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Art Brut: Perché la vera arte è sempre dove non te l’aspetti

“Il nostro punto di vista sulla questione è che la funzione dell’arte è, sempre e comunque, la stessa, e che non c’è arte nei malati di mente più di quanta non ce ne sia nei dispeptici o nei malati alle ginocchia” Jean Dubuffet, L’Art Brut préféré aux arts culturels, 1949

Tutti dovrebbero andare a vedere la mostra esposta al Mudec in quanto, come sostiene l’assessore alla cultura del Comune di Milano Tommaso Sacchi, “ci sono volte in cui l’arte dimostra tutta la sua forza superando ogni aspettativa come un fiore che spunta dal cemento.” E questo è proprio il caso delle opere degli outsider che Jean Dubuffet ha raccolto e collezionato coniandola come Art Brut.

Nel 1942 in una Francia dilaniata dalla guerra e dalla fame, Jean Dubuffet ha un’epifania: dare dignità a quell’arte che nasce dall’istinto e non è contaminata dalle regole, dalle tecniche e dalle convenzioni che si imparano nelle accademie.

Forse si potrebbe ampliare il concetto non solo alle convenzioni che si apprendono dalle accademie ma dalla società tutta, che condizionano anche la libertà interiore dell’individuo che fatica poi ad essere sé stesso.

Chi sono infatti gli outsider, gli autori dell’Art Brut? Usando le parole di Jean Dubuffet sono vagabondi, veggenti dagli ostinati soliloqui, non brandiscono diplomi bensì stampelle e vincastri; sono gli eroi dell’arte, i santi dell’arte.

Con non poche approssimazioni potremmo definirli autodidatti emarginati dalla società, a volte persone con disturbi mentali, che si rifugiano nel proprio mondo interiore riuscendo ad esprimerlo artisticamente in totale libertà.

Non hanno punti di riferimento comuni, hanno modi inusuali per essere sé stessi nella realtà, trovano percorsi unici per vivere la loro umanità ed interagire con il resto del mondo.

Il loro, a volte, è un vero e proprio ‘altro’ mondo sconosciuto, che galleggia sospeso all’interno di quello più grande: una bolla che li preserva e li salva dalla vera follia che per loro sarebbe il totale adattamento alla società.  Questa bolla, sono riusciti a rappresentarla tramite l’arte.  

Con il termine Art Brut intendiamo opere eseguite da persone immuni da qualsiasi cultura artistica, persone comunque per le quali, contrariamente a quanto vale per gli intellettuali, il mimetismo conta poco o nulla; questi autori pertanto traggono ogni cosa (soggetti, scelta materiali, strumenti, ritmi, stili di scrittura etc.) da dentro se stessi e non da cliché dell’arte classica o dell’arte che va di moda (Jean Dubuffet – L’Art Brut préféré aux arts culturels, 1949).

Ecco, dunque, la mostra si apre in un percorso espositivo che presenta in un primo spazio un corpus di opere e di documenti che mostrano l’intimo legame che univa le opere dell’artista Jean Dubuffet a quelle realizzate ai margini del campo ufficiale dell’arte e da lui raccolte sotto il nome di Art Brut.

L’esposizione prosegue con una selezione di opere realizzate da figure storiche Art Brut come Adolf Wölfli, Aloïse Corbaz, Madge Gill, provenienti dalla collezione di Losanna, a cui seguono quelle di artisti italiani e internazionali che hanno abbracciato il genere in anni più recenti.

Dubuffet contesta l’esistenza di una presunta arte primitiva (di cui egli rifiuta i presupposti razzisti e spregiativi), sfida il pregiudizio di gerarchie cui la storia dell’arte, la psichiatria e l’antropologia sono soggette e si libera delle tipologie prestabilite da queste discipline.

Art Brut non è né un movimento né uno stile, ma un modo individuale di esprimersi che deriva dal guardarsi e dal guardare l’altro, perché come sostiene Jean Dubuffet: Le persone sono molto più belle di quanto pensano. Lunga vita al loro vero volto… Ma bisogna guardare le cose molte volte. E ogni volta cambiare punto di vista, mai lo stesso punto di vista per due volte. Guardale una volta dall’alto, una volta dal basso, una volta di traverso – soprattutto di traverso (Jean Dubuffet – Causette: les gens sont bien plus beaux qu’ils croient, vive leur vraie figure, 1947 Gallimard)


DUBUFFET E L’ART BRUT
L’arte degli outsider

Dal 12 ottobre 2024 al 16 febbraio 2025

MUDEC
via Tortona 56
Milano

A cura di Sarah Lombardi e Anic Zanzi
con il supporto di Baptiste Brun per la sezione Jean Dubuffet


Baj chez Baj – Ridere della follia del mondo!

“L’immaginario dei cieli è il nostro spazio che il tempo scandisce nel divenire della memoria. Stesi sul letto del mondo noi accarezziamo la volta stellare.”

“Ora quello a cui miro con tutti i miei mostri è in qualche modo un attacco alla società dei consumi. Non il mostro fine a sé stesso con tutte le sue decorazioni, ma la satira di quanto esso rappresenta. Violenza- Humor, una che fa da supporto all’ altro; lo humor all’interno della forza bruta.”

(E. Baj)

Il Palazzo Reale di Milano ospita nella Sala delle Cariatidi, a cent’anni esatti dalla sua nascita, le opere di Enrico Baj, artista milanese e uno dei maestri della neoavanguardia italiana e internazionale.

Una retrospettiva studiata per ripercorrere tutti i temi e i soggetti della sua lunga e poliedrica esperienza, in un arco temporale che dai primi anni Cinquanta giunge all’alba del Duemila, attraversando le fasi di ricerca e di adesione dell’artista a diversi movimenti nel tempo.

La mostra inizia con l’Apocalisse (1978 – proseguita come work in progress fino al 2000), dove le sagome mostruose e fantasmagoriche intagliate nel legno e dipinte con acrilici e pastelli rappresentano la sintesi dell’evoluzione del percorso espressivo dell’artista.

Il lavoro di Baj parte di fatto con il Movimento Arte Nucleare (Milano, 1951, con Sergio Dangelo) che vuole abbattere tutti gli «ismi» di una pittura che cade nell’accademismo. Le forme si disintegrano nella ricerca della verità. Poi, “mostrificando” Baj crea gli Ultracorpi -golem con grandi teste issate su corpi barcollanti – che si insinuano anche nelle tele commerciali acquistate in mercatini. Gli Ultracorpi aprono le porte ai Generali, allegoria contro qualsiasi potere esercitato dall’alto. Eccoli, rabbiosi e decisi a fare il loro ingresso in società, sfilano nella Parata a sei, coronati di fasce sul petto, coccarde, stellette e decorazioni al merito. I Generali sono accompagnati dalle Dame adornate di tante passamanerie, frange e fiocchi quante sono le medaglie e galloni dei loro compagni (critica all’ostentazione e alla vacuità dell’apparire).

La denuncia della bestialità giunge alla sua apoteosi ne I Funerali dell’anarchico Pinelli. Il gusto patafisico e la lezione picassiana della Guernica si fondono nelle deformazioni che acuiscono la verità, dando maggiore tensione alla scena facendo apparire l’opera come un vero e proprio manifesto contro il sopruso.

Con Meccano, Baj ci ripete che l’unica via di scampo per sorprendere e abbattere l’automazione ed i robot è l’immaginazione.

Negli Specchi “che inghiottono l’anima di chi li osserva”, critica la trappola mediatica della spersonalizzazione, mentre i Mobili “animano una giostra di creature, frutto dell’universo surrealista e insieme fantascientifico”.

La Mostra, quanto mai attuale, presenta un taglio particolare, in cui la poetica del poliedrico Enrico Baj e i capolavori esposti nelle sale di Palazzo Reale, vengono messi in dialogo con i testi dei grandi artisti del Novecento che lo hanno conosciuto (tra cui André Breton, Italo Calvino e Umberto Eco).

Baj usa, sperimenta, mescola e assembla uno straordinario repertorio di elementi diversi ed eccentrici (meccani, cordoni, acciai, plastiche, passamani, ingranaggi, legni, cinghie, vetri, pizzi, nastri, celluloidi) con una libertà immaginativa che si libra sapiente ed immediata senza ricorso ad intellettualismi.

La sua ispirazione immaginifica, demistificatrice e sarcastica della società però, non perde mai la leggerezza che ha appreso dai due maestri ideali, Alfred Jarry (padre della Patafisica – scienza delle soluzioni immaginarie) e Francois Rabelais: “L’allegria può distruggere il sistema perché, al contrario delle nuove venerate divinità rispondenti ai nomi di Produzione e Consumo, essa è limite, è regola interiore, è contentezza di sé e di cose semplici: non per miseria mentale, ma per saggezza (E. Baj)”.


BAJ. Baj chez Baj
L’universo di Enrico Baj

Dall’8 ottobre 2024 al 9 febbraio 20

Palazzo Reale
Milano

A cura di
Chiara Gatti e Roberta Cerini Baj

Catalogo Electa Editore


Figures du Fou: la mostra che ci interroga sulla follia oggi

La Mostra Figures du Fou. Du Moyen Âge aux romantiques al Louvre si interroga e ci interpella sulla figura del Folle presentandocelo nell’arte e nella cultura occidentale dalla sua comparsa nel Medioevo fino ai romantici. Chi è il Folle?
Anzitutto occorre precisare che con il termine Fou si vuole intendere una varietà di significati che sottendono differenti complessità che vanno dalla malattia mentale allo stolto, dal buffone deforme al giullare.
Ma chi è il Folle e come viene rappresentato?

Ecco, dunque, la premessa da cui si sviluppa l’esposizione in un percorso cronologico dove trecento opere tra sculture, oggetti d’arte, medaglie, miniature, disegni, incisioni, tavole, arazzi (appartenenti al contesto dell’arte nordeuropea – inglese, fiamminga, tedesca e soprattutto francese) esprimono una molteplicità di immagini derivanti dalla percezione e dal ruolo assegnato al Folle dalla cultura dominante nelle varie epoche storiche.
Fu il Medioevo, a dare corpo alla figura eversiva del pazzo che affonda le sue radici nel pensiero religioso, successivamente però la sua immagine fiorì nel mondo secolare per diventare, alla fine di quel periodo, un elemento essenziale della vita sociale urbana.
Nel XIII secolo la nozione di follia era indissolubilmente legata all’amore e alla sua misura o eccesso, prima nell’ambito spirituale, poi in quello terreno. Dalle figure bizzarre, creature grottesche e ibride dei marginalia che sembrano mettere in discussione l’ordine della Creazione del mondo o sdrammatizzare l’importanza del testo che accompagnano, giungiamo alle rappresentazioni derivanti dalla tradizione biblica che fanno del pazzo un personaggio inquietante. L’ insipiens rifiuta Dio (Salmo 52: “Lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste”. Accanto all’insipiens però viene rappresentato anche il pazzo di Dio (la follia agli occhi degli uomini è sapienza agli occhi di Dio – S. Paolo) come San Francesco d’Assisi, che ribalta i valori attribuiti dal suo rango sociale e dalla sua famiglia di origine per avvicinarsi proprio a Lui. Nelle rappresentazioni legate all’amore terreno, invece il pazzo sembra mettere in guardia dai vizi della lussuria facendo da specchio alla follia degli uomini.
Il pazzo diviene “politicizzato” e “socializzato” nel XIV secolo. Il buffone di corte è la figura istituzionalizzata dell’inversione dei valori del potere. Il giullare è colui a cui è permesso prendersi gioco delle debolezze della corte. Viene messa in atto una nuova iconografia e riconosciamo il buffone dai suoi attributi: berretto, mantello rigato o mezzo busto, cappuccio, campanelli. Il pazzo diviene una moda di corte: viene ritratto e addirittura riportato nelle monete con la sua effige come quella di Triboulet, il giullare di René, duca d’Angiò. Applauditi e temuti a corte, vivono un quotidiano comunque segnato dalla solitudine e condannato al disprezzo della società.
Il XV secolo vide la straordinaria espansione della figura del pazzo, legata alle feste di carnevale e agli scritti di Brant ed Erasmo. Associato alla critica sociale, il pazzo funge da veicolo delle idee più sovversive. Ha un ruolo anche nei tormenti della Riforma: in questo contesto il pazzo è l’altro (cattolico o protestante). A cavallo tra Medioevo e Rinascimento, la sua figura divenne onnipresente, come dimostrano l’arte di Bosch e poi quella di Bruegel dove diventa testimone della follia degli uomini.
La figura del Folle comincia ad essere meno presente a partire dal Seicento, mentre nel Settecento, il secolo dei Lumi, «con il trionfo della ragione» tende a sparire ma le prime ondate del romanticismo, esaltando sentimenti e passioni, ispirano alcuni artisti, come Johann Heinrich Füssli, che propongono opere segnate dalla bizzarria e dalla paura. Questi artisti si affidano a riferimenti letterari o alla propria esperienza di dolore psicologico, come nel caso degli autoritratti dello scultore Messerschmitt (1736-1783).
All’alba dell’Ottocento, il Folle è «resuscitato» dalle opere di Gustave Courbet, Jan Mateyko e di Francisco Goya, con «Il cortile del manicomio» (1794) dove “il volto del folle finisce con l’identificarsi con quello dell’artista, in lotta con la sua angoscia e con la sua stessa follia”. Questa opera fu successivamente reinterpretata da Vincent Van Gogh.
Nella prima metà dell’Ottocento, con la figura del “pazzo” ci si riferisce soprattutto al malato mentale recluso in manicomio; tale visione pian piano si trasformerà: la follia non verrà considerata esclusivamente come totale irragionevolezza ma indicherà comunque figure ai margini della società come i mendicanti, i delinquenti, i dissoluti.
Chi è stato dunque il Folle? In ogni epoca il Folle è stato segno di inciampo, di ribaltamento dei valori dominanti e per questo fonte di attrazione e repulsione nel percepito comune. Il Folle, dunque, è stato destinato ad essere nella sostanza emarginato, stigmatizzato dove il rispetto della norma è il segno determinante dell’accettabilità.
Chi sarebbe il Folle oggi? Sotto la spinta della globalizzazione e dell’omologazione, forse il Folle sarebbe colui o colei che riuscisse a mantenersi individuo mantenendo la speranza di una collettività che ritorni ad essere umana.


Figures du Fou
Du Moyen Âge aux Romantiques

Dal 16 ottobre 2024 al 3 febbraio 2025

Musée du Louvre
Rue de Rivoli, Paris 1e
Parigi (Francia)

A cura di Élisabeth Antoine-König e Pierre-Yves Le Pogam


Alla ricerca degli artisti perduti 13

Winslow Homer (1836 –1910)

Fu pittore statunitense di stile naturalista improntato ad un vigoroso realismo che non tradì mai, nemmeno quando frequentò a Parigi gli impressionisti francesi con cui pure condivise l’attenzione e l’amore per la realtà.

Fu celebre illustratore della guerra civile americana che da buon cronista vide e sperimentò da vicino. Visse per due anni in Inghilterra, tornando poi in patria: fu il periodo dei paesaggi marini, dei pescatori solitari e le loro difficoltà di eroica sopravvivenza in lotta con gli elementi naturali.

Nel dipinto qui proposto intitolato ” Alla finestra” Homer vive un momento di delicato intimismo nel tepore della luce campestre che modella una figura adolescenziale, in una pausa di malinconica riflessione.

Piet Mondrian (1872 – 1944)

Un artista dalle potenzialità straordinarie, un autentico studioso della materia figurativa nelle sue dinamiche e potenzialità, purtroppo, dico purtroppo, (e me ne assumo la responsabilità critica) completamente sacrificatosi poi sull’altare della rigida se pur significativa concettualità simbolica e filosofica nell’indagare i moventi essenziali della struttura elementare, rinunciando alla bellezza e alla qualità estetica dei suoi dipinti precedenti alla sua “conversione” astratta; dipinti pregevoli del resto, summa di quel simbolismo nordico (Munch), ma ancor più innervato di quella malinconica riflessione nell’evocare atmosfere di luci, nebbie e cromie, nella stupefazione quasi mistica di una natura trasfigurata dalla contemplazione amorosa dell’artista.

Egon Schiele (1890 – 1918)

Eppure c’è qualcosa nella pittura di Schiele, sicuramente prepotente originale e intensa, che sento come sgradevole; è la frigidità di uno scienziato dell’anima nel rappresentare l’incombere della morte in ogni cosa, o ancor più della spietata miseria della carne e della sua eredità di dolore e di pena.

Quasi sento il metallo tagliente di un bisturi e la freddezza di un anatomista. Egli ebbe l’amara capacità di conoscere e penetrare, ancor giovane ( morirà a 28 anni), il  necessario destino della vita e dei suoi slanci, nel livido apparire del suo disperato nichilismo.

Giulio Ruffini (1921 – 2011)

Artista romagnolo di solido impianto verista, con spatolate e drastici tagli che ricordano Guttuso e l’impegno sociale di Carlo Levi; senonché c’è in Ruffini una sincera attenzione per lo spazio e le forme che ha radici ottocentesche, forse nell’aspro Courbet.

Usa la macchia ma rifiuta la solarità degli impressionisti, in certe figure tratteggia la fissità ieratica di Gauguin, ma in sostanza senza eroismi e drammi descrive il suo mondo, rurale e provinciale, un piccolo mondo di affetti e tradizioni della sua gente emiliana.

Provinciale sì, ma con modi e soluzioni di temperamento dichiaratamente espressionista, nell’alternare là dove indugia nell’intimismo, e altre volte nel risolvere con sintesi sicura il cuore di un’umanità ferita.

Cattelan e la banana

Va bene. L’arte non deve necessariamente essere espressione di elevazione estetica, bellezza formale e grazia. Qui nessuno vuole tornare al Neoclassicismo o all’età d’oro di Fidia. D’accordo. Ma prendiamo per esempio l’Espressionismo ( Schiele, Kokoscha, Munch ecc.). Questi artisti esprimono una dimensione fortemente critica, financo dolorosa o addirittura sgradevole (Francis Bacon), se non in totale dissoluzione (Pollock) di una società evidentemente in crisi, violenta, opprimente e aberrante (Otto Dix, Grosz,Soutine ecc.)…. Ma ,vivaddio! Anche l’artista più rivoluzionario “scandaloso” e dirompente (le “Demoiselles d’Avignon” picassiane) determina comunque un linguaggio,una sua estetica ,una sua qualità formale, astratta o figurativa che sia, un suo codice cespressivo, per cui possiamo sempre parlare di gesto creativo, di arte.

Siamo sicuri che la banana o i “cessi” di Cattelan, o altri divulgatori simili, siano le uniche proposte capaci di scuotere e far riflettere e riconsiderare gli eventi negativi di una società smarrita in cerca di risposte?

Mi permetto di restare nella convinzione che un artista, nel vero che sia, può determinare qualsiasi linguaggio di rottura o rivoluzionaria sperimentazione, sì, ma lavorando ed elaborando una sua categoria formale.

Credo fermamente che il cosiddetto “mercato” internazionale che asseconda (da decenni!) le performance in questione, non solo non serve a dirimere e chiarificare necessità di denuncia e tantomeno a proporre nuove devianze estetiche, ma ancor più crei alibi e confusione in un mondo dell’arte già di sé bastante confuso e disorientato.

Tranquillo Cremona (1837 – 187)

Il languore non plus ultra dello sfumato nell’ultimo strascico del Romanticismo; e la passione amorosa che si stempera nel calore delle guance malate d’una febbre cromatica.

Ardori, passioni, svenimenti e abbandoni di provinciali Bovary di un pittore dedito alla dissipazione malinconica dell’ultimo “scapigliato” che chiude coerentemente con la morte da saturnismo ( spalmava il piombo dei suoi colori con le dita sulla tela).

Non so perché, associo da sempre la pittura di Cremona alla grigia dissolvenza borghese nella penombra del salotto “buono” tutto un secolo di slanci ed eroiche follie, di bandiere al vento, di “..chi per la patria muor..”, e santi condottieri!

Il Surrealismo come esperienza collettiva

Dopo 22 anni dall’ultima esposizione sul Movimento Surrealista, il Centre Pompidou ritorna a proporcelo in occasione del suo centenario, ampliandone la visione, in termini geografici e contenuto, includendo artiste che sono state parte integrante del movimento d’avanguardia.
Una mostra globale, femminile e internazionale, che riunisce opere iconiche articolate in un percorso, crono-tematico che tocca i temi del sogno, inteso come esplorazione l’inconscio; delle rappresentazioni ibride o composite (come l’immagine della Chimera o l’“Ombrello e macchina da cucire” dello scrittore Isidore Ducasse), nutrimento dell‘immaginario surrealista; della foresta come teatro della magia e della meraviglia, metafora del labirinto e del viaggio iniziatico; della follia intesa come totale libertà dell’essere e potere fantasioso, usato per ritornare all’incontro con quella parte di se che la società mette a tacere.
La mostra propone, in un allestimento totalmente immersivo per il visitatore, personaggi della letteratura (come Alice di Lewis Carrol), della tradizione popolare (come la fata Melusina), e dei miti (come le chimere omeriche). Tra le opere esposte: «Il cervello del bambino» (1914) di Giorgio de Chirico, prestato dal Moderna Museet di Stoccolma, «La Grande Foresta» (1927) di Max Ernst dal Kunstmuseum di Basilea, «Il grande masturbatore» (1929) di Salvador Dalí dal Reina Sofía di Madrid e il «Cane che abbaia alla luna» (1952) di Joan Miró dal Philadelphia Museum of Art. Nel percorso si incontrano anche i lavori delle surrealiste Leonora Carrington, Remedios Varo, Ithell Colquhoun, Dora Maar, Dorothea Tanning, oltre che del giapponese Tatsuo Ikeda e del messicano Rufino Tamayo.
Il Surrealismo è quanto mai attuale, come afferma la co-curatrice della mostra Marie Sarré, insieme a Didier Ottinger, vicedirettore del museo: “È stato l’unico movimento d’avanguardia a prendere le distanze dal Modernismo in una fase molto precoce. Contro l’industrializzazione, il macchinismo e il progresso, i surrealisti intuirono che era necessario inventare un nuovo rapporto con il mondo, più in armonia con la natura e il cosmo. Il Surrealismo non può essere ridotto a un’estetica o a un formalismo: è soprattutto una filosofia, un’esperienza collettiva che non si riduce a dogmi estetici, ma si costruisce intorno a valori condivisi. Questo è anche ciò che ne garantisce l’eccezionale longevità e vitalità, poiché si arricchisce continuamente di nuovi contributi. Nacque nel 1924 come reazione alle atrocità della Prima guerra mondiale e si affermò in tutti i Paesi come reazione all’ascesa del fascismo. Anche oggi, con il riemergere dei nazionalismi, gli artisti trovano rifugio nel «meraviglioso» surrealista.”
Se dunque al Louvre troviamo l’esposizione “Figures du Fou. Du Moyen Âge aux” che ci interroga sulla figura del Folle domandandoci implicitamente chi oggi verrebbe stigmatizzato come tale, nel Centre Pompidou la rivoluzione Surrealista ci fa riflettere su quali valori può attingere la collettività nella nostra epoca postmoderna per recuperare e condividere una narrazione ricca e generativa di nuovi legami con la realtà, giacché il linguaggio comune sembra non aprirsi più alla vita.
E oggi come allora, il grido di sofferenza espresso nel testo de “I Campi Magnetici” appare un punto di partenza per una possibile rinascita.

“… A cosa servono questi grandi e fragili entusiasmi, questi sussulti di gioia inariditi? Noi no, non sappiamo altro che le stelle morte; guardiamo i volti, e sospiriamo dei piaceri… La nostra bocca è più secca delle pagine perdute; i nostri occhi si girano senza scopo, senza speranza…Tutti ridiamo, cantiamo, ma nessuno sente più battere il cuore…Quindi dobbiamo soffocare ancora per vivere questi minuti piatti, questi secoli a brandelli.” (André Breton, Philippe Soupault, Les Champs magnétiques, 1919).


Le surréalisme – Surrealismo
Dal 4 settembre 2024 al 13 gennaio 2025

Centre Pompidou
Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou
75191 Paris Cedex 04
Parigi

A cura di Didier Ottinger e Marie Sarré

Informazioni:
Telefono: +33 (0)1 44 78 12 33
Email: contact@contact-centrepompidou.fr