa: noi siamo abituati a pensare in termini di stati sovrani liberi, anche se la diplomazia suggeriva cautela. Gli Stati Uniti forse ritenevano che URSS e Russia fossero la stessa cosa, sottovalutando la capacità della nazione di sviluppare di nuovo la propria vocazione di potenza internazionale. In questo gioco pesante l’Ucraina si è poi trovata in mezzo, né è ancora chiaro se il cambiamento politico ucraino sia un processo interno alla sua società o se sia stato appoggiato dall’esterno; in realtà una cosa non esclude l’altra, anche se è finita in guerra in Crimea e nel Dombass, una zona russofona formalmente ucraina. Ha tenuto invece il regime in Bielorussia, dove ora si è vista una nuova arma: i profughi. E qui si apre anche una situazione assurda: noi Italiani dobbiamo accogliere tutti perché lo prescrivono le leggi del soccorso in mare, mentre i Polacchi potranno ricevere aiuti europei per la difesa delle frontiere terrestri mentre i profughi muoiono di freddo nelle foreste di confine. Nel frattempo Russia e Bielorussia accusano l’Europa di crudeltà, ma di accogliere una parte di quei profughi organizzati manco a parlarne. Ma neanche l’Unione Europea è riuscita ancora a trasformare riunioni piene di buone intenzioni in una vera ridistribuzione dei flussi migratori non autorizzati. Come diceva Oscar Wilde, il dovere è ciò che ci si aspetta dagli altri.

Ancora due parole sul Kazakistan. Sorvoliamo sulla narrazione degli agenti provocatori infiltrati pagati dagli imperialisti: è roba vecchia. Il vero problema è che i Russi e i loro stretti alleati hanno mandato subito truppe nel paese, ma non potranno mantenerle in modo permanente sul territorio: l’esercito è già schierato lungo le frontiere dell’Ucraina come forma di pressione sui negoziati e gestire due fronti è proibitivo. L’esercito russo è sicuramente grande e ben armato e addestrato, ma il PIL russo è assurdamente inferiore a quello italiano, per cui alimentare per mesi addirittura due fronti è antieconomico. Lo scoppio della crisi Kazaca non era previsto e complica solo la situazione di Putin e del suo gruppo dirigente. Ma qui siamo ancora all’inizio. Può darsi benissimo che a scatenare una guerra sia invece Israele, almeno fin quando gli Iraniani non scriveranno a chiare lettere che non stanno fabbricando armi nucleari e renderanno verificabili le loro parole.

Musica e Islam

Leggo dal New York Times del 16 gennaio 2022 che in Egitto sono stati messi al bando una ventina di giovani musicisti legati tutti al  mahraganat (lett: evento forte), evoluzione della plebea musica shaabi (lett: “del popolo”). E’ un genere che dilaga fra i giovani egiziani e un loro pezzo molto popolare, “la figlia del vicino” si può ascoltare su youtube . Lo stile è un mix tra rap e neomelodico in salsa araba, figlio dei quartieri poveri egiziani e in questo non certo diverso dall’ambiente sociale del nostro rap metropolitano, con cui ha in comune anche la carica aggressiva e la denuncia sociale. Nella canzone in questione due giovani non possono vivere insieme o sposarsi per mancanza di soldi e di lavoro, e il testo dice anche “se mi lasci sono perduto e finirò per bere alcolici e fumare hashish”, frase che ovviamente non può piacere ai tradizionalisti al governo. Ma tenendo presente il reddito e l’età media dei giovani egiziani, la censura è un’arma spuntata e il mahraganat è ormai la lingua con cui i giovani esprimono la loro identità collettiva. Si può vietare ai rappers di esibirsi in concerto, ma tanto la loro musica circola lo stesso. In questo, niente di nuovo sotto il sole.

Le differenze culturali vengono invece fuori analizzando il controverso rapporto dell’Islam con la musica. I talebani hanno di nuovo vietato la musica in pubblico; lo annunciava il loro portavoce Zabihullah Mujahid. «La musica è proibita nell’Islam ma speriamo di poter persuadere le persone a non fare queste cose, invece di fare pressioni». Che significa? I miei fruttaroli egiziani che ogni giorno “sparano” la loro ripetitiva musica –  aggiornata come abbiamo visto al mahraganat – sono incalliti peccatori? Noi che siamo stati educati alla Musica come armonia, ordine e proporzione, come possiamo capire un divieto religioso che nega alla musica la sua essenza di ascesa al Divino? Noi abbiamo letto Dante, che riprende la teologia di Boezio e la filosofia di Platone. Nella religione cristiana la musica ha contribuito dal canto gregoriano in poi alla creazione di una complessa polifonia, con campioni come Palestrina e Bach. E soprattutto, a tutte le età e in ogni momento ascoltiamo musica, ogni tipo di musica, dal classico al rock, dal pop al folk. La musica da sempre è parte della nostra cultura, al punto che non possiamo assolutamente capire una censura che ne vieta la presenza immanente. A questo punto l’unico modo per capirci qualcosa è consultare due fonti in rete in italiano gestite ufficialmente dalla comunità islamica:  https://www.slideshare.net/MuhammadHaqq/la-sentenza-islamica-sulla-musica-e-il-canto e https://islamsecondareligioneinitalia.wordpress.com/2017/05/04/la-musica-e-il-canto-nellislam/ .

Difficile riassumere il contenuto dottrinale esposto nei due siti ufficiali, ma neanche ritengo onesto estrapolarne alcuni brani per dimostrare la debolezza della base ideologica su cui si basa un impianto sostanzialmente moralistico. Invito pertanto chi legge a consultare per intero gli argomenti riportati in quei due siti, gestiti direttamente dalla comunità islamica italiana. Certo, difficile credere che una religione che si presenta come cultura superiore non riesca a integrare la musica come strumento di trascendenza ma ne colga invece soltanto il lato mondano e frivolo o addirittura peccaminoso. E’ come se Nietsche, ne La nascita della tragedia, distingua nell’arte solo il dionisiaco e perda totalmente di vista l’apollineo. Questo non toglie che la cultura islamica abbia tuttora una sua tradizione musicale sia pur peculiare (sono vietati alcuni strumenti, p.es.), quindi è evidente che la questione è controversa e da sempre materia di discussione collettiva.