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Il Candelabro della memoria

L’oggetto in questione è la Menorà, un grande candelabro d’oro a sette bracci che si trovava nel Tempio di Gerusalemme fino alla sua distruzione nel 70 d.C.. La sua storia, documentata, è esigua, la sua leggenda vasta e articolata; si inizia con l’Antico Testamento allorché Dio comandò a Mosè di far fondere un candelabro a sette bracci di oro purissimo e pesante circa 35 chili. Il candelabro seguì con l’Arca dell’Alleanza le peregrinazioni del popolo ebraico finché fu ospitato nel grande Tempio eretto da Salomone intorno al 950 a.C.; lì rimase per quattro secoli fino alla distruzione dell’ edificio sacro da parte dei Babilonesi di Nabucodonosor e la deportazione degli Ebrei. Anni dopo questi ultimi furono liberati dal Persiano Ciro e tornarono a ricostruire Gerusalemme ed il Secondo Tempio dove fu di nuovo collocata la Menorà, forse l’antico o più probabilmente un nuovo cadelabro dato che le vaghe  descrizioni bibliche non concordano.

Il grande oggetto liturgico sopravvisse nei secoli seguenti in cui in Palestina si alternarono vari dominatori fino alla rivolta dei Maccabei che ripristinarono la libertà di Israele. Poi sopraggiunsero i Romani e durante la grande rivolta del 70 d.C. Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano, assediò e prese Gerusalemme, il Tempio fu incendiato e l’arredo sacro predato. In una parete interna dell’Arco di Tito, al Foro Romano, è rappresentato il suo trionfo con un corteo di soldati romani che trasportano la Menorà e le trombe d’argento del Tempio; il candelabro fu esposto nel Foro della Pace costruito da Vespasiano e lì finisce la storia e comincia la leggenda.

Non si sa che fine abbia fatto il prezioso candelabro: potrebbe essere stato asportato durante il sacco di Roma dei Visigoti di Alarico del 410 d.C. o in quello dei Vandali di Genserico del 455; vaghi accenni su un tesoro imperiale romano trasferito in Africa e lì recuperato dai Bizantini e portato a Costantinopoli appaiono negli scritti dello storico Procopio da Cesarea ma non sono tali da essere plausibili. Della fine del ‘200 è una grande iscrizione, su mosaico, dell’epoca di Papa Niccolò IV nella Basilica di San Giovanni in Laterano; su di essa sono elencate le reliquie che sarebbero state contenute in un sotterraneo della chiesa e tra esse è indicato un oggetto identificabile con un candelabro ma accurati accertamenti non hanno dato alcun risultato.

Altre leggende, assolutamente improbabili, sostengono che la Menorà sia ancora giacente nell’alveo del Tevere, altre che sia celato nei sotterranei del Vaticano. Anche se scomparso da tanti secoli il grande candelabro d’oro ha lasciato la sua impronta nella memoria collettiva in particolare del popolo ebraico, sin dall’inizio della diaspora l’immagine è diventata un simbolo di appartenenza e di identità degli israeliti, forse fu l’esposizione nel Foro della Pace a far maturare l’idea di considerare quell’oggetto rubato agli Ebrei come il simbolo della loro unità ed identità pur nella tragedia della diaspora. Il 16 maggio 1948 quando fu proclamata la costituzione dello Stato d’Israele la Menorà fu scelta come simbolo del nuovo stato che raccoglieva, dopo due millenni, parte degli ebrei sparsi per il mondo.

Per ricordare l’evento e per evidenziare gli ottimi rapporti intercorrenti tra la Chiesa Cattolica e la Comunità Ebraica Romana i Musei Vaticani ed il Museo Ebraico di Roma hanno insieme organizzato una mostra che attraverso tre nuclei, il Culto,la Storia, il Mito, ripercorre le millenarie vicende del grande candelabro d’oro. L’esposizione che ospita 130 reperti di vario genere è visitabile presso due sedi, la gran parte delle opere è presso il Braccio di Carlo Magno, accessibile da Piazza San Pietro, le altre sono presso il Museo Ebraico situato nei sotterranei della Sinagoga.

Nel Braccio l’esposizione si svolge come un grande rotolo in cui cronologicamente e per temi sono esposte numerose opere d’arte d’ogni genere sia di provenienza cristiana che ebraica. Si comincia con la Pietra di Magdala, databile a cavallo dell’inizio dell’Era Volgare, trovata recentemente nelle rovine di una antica sinagoga e riportante l’immagine del candelabro, seguono frammenti di marmo, lucerne e lastre tombali con il simbolo stilizzato della Menorà.

Si passa poi al medioevo quando spesso in molte chiese cristiane apparvero candelabri ispirati alla Menorà, in mostra sono esposte bellissime opere quali due pezzi in bronzo, di metà’400, attribuiti a Maso di Bartolomeo, ora nella Cattedrale di Pistoia, e due grandi candelabri d’argento, in stile barocco, provenienti da Majorca. Seguono libri manoscritti, ebraici e cristiani, con eleganti miniature riproducenti la Menorà e tra loro la celebre Bibbia, di San Paolo fuori le Mura, risalente alla fine del IX secolo e donata al Pontefice dell’epoca dall’Imperatore Carlo il Calvo. Sono esposti vari dipinti, due dell’inizio ‘500, del Venusti e di Giulio Romano, rappresentano episodi del Vecchio Testamento con immagini del Tempio, quadri barocchi, tra cui uno del Poussin, rievocano eventi biblici con sullo sfondo il candelabro sacro e seguono anche dipinti dei secoli successivi. Di grande interesse un pannello settecentesco, opera dell’Opificio Pietre Dure di Firenze, composto di pietre colorate che illustrano un episodio veterotestamentario.

Conclude la mostra il bozzetto ultimo, firmato dal primo ministro del 1948, David Ben Gurion, dello stemma dello Stato d’Israele.

Solo dieci le opere esposte al Museo Ebraico, mescolate ai numerosi ed interessanti reperti del museo; tra loro lapidi funerarie provenienti dalle catacombe ebraiche, un paio di dipinti barocchi ed un calco della lastra, sopra citata, di San Giovanni in Laterano con indicazione della Menorà. In conclusione una mostra interessante, anche se è assente il soggetto principale, e ricca di reperti anche poco conosciuti e di suggestioni.

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La Menorà. Culto, Storia e Mito
dal 16 maggio al 23 luglio 2017

Braccio Carlo Magno
piazza San Pietro

Museo Ebraico
via Catalana

Roma

orario:
Braccio Carlo Magno
lunedì, martedì, giovedì, sabato 10/18 – mercoledì 13/18
domenica chiuso

Museo Ebraico
da domenica a giovedì 10/18 venerdì 10/16
sabato chiuso

ingresso:
biglietto unico – Euro 7,00

Catalogo:
SKIRA

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Creature Digitali

Mostre ArtFutura Roma Ex Dogana 2017 2L’uso di strumenti tecnologici insieme alle loro capacità scientifiche e artistiche crea un codice di lettura nuovo per il futuro: materializzano l’immaginario, costruiscono nuove forme, materie e superfici come nuove opere e strumenti.

Dall’inizio del XXI secolo ci stiamo progressivamente ed inconsapevolmente mutando in “creature digitali”. Il nostro lavoro, le nostre azioni, le nostre amicizie, le nostre emozioni, tutto appartiene sempre di più all’universo digitale.

L’elemento più affascinante della tecnologia digitale é quello di essere in continuo divenire. Il progresso della tecnologia determinerà in modo esponenziale le capacità umane di creare e di distruggere, di avere successo come di fallire, il paradiso e l’inferno. L’unico elemento che potrà determinare il nostro futuro tecnologico é la nostra umanità senza la quale tutto potrà perdere di significato.

Questi artisti scienziati ci aprono le porte di un nuovo mondo digitale dove risulta evidente che tutto, come le loro opere, sarà in continua evoluzione. La loro arte rappresenta l’evoluzione di un mondo dove tutto sarà diverso, come anche i musei e gli spazi espositivi sempre più simili a luoghi dove poter usare l’immaginazione, dove poter visualizzare i nostri pensieri e i nostri sogni diventando parte attiva dell’allestimento come metafora della nostra esistenza.

Sculture cinetiche che creano olografie galleggianti, campi magnetici che generano forme di ferrofluido dinamiche, esperienze audiovisive immersive in cui sperimentare proiezioni virtuali sconosciute. Sono queste alcune delle installazioni presentate nella mostra ArtFutura, presso i nuovi spazi espositivi dell’Ex Dogana di Roma.

Per questa esibizione italiana, il curatore Montxo Algora ha riunito quegli artisti che hanno percorso in parallelo il cammino tra arte e scienza, incrociandosi su traiettorie nuove. Una opzione, suggerita anche dal contesto, dalla natura del contenitore Ex Dogana, inteso come fabbrica del futuro.

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ArtFutura
CREATURE DIGITALI
Dal 29 aprile al 10 settembre 2017

Mostre ArtFutura Roma Ex Dogana 2017 logoEx Dogana
via dello Scalo di San Lorenzo, 10
Roma

Curatore: Montxo Algora
Artisti: Paul Friedlander (UK), Esteban Diácono (Argentina), Can Buyukberber (Turchia/USA), Sachiko Kodama (Giappone), Chico MacMurtrie (USA) e il collettivo Universal Everything (UK)

Informazioni:
tel. 892.234
www.vivaticket.it

Prenotazioni
gruppi e scuole:
email: gruppi@bestunion.com / tel. 892.234
Informazioni online:
www.artfuturaroma.it –

La mostra, prodotta da MondoMostre Skira, è curata da Montxo Algora direttore dell’omonimo Festival internazionale “ArtFutura”.

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Le trame dei Diritti

Mostre Roma Memoria tessile sul filo dei dirittiLa mostra è tessuta della Memoria delle tragedie che hanno coinvolto i lavoratori del settore tessile nel mondo e sulle battaglie per i diritti conquistati e, in larga parte, non ancora riconosciuti.

La cultura ancestrale della tessitura e i violenti eventi che ne hanno caratterizzato la storia, dall’antichità ai nostri giorni, attraverso le opere di fiber art di artisti contemporanei

Gli appunti, le tracce tessili di Cecila De Paolis, Jacopo Lo Faro, Cristina Mariani, Lucia Pagliuca, Diana Poidimani, Lydia Predominato, Giulia Ripandelli, Grazia Santi, Laura Sassi, Patrizia Trevisi si ispirano a fatti di cronaca che cominciano in un lontano passato, come il Tumulto dei Ciompi – i più umili salariati dell’Arte della lana – scoppiato a Firenze il 20 luglio 1378; le rivolte di Lione nei setifici; gli scioperi di Torino per riduzione dell’orario di lavoro, migliori condizioni lavorative e aumenti salariali; l’incendio del 25 marzo 1911 della fabbrica Triangle di New York che causa la morte di 146 persone, tragedia che fa parte degli eventi storici ricordati in occasione della Giornata Internazionale della Donna.

Purtroppo l’elenco è ancora lungo: la tragedia di Savar a Dacca nel novembre del 2012 dove, a causa di un incendio, sono morti 100 operai di una fabbrica tessile e, a settembre 2012, altri due incendi, a Karachi e a Lahore in Pakistan, hanno causato 315 vittime e più di 250 feriti. Anche la Thailandia ha pianto le sue vittime: nel 1993 un incendio ha ucciso 188 lavoratori della Kader Toy Factory di Bangkok e molti, ancora oggi, continuano a morire al ritmo del lavoro.

Memoria tessile: sul filo dei diritti vuole ricordare e raccontare tutti questi eventi in un ideale passaggio dalla tessitura primaria alla fiber art, cercando di cogliere il nesso tra la memoria storica del “fare tessile” e il presente. Creare fiber art vuol dire prendere in considerazione l’intreccio base, considerarlo come radice primaria da cui partire per renderlo poi contemporaneo attraverso forme e materiali attuali.

Nelle opere di fiber art esposte si ritrovano notazioni, racconti salvati, ricordi, immagini, luoghi, numeri, lo scorrere del tempo, frammenti tessili, cuciture, abiti scultura, pannelli e fili, trame, ferro, cotone, lane trattate e ripetute; ma aleggiano anche i canti delle leggende popolari e i canti di protesta delle filatrici e delle ricamatrici al ritmo del gesto tessile tramandato da mano a mani.

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MEMORIA TESSILE: SUL FILO DEI DIRITTI
Dal 4 maggio al 30 giugno 2017

Mostre Roma Memoria tessile sul filo dei diritti grazia santi_particolareCasa della Memoria e della Storia
via San Francesco di Sales, 5
Roma

Informazione:
tel. 060608 – 06/6876543

Orario:
dal lunedì al venerdì, dalle 9.30 alle 20.00

Ingresso libero

a cura di Bianca Cimiotta Lami
con il coordinamento artistico di Lydia Predominato

Artisti: Cecila De Paolis, Jacopo Lo Faro, Cristina Mariani, Lucia Pagliuca, Diana Poidimani, Lydia Predominato, Giulia Ripandelli, Grazia Santi, Laura Sassi, Patrizia Trevisi

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La Belle Epoque al Vittoriano

Mostre Boldini - Franca Florio aLa pittura sontuosa ed elegante, le linee sinuose, le dolci cromie di Giovanni Boldini sono in mostra al Vittoriano; sono esposte circa 130 opere provenienti da almeno 30 musei italiani ed esteri e da altrettante collezioni private; sono in mostra anche una trentina di dipinti di artisti suoi contemporanei per un utile ed interessante confronto. E’ una rivisitazione dell’arte del pittore alla sua epoca di grande fama ed poi purtroppo un po’ in ombra e che la mostra si incarica di riabilitare completamente. Il Boldini nacque a Ferrara nel 1842 e fece il suo apprendistato con il padre, pittore di tipo accademico, fu poi a Firenze a contatto con l’ambiente dei Macchiaioli di cui per qualche tempo seguì lo stile. Il salto di qualità lo fece trasferendosi a Londra dove acquistò larga notorietà come ritrattista dell’alta società.

Nel 1871 si spostò a Parigi, pur con frequenti viaggi in Europa, frequentando gli Impressionisti ed appoggiandosi alla Maison Goupil dell’omonimo importante mercante d’arte; attraverso la Contessa Gabrielle de Rasty, che divenne sua amante, entrò in contatto con la nobiltà e l’alta borghesia parigina. Assieme ai suoi compatrioti De Nittis e Zandomeneghi, un trio noto come “les Italiens de Paris” si specializzò nella ritrattistica effigiando i maggiori esponenti della vita mondana e della cultura internazionale. Si distinse per una eccezionale abilità tecnica, per l’uso accattivante del colore, per le linee dolci, caratteristiche che fecero di lui un maestro nell’interpretazione dell’eleganza femminile e dei costumi dell’alta società del suo tempo. Per molti anni fu uno dei pittori più richiesti dai committenti, apprezzato e corteggiato dal bel mondo fino a diventare uno dei simboli della Belle Epoque.

La Grande Guerra e gli epocali mutamenti sociali ed economici intervenuti negli anni Venti del ‘900 spazzarono via il suo mondo di grazia, di stile, di eleganza e misero in ombra il Boldini che morì a Parigi, quasi novantenne, nel 1932.

La mostra si articola in quattro sezioni: la prima, “la luce nuova della macchia” (1864-1870), riguarda il suo primo periodo fiorentino e i rapporti con i Macchiaioli, la seconda, “La Maison Goupil tra chic e impressione” (1871-1878), tratta dei suoi esordi parigini e dei suoi contatti con gli Impressionisti, la terza, “la ricerca dell’attimo fuggente” (1879-1890), è relativa al suo periodo di maggior fama ,alla quarta infine, “Il ritratto della Belle Epoque” (1892-1924), appartengono gli anni dei grandi ritratti, tra cui quello di Giuseppe Verdi, con un ripetersi di immagini sensuali, colorate, piene di vita. Le donne sono bellissime, con lunghi colli flessuosi, con forme generose, gli uomini seri, austeri, con un’eleganza semplice e severa. I suoi ultimi dipinti, di poco anteriori alla guerra. Risentono di un qualche influsso delle nuove mode, quali il futurismo di Boccioni, quasi un tentativo di “adeguarsi” con colori stridenti ed ampie linee di movimento. Ma ormai l’arte del Boldini era al tramonto, la Storia aveva distrutto il suo mondo, le Avanguardie artistiche demolivano la figura, annullavano il disegno, scomponevano il colore.

La mostra è un susseguirsi di immagini piacevoli e, soprattutto nelle sezioni terza e quarta, una sfilata di ritratti femminili di grande fascino. Tra loro spicca quello della Baronessa Franca Florio che ha una storia interessante; fu dipinto nel 1901 ma non fu apprezzato da Don Ignazio che trovò il ritratto troppo scollato e provocatorio e sostituito nel 1903 da un altro successivamente sparito.

Il primo, conservato nello studio del Boldini, fu acquistato anni dopo da Donna Franca ma nel 1928, a seguito della bancarotta dei Florio, fu venduto e dopo diversi passaggi è finito nella raccolta Bellavista Caltagirone a cui è stato confiscato a seguito di una procedura giudiziaria; è eccezionalmente esposto in mostra e poi andrà in asta. Accanto ai dipinti sono esposte una quarantina di lettere scritte dal Boldini a Telemaco Signorini nel 1889 nella sua qualità di presidente della commissione d’arte per la sezione italiana dell’Esposizione Universale di Parigi del 1889.

La mostra è stata organizzata da ARTHEMISIA Group e dall’Assessorato alla Crescita Culturale del Comune di Roma.
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GIOVANNI BOLDINI
Dal 3 marzo al 16 luglio 2017

Complesso del Vittoriano
Roma

Orario:
da lunedì a giovedì 9,30 – 19,30
venerdì e sabato 9,30 – 22,00
domenica 9,30 -20,30
la biglietteria chiude un’ora prima

Catalogo
SKIRA

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Claudia Bellocchi: In bilico tra sogno e tenebre

Nel presentarvi la mostra Inquieta Imago, inaugurata la scorso 19 febbraio nel piccolo e accogliente teatro di Villa Pamphilj, ho scelto di incominciare da qualche citazione d’autore sulla follia.

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Se non ricordi che l’amore t’abbia mai fatto commettere la più piccola follia, allora non hai amato. (William Shakespeare)

Le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia. (Erasmo da Rotterdam)

Tutti siamo costretti, per rendere sopportabile la realtà, a tenere viva in noi qualche piccola follia. (Marcel Proust)

Alcune persone non impazziscono mai. Che vite davvero orribili devono condurre. (Charles Bukowski)

Ci sono pochi grandi spiriti che non abbiano un grano di follia.  (Seneca)

Gli uomini mi hanno chiamato pazzo; ma la questione non è ancora risolta, se la follia sia o non sia l’intelligenza più alta.  (Edgar Allan Poe)

E’ evidente che per provare grandi emozioni, fare grandi cose possibilmente originali, diverse, addirittura per cambiare il mondo, ci vuole un certo grado di follia, di irregolarità, oserei dire di sana trasgressione. Sana perché l’impulso interiore ad andare oltre, quella certezza irrazionale che è la cosa giusta e che non rischiare equivarrebbe al suicidio di una possibilità che è appena nata, l’abbiamo provata tutti e non ce ne siamo pentiti a distanza di tempo. Anzi, spesso sono i momenti in cui ci siamo sentiti più vivi. L’esempio naturale è quando si perde la testa per una persona, l’innamoramento. Come diceva anche Shakespeare, come ci si può innamorare senza essere un po’ pazzi, senza rinunciare al controllo della ragione che, se alla guida o durante un colloquio di lavoro è molto utile, in tale circostanza sarebbe di grande ostacolo? Ma come pensare che Caravaggio avrebbe rappresentato in maniera così potente l’irruzione del divino nel quotidiano, nel miserevole e abbietto, senza essere quell’artista “maledetto” e ribelle capace di vedere dietro il volto sofferente di una prostituta la grazia e la dolcezza di una Madonna? Capace di dipingere una canestra di frutta avvizzita come si dipinge una persona. Come avrebbe mai potuto Michelangelo affrescare da solo la Cappella Sistina, soffrendo molti stenti, se non avesse avuto quella sublime ispirazione che lui considerava un dono divino ma che noi sappiamo essere,in realtà, il suo intimissimo genio? Ancora Cézanne, Matisse, Picasso, Modigliani e tanti altri. Anche Galileo Galilei ha avuto bisogno di una sana dose di follia per prefigurare il futuro della scienza moderna e sovvertire le regole del mondo e dell’Universo tolemaico, rischiando la sua stessa pelle: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Doveva apparire un pazzo agli occhi dei contemporanei! Occorre però fare una distinzione, sottile ma decisiva, tra la pazzia sterile, priva di qualsiasi slancio poetico anzi atrofizzante del poveraccio, e la follia visionaria del genio e dell’artista, che sublima il suo sentire nei rossi, nei neri, nei gialli delle pennellate, nella sinuosità della linea, nella forza del trapano che toglie la materia e regala luci e ombre profonde. Questo per dire che non bastano due bicchierini di troppo, un abbigliamento stravagante, andare in giro con un leopardo al guinzaglio e i baffi all’insù per essere degli artisti e dei folli nel senso che abbiamo cercato di spiegare. Non c’è genialità e non c’è alcuna grande espressione creativa se essa è sepolta in acqua ristagnante, se gli occhi sono senza scintille, se non sono in grado di cogliere quella che Picasso chiamerà “la quarta dimensione”. In poche parole senza una sconfinata sensibilità che prende tutto il corpo. Ma questa non riesce a parlare da sola, a scorrere veloce come fa l’acqua da un’altissima cascata, senza il saldo possesso di un linguaggio artistico: il mestiere, l’adorato onesto saper fare dell’artigiano che ha familiarità con i diversi materiali e si sporca le mani con l’ orgoglio di chi impasta e sforna il pane.

Ho voluto fare questa premessa perché noto che il concetto di follia dell’artista è suscettibile di innumerevoli confusioni e strumentalizzazioni. In sostanza, tutti vogliono essere degli artisti ma pochi lo sono veramente: è un privilegio raro non uno status symbol.

Ho conosciuto per la prima volta Claudia Bellocchi all’apertura della sua mostra. Leggo dalla sua biografia che è un’ artista eclettica, che si muove tra Roma e Buenos Aires e non si limita alla pittura, esplorando anche le istallazioni, i video, la poesia fino al teatro. Quale luogo più adatto di questo, dunque? Infatti le piace molto per i suoi quadri. Capisco subito che le categorie di “normale” e “disciplinata” non fanno per lei, artista veemente e smisurata. Mi dice che il tema della follia è fondamentale nella sua vita e nella sua creazione artistica, ma riesco a “cavarle” con l’ingenuità di chi fa tante domande due cose per me importantissime: il modo saggio di vivere questa follia come occasione di esplorazione appassionata del mondo, per andare oltre la realtà materiale e logica delle cose verso orizzonti invisibili e ignoti a chi si ferma all’apparenza; in secundis, l’auto consapevolezza del mestiere: sono un’artista innanzitutto perché so fare, conosco la corretta esecuzione di un’opera. Prima dello stato di invasamento provocato dalla musica (come una moderna sibilla), quindi, prima dell’istinto, c’è la fase preparatoria del pensiero, dello studio, di ricerca con se stessa. Non è una folle sprovveduta e non è che i quadri si possono buttare giù di sola foga espressiva.

Questa volta sono nati dieci oli su papel misionero, dieci presenze dotate di vita propria nel magma instabile di una pennellata fortemente gestuale e dal segno graffiante e violento. Mi ha ricordato molto De Kooning, in particolare quegli inquietanti archetipi femminili, La Madre, così mostruosi e detentori di un grande potere sull’Universo. C’è tanta materia che si incrosta sul supporto, denotando una forte urgenza espressiva che ci riporta ai tempi di Van Gogh e all’Espressionismo di Heckel, ma la tavolozza è tutt’altro che solare come nei girasoli o nei campi di grano. C’è tanto dell’angoscia e dell’instabilità delle forme di Munch. Dominano le tinte fredde, il blu, il viola, il nero, con lampi di rosso crudo e verde acido e improvvise incandescenze lunari (a mio avviso, il punto forte della pittrice) che rappresentano la conquista del mondo irrazionale e sovrasensibile la cui unica porta d’accesso è la follia: insieme un privilegio e un prezzo

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da pagare alla società dei cosiddetti normali. I soggetti sono per lo più tratti dall’infanzia, dal mondo delle favole (Claudia organizza anche laboratori creativi per bambini): c’è la volpe con grandi occhi di civetta, il lupo mannaro, il clown, la terribile casetta nel bosco della nonna di Cappuccetto Rosso o della strega di Hansel e Gretel;

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c’è la bambola con le grandi labbra rosse, una femminilità che non riesce a prendere vita e movimento, a fuggire dalla fissità di una creatura di pezza, da quello che gli altri si aspettano. La grande scimmia che ridacchia: una risata perfida, la paura di impazzire. Titoli che rimandano ai doppi che si completano, ragione e sentimento, allegria e tristezza, a un dissidio interiore che deve rimanere un enigma inestricabile, pena la piattezza emotiva, l’assenza di ispirazione, la normalità. Mi ha colpito molto l’immagine di un asino a riposo nel pulviscolo dell’atmosfera rosata, di un’alba amena. Lì ci ho visto il sentimento più positivo di tutti, il sogno come ricreazione dell’anima e Paradiso perduto, e ho subito pensato ai quadri notturni e romantici di Chagall, dove l’asino è un elemento presente nella mitologia popolare e contadina e, naturalmente, all’Asino d’oro di Apuleio: la mente è volata verso Amore e Psiche, la mia favola preferita. Si rivela qui l’“anima gentile”, la ricerca di un mare calmo dentro un inconscio in burrasca.

Rileggo il testo poetico e bellissimo che introduce l’opuscolo della mostra, di Sarina Aletta: «Quando l’impulso irresistibile del gesto svela abissi tormentati dell’anima dove bellezza e orrido lottano in passionale amplesso.» In queste poche e preziose parole, c’è tutto. L’abisso, l’estasi, la ricerca, l’angoscia, la Donna.
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INQUIETA IMAGO
di Claudia Bellocchi
da domenica 19 febbraio a sabato 11 marzo 2017

Teatro Villa Pamphilj (Villa Doria Pamphilj)
Via di S. Pancrazio, 10
Roma

Finissage ed incontro con l’artista Sabato 11 marzo alle 16:30

Orario mostra:
martedì – domenica 9.00 – 19.00

Informazioni:
tel. 06/5814176

Ingresso libero

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