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SCHWA, ovvero il mondo salvato dagli influencer

Michela Murgia vuole cambiare la lingua con lo “schwa” (in italiano anche: scevà). In sostanza: usando un fonema (e grafema) neutro si evita di dover stabilire il sesso del parlante. Gli anglosassoni stanno ricorrendo al “them”, ma in italiano usare “loro” non ha per ora senso. Una mia amica scrive da anni “saluti a tutt*”, ma è linguaggio scritto, mentre lo schwa ha un suono neutro. La stessa cosa propone Alice Orrù (sarda anche lei; coincidenza?), che si definisce “copywriter e traduttrice con il pallino per il linguaggio inclusivo” nel suo sito/blog: https://www.aliceorru.me/come-usare-lo-schwa/

Lo schwa graficamente si presenta come una “e” corsiva rovesciata ed è una mia vecchia conoscenza, gioia e delizia dell’esame di glottologia all’Università di Roma. Foneticamente serve per esprimere una vocale intermedia, presente in molte lingue o dialetti, ma anche per ricostruire forme ipotetiche delle antiche lingue indoeuropee. Per cui mi ha incuriosito molto questo nuovo uso ideologico di quello che per me era materia di filologia e linguistica applicata alle lingue una volta definite “ariane”.

Il problema è che il cambiamento linguistico non è mai frutto di un’iniziativa personale, ma riflette la comunità dei parlanti e la sua vita sociale. Ricordo anni fa che l’editore Bompiani nel Dizionario di letteratura abolì le “h” che in italiano servono solo per marcare alcuni omofoni (anno/hanno, a/ha, o/ho), accentando invece le vocali (ànno, à, ò), ma rimase un’iniziativa isolata. Del resto neanche l’Accademia riesce a imporre dall’alto scelte magari corrette o comunque logiche se manca il consenso collettivo dei parlanti, come è evidente nell’abuso degli anglicismi o nella dichiarativa espressa con il “come”. Persino dove il controllo accademico è più forte, come in Francia, certe imposizioni linguistiche non sono rispettate fuori degli uffici pubblici. La lingua è un codice frutto di una convenzione sociale, ma proprio per questo deve esistere l’accordo fra le parti, che non sempre è a favore dei parlanti. Inglesi e francesi accettano l’idea che pronuncia e forma scritta siano assurdamente divergenti, invece di obbligare l’Accademia a una doverosa riforma ortografica, anche se gli americani fanno a modo loro: lite invece di light, u invece di you, per non parlare dei fumetti, che sembrano scritti realmente in un’altra lingua. Facciamo comunque alla Murgia e alla Orrù tanti auguri inclusivi e sostenibili.

Videogame Isonzo

Mi è stato segnalato un wargame elettronico che ci riguarda da vicino. Le case di produzione M2H e Blackmill Games, ben note nel settore dei videogame di guerra a livello internazionale, hanno rivelato la prossima uscita del nuovo titolo lavorando con una visione condivisa: come leggiamo su multiplayer.it, hanno iniziato a collaborare per Verdun, il capostipite della serie WW1. Verdun ha dato il via agli scontri ravvicinati con la guerra di trincea, Tannenberg (fronte orientale) ha poi ampliato l’esperienza con la guerra di manovra in Russia. Adesso arriva Isonzo e ci ritroviamo a combattere sia in alta quota sulle Alpi che lungo la valle dell’Isonzo, sulle pietraie del Carso e per le strade di Gorizia. Per ora è disponibile il trailer (1). Sull’Isonzo sono state combattute 12 battaglie (contando Caporetto) una più sanguinosa dell’altra e i libri scritti in argomento ormai riempiono lo scaffale di una biblioteca. Da parte mia tre anni fa ho voluto ripercorrere tutta la valle dell’Isonzo, vedere Caporetto e uscire da Gorizia: volevo vedere sul terreno quanto avevo studiato sulla carta. Mio nonno aveva combattuto anche da quelle parti come artigliere e sulla base dei suoi diari di guerra sono riuscito anche a identificare i luoghi dove stavano in batteria i suoi cannoni. Mio nonno mi  raccontava sempre le sue storie e trovava in me un ascoltatore attento.

Proprio per questo mi lascia perplesso l’Isonzo ridotto a videogame. Almeno guardando il trailer, le ricostruzioni sono accurate e quasi tutte attendibili: armi, uniformi, ambientazioni storiche, luoghi delle battaglie. Dico quasi perché, p.es., i fanti che nel 1917 attaccano il ponte di Solcano (oggi Solkan, in Slovenia) non hanno l’elmetto (come fossimo ancora nel 1915) e in più il numero di reggimento (82° “Torino”) è sballato: quel reparto stava ad Asiago e comunque in Trentino. Lo so, sono finezze, ma per me hanno un senso. Come pure posso discutere sull’aspetto atletico di tutti i soldati, sia italiani che austro-ungarici, mentre basta vedere le foto dell’epoca per leggere nel corpo e negli occhi del soldato quelli del contadino mandato al fronte. Qui invece sembrano tutti Marines, e del resto i movimenti sul terreno, gli agguati, le tattiche sono più o meno in linea con Ghost Recon. Se poi qualche insegnante volesse proporre “Isonzo” a scuola per far capire agli studenti la realtà della prima Guerra Mondiale, sappia che è come insegnare il sesso proiettando un film porno: avrai della realtà un’immagine stereotipata e incompleta. Mio nonno non raccontava tanto dei combattimenti, ma delle lunghe e snervanti attese – giorni, settimane – aspettando che qualcuno attaccasse o desse ordini chiari. Parlava dei commilitoni con cui divideva alloggio, rancio e vita spartana. Retorica a parte, la guerra non può essere ridotta a una serie di combattimenti, altrimenti potrebbe persino risultare attraente.

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Isonzo (Follow-Up to WW1: Verdun) – Official Announcement Trailer

  1. https://www.youtube.com/watch?v=EmGtkGWF668

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Terry a Campo

“Poi devo sentire Terry”. Io e Giulia ci vediamo una o due volte a settimana per buttar giù la sceneggiatura di un film. Siamo proprio all’inizio degli anni ’80, quando tutti volevano fare cinema e in genere ci si riusciva pure: era ancora l’epoca d’oro del Superotto, dei cineclub, dei teatri sperimentali, quindi potevi anche fare il colpaccio e passare al 35mm o almeno al 16mm, oppure semplicemente avere la soddisfazione di aver creato qualcosa con i tuoi amici o col tuo collettivo e poterlo condividere con gli altri. Ma nel profondo, tutti volevamo sfondare; da qui lunghe riunioni in pizzeria, scambi di idee, bozze scritte a mano, ricerca di attori e attrici disposti a recitar gratis. Ingenuamente pensavamo che una volta comprata la pellicola – la spesa più grande – tutto filasse liscio tra prove in bianco o in video. Poca attenzione alle luci e alla qualità del sonoro, anche perché magari qualcuno aveva seguito pure un corso di sceneggiatura, ma non aveva mai usato una cinepresa neanche per girare un filmetto di prima comunione. Io invece ero pratico di proiettori per aver fatto il proiezionista nei cineforum, ma qui poco me ne facevo. Ben confezionati o sgangherati che fossero, di quei filmetti se ne producevano tanti e li proiettavi nei vari cineclub o dove capitava. Una cosa poi ci univa tutti nel profondo: di film ne vedevamo tanti, in sala, in pellicola e per intero. Oggi questo non esiste più.

Nel caso nostro la divisione del lavoro stavolta era buffa: regista e sceneggiatrice del Campo (Campo de’ Fiori), attori e attrici da Trastevere, come se il Tevere marcasse anche la differenza dei ruoli. Semplicemente, a Trastevere c’erano teatri e teatrini e quindi tanti attori; in più  ci viveva all’epoca anche una vivace comunità straniera, complice anche il cambio favorevole di dollaro e marco.

Con Giulia lavoravo bene, o almeno così mi sembrava: lei aveva in attivo una regia teatrale e ci vedevamo due volte a settimana per stendere giù la sceneggiatura, i dialoghi e quant’altro. A casa mia lo spazio era poco, ma c’era comunque un lungo tavolo dove non mancava niente: bozze, penne, tazze di tè, libri, una macchina da scrivere. Già, perché la videoscrittura non era normale come adesso, quindi i tempi per forza si dilatavano. Ormai era da due mesi che io e Giulia lavoravamo sul soggetto iniziale, ma ora la novità: aveva due attori per le mani, uno era anche regista, l’altra era una sua amica oltre che attrice professionista. Era inglese, quindi adatta per certe parti. Già, quindi la sceneggiatura non dico che andava scritta da capo, ma almeno modificata, visto che il soggetto non prevedeva donne inglesi. Ma infilare un personaggio in più non era un grosso problema, mentre calibrare i tempi lo era; da qui lunghe discussioni fino a sera, ma questo era normale.

Quello che non si rivelò normale era l’attore, almeno per i miei gusti: appena presentato, iniziò a parlare di teosofia, di oriente, di ginnastica biodinamica e altre stronzate. Tutto era funzionale al suo personale modo di intendere il teatro, ma non è detto che funzionasse nel cinema. Giulia dal canto suo non era così scema da non leggermi in fronte, ma con quel tipo ci aveva già lavorato e lo avrebbe diretto lei, sapeva come prenderlo. Quanto ne fossi convinto è intuibile: sapevo già che con quello avrei avuto problemi. Quanto a Terry, ancora non la conoscevo e alla fine non l’avrei mai vista. Rimasi sorpreso nel sapere che ormai non era più la ragazza trasgressiva che ricordavo in tutti i film che avevo visto: ormai aveva un figlio (o una figlia?) e non era più la ragazzina perversa che le proponevano di fare, anche se pure nelle foto patinate doveva sempre sembrare un’adolescente. Conoscere in privato una persona simile mi incuriosiva, vederla recitare nel nostro film per amicizia mi sembrava troppo bello per essere vero. E infatti non se ne fece niente, ma per altri motivi: l’attore nel frattempo aveva trovato un ingaggio stagionale e non poteva più starci dietro, mentre Giulia alla fine mi scaricò quando capì che non sapevo gestire una troupe, sia pur ridotta e amatoriale. Qualche mese dopo avrebbe scaricato anche suo marito, ma questi sono affari suoi. Ebbi però il tempo e il modo di vedere una scena di prova girata dall’attore per conto di Giulia: lei e Terry passeggiano mano per mano lungo la banchina del Tevere verso Ponte Sisto e parlano di chissà cosa; lo spezzone è poco più un’inquadratura fissa spacciata per piano-sequenza. Possibile che Terry recitasse così male? Giulia mi spiegò che quando non c’è un regista viene sempre fuori una mezza commedia dell’arte, e che quella scena era solo per provare le inquadrature. Fu l’ultima nostra riunione e Terry non l’avrei mai vista. So da altre fonti che è morta a Milano qualche anno fa.

Il suo nome completo era Therese Ann Savoy.

Torniamo a Galileo

I Longobardi? Per i Leghisti non erano mica barbari, anzi hanno fondato l’Italia e hanno introdotto nuova linfa nella decadente Romanità centralizzata e  hanno pure combattuto i perversi Bizantini. Nel frattempo su FaceBook  discuto con un gruppo di Trentini convinti di essere stati invasi dall’esercito italiano nel 15-18, impresa che evidentemente non era riuscita ai Cacciatori delle Alpi di Garibaldi nel Risorgimento. Oppure leggo le tecniche di ri-creazione della storia della Macedonia del Nord da parte del locale partito di governo, sedicente erede di Alessandro Magno e della civiltà greca intera. Peccato che gli attuali macedoni parlino bulgaro e non greco e che la Macedonia storica neanche coincida con quella attuale (1). Ognuno la storia ormai se la ricuce come crede secondo la propria ideologia ma nessuno risponde a tono, a parte Pascal Bruckner (2), quindi non mi sorprende da parte afroamericana la volontà di obliterare la storia romana e le lingue classiche che ne hanno diffuso la civiltà (o, come direbbero gli inglesi, the cultural heritage). Civiltà fatta però non solo di legioni, conquiste e soprusi, ma anche di Diritto Romano, cultura superiore, architettura e urbanistica, pensiero laico, amministrazione, letteratura. In fondo si accetta di esser governati per secoli dagli altri solo se si ottengono benefici concreti o ideali, e nell’Impero Romano anche un provinciale poteva diventare generale, funzionario o Imperatore. Questo lo scrivo per rimandare al mittente i sensi di colpa dell’uomo bianco ed evitare di coprirsi ancora una volta il capo di cenere davanti a chi pensa di affrontare la storia partendo da premesse morali. Lo storicismo si basa sui documenti, non su una presunta etica, e i documenti devono essere attendibili quanto completi, ma mai censurati da una minoranza, non importa se al potere o all’opposizione, Oggi il paradosso è che a far da sponda alla censura è addirittura la stessa classe dirigente, patologicamente inadeguata a gestire una società complessa, inclusiva a parole ma esclusiva di fatto. E l’esclusione passa anche attraverso la parola, parola negata non alle minoranze, ma alla maggioranza stessa dei parlanti.

Vedo anche che nelle università americane e inglesi stanno riducendo il numero di cattedre destinate agli studi umanistici e alle lingue e letterature classiche. Questo non è però sempre dovuto alle critiche delle minoranze radicali organizzate, ma anche al costo di un corso universitario di livello: 30.000 euro circa all’anno. Onestamente, se avessi un figlio da mandare all’università, oggi non spenderei una cifra simile se non fossi sicuro di vederla ben investita, sperando cioè in una posizione sociale adeguata alla spesa sostenuta. Dopo aver fatto il classico mi iscrissi a Lettere laureandomi in filologia romanza, ma parliamo del 1975 e già le cattedre scolastiche e universitarie non garantivano i livelli di occupazione di una laurea in economia aziendale, per cui il declino delle facoltà umanistiche si deve essenzialmente alla loro scarsa capacità di assicurare posizioni qualificate e ben pagate, specie in una società dove la cultura non conta molto se non nelle sovraintendenze e nelle carriere universitarie. Insegnanti, storici dell’arte, bibliotecari, giornalisti, lavoratori dell’editoria e funzionari di museo sono mal pagati e non hanno il prestigio sociale che meritano, quindi non trovo tanto strano che chi vuol metter su famiglia o fare i soldi scelga una facoltà di economia. Che poi le aziende americane preferiscano gli analisti informatici dotati anche di cultura umanistica fa  piacere, ma questo non toglie che chi aveva studiato latino e greco e letteratura ha dovuto in quel caso completare la sua formazione scientifica con robusti studi di matematica e informatica. Personalmente difendo il greco e il latino e soprattutto quello che descrivono: una civiltà che si è sviluppata nel tempo e nello spazio, un’esperienza completa e come tale piena di luci e ombre, ma da cui è nata comunque la nostra identità. Questa identità è inutile negarla, è più onesto accettarla nella sua complessità. E soprattutto senza facili schemi di tipo morale: l’etica è una cosa, il moralismo è ben altro. Piuttosto, dividere studi classici e studi scientifici è il retaggio di un’impostazione novecentesca forse ancora funzionale, ma che deve tener conto da un lato dell’estensione di scienza e tecnologia negli ultimi cinquant’anni (ma questo vale anche per gli studi storici, a scuola fermi alla guerra del 15-18), ma anche del nuovo rapporto fra umanesimo e scienza, che passa inevitabilmente per la filosofia. Ridefinire di continuo l’Universo in base alle nuove scoperte scientifiche (come Galileo) o accettare l’idea dell’esistenza di Infiniti Mondi (come Giordano Bruno) sono processi mentali che presuppongono un’ampiezza di vedute che va ben oltre la pura esperienza fisica, sia pur basata sul metodo sperimentale galileiano. Galileo è inoltre uno stupendo divulgatore scientifico e la sua prosa si differenzia molto dal barocco egemone ai suoi tempi.


NOTE

  1. In più, neanche è chiara la parentela fra il greco classico e l’antico macedone.
  • Un coupable presque parfait. La construction du bouc émissaire blanc, 2020. ora tradotto in italiano dall’editore Guanda: Un colpevole quasi perfetto. La costruzione del capro espiatorio bianco.

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Santa Maria della Pietà

Sono tornato nel comprensorio di Santa Maria della Pietà dopo anni, ma solo per ottenere la carta d’identità elettronica (CIE) presso l’ufficio del Municipio. Abito in realtà dall’altro capo di Roma, ma la prenotazione meno dilazionata era lì, quindi ho preso il treno urbano come una volta e sono sceso alla stazione di Monte Mario. Ho infatti lavorato per dieci anni nella locale biblioteca circoscrizionale e quel treno era la mia salvezza: era il classico treno dei pendolari, ma da casa impiegavo una mezz’ora, evitando chilometri di traffico dal centro fino alla via Trionfale. All’epoca il Manicomio era stato ufficialmente chiuso grazie alla legge 180 (o legge Basaglia), da poco approvata (13 maggio 1978), mentre io iniziai a lavorare qualche mese più tardi. Per anni la nostra biblioteca lavorò in stretto contatto con gli operatori sanitari e psichiatrici per inserire gli ex-degenti psichiatrici nelle nostre attività: ricordo un memorabile laboratorio di poesia che fu infine sviluppato in un libro stampato coi fondi comunali per la cultura. Ma ricordo anche il quartiere popolato per anni da alcuni degenti sbandati. La legge Basaglia non ha mai detto che la follia non esiste, né prescriveva l’abbandono criminale degli ex-degenti psichiatrici. Diciamo che è stata applicata la prima parte del discorso, ma non la seconda, ma non certo per colpa di Basaglia. Le strutture di sostegno agli ex-degenti alternative alla reclusione non sono mai andate a regime, eppure sono passati più di quarant’anni dalla  legge 180, che comunque finora non è stata adottata da nessuno Stato oltre l’Italia.

Ma torniamo al Comprensorio. All’epoca gli edifici erano conservati in modo uniforme, oggi il restauro e la manutenzione sono lo specchio esatto della parcellizzazione degli spazi. Si poteva programmare un uso civico omogeneo e coerente di questa immensa struttura – magari riunire tutte le cattedre di medicina, psichiatria e psicologia e farne un polo universitario di eccellenza –  e invece gli spazi sono stati divisi per “quote”. Un padiglione al Municipio, un altro a una cooperativa, un altro alla direzione sanitaria dell’ASL, un altro a un’associazione culturale, poi c’è il “Museo della Mente” e poi ancora l’ambulatorio veterinario. Basta entrare nel comprensorio: lo stato di conservazione dei padiglioni (ma quanti sono?) non è omogeneo, la manutenzione dei viali e delle aiuole non si capisce a chi compete ed è ben diversa dal giardino ordinato che ricordavo. Ora sembra tutto un cantiere nella savana e in più la segnaletica è molto carente: fatico non poco per trovare il padiglione giusto, quello dei servizi demografici del Comune (un altro è dedicato al turismo!). E dire che per ben due volte ho fatto il servizio elettorale come presidente di seggio speciale proprio dentro i padiglioni “chiusi”, quelli dove ad esaurimento stavano i degenti gravi non autosufficienti. Esperienza surreale: liste elettorali non aggiornate, elettori dementi. Ma siccome l’incapacità di intendere è giuridica e nessuno si era preso la responsabilità di occuparsene, anche gli psicotici avevano ancora diritto di voto. Ovviamente le operazioni di voto e di scrutinio si svolgevano in modo anomalo. Alcuni degenti li avrei riconosciuti in un film di Silvano Agosti, La seconda ombra (2000), dedicato appunto alla figura di Basaglia. Generosamente, Silvano li scelse per impersonare se stessi come protagonisti. Prima di questa esperienza ero entrato solo un paio di volte nell’area peraltro molto vasta: di progetti per l’ex-manicomio ne furono pensati tanti e ricordo almeno un paio di iniziative teatrali o di animazione. Ricordo anche un laboratorio di danza moderna affidato a un coreografo di origine americana, di cui restavano dopo qualche anno solo le tavole di legno divelte dal pavimento. Molti infissi o suppellettili furono anche saccheggiate dagli operai dei cantieri (le maniglie d’ottone vintage, p.es.), né la successiva presenza di un campo nomadi a pochi metri dal recinto esterno deve aver migliorato la situazione.

Faccio comunque la fila all’esterno del padiglione del Municipio (con il covid, dentro non può stare troppa gente) e devo dire che gli impiegati sono molto gentili. Ma prima di uscire da questo luogo ameno faccio una foto: qualcuno ha fatto un murale con il volto di Alda Merini, e questo era un omaggio doveroso. Peccato che nessuna biblioteca interna sia stata mai dedicata a Dino Campana.