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Ex Jugoslavia in Arte

Un mosaico composito e complesso di quasi cento opere di oltre sessanta artisti originari dei diversi paesi della ex Jugoslavia,per raccontare non solo la storia difficile di un territorio attraversato nei secoli da conflitti, tensioni, instabilità, ma anche l’utopia di un paese – la Jugoslavia socialista – costruito inizialmente su un ideale di fratellanza fra nazioni e di unità fra i lavoratori. Dal tempo della Seconda Guerra mondiale al dramma delle guerre civili, dai processi di indipendenza fino agli anni più recenti, gli artisti si confrontano con la loro storia, riletta attraverso i gesti di quegli eroi che, in modi e tempi diversi, hanno sacrificato la propria vita per gli altri o nel nome di un ideale superiore, “più grande”, come recita il titolo della mostra. In un tempo sempre più dominato dal cinismo, dalla paura dell’estraneo, dal consumismo e dalle drammatiche conseguenze di un modello di società ipercompetitiva e sempre più individualista.
La mostra è organizzata intorno a otto sezioni, non separate ma anzi interconnesse tra loro così come sono connesse le tematiche che indagano
Le prime quattro (Libertà, Uguaglianza, Fratellanza, Speranza), contraddistinte in mostra dal colore azzurro, rappresentano e raccontano gesta eroiche, rivoluzioni e valori positivi,ideali per cui in passato si era disposti a lottare e addirittura a perdere la vita, ma che per contrasto fanno affiorare la profonda crisi degli stessi nella società contemporanea.
Le altre quattro sezioni (Rischio, Individuo, Alterità, Metamorfosi) caratterizzate dal colore rosso, descrivono invece il mondo di oggi e le questioni più urgenti della contemporaneità, conseguenze della voracità dei nostri tempi, di un tempo in cui l’essere umano è sempre meno in armonia con se stesso, con gli altri e con la natura. Il cuore dell’esposizione, centro non solo ideale ma anche spaziale, è la prima sezione intitolata LIBERTÁ.


Più grande di me
Voci eroiche dalla ex Jugoslavia

Dal 5 maggio al 12 settembre 2021

MAXXI
Roma

A cura di Zdenka Badovinac, con Giulia Ferracci

https://www.maxxi.art/events/piu-grande-di-me-voci-eroiche-dalla-ex-jugoslavia/

Napoleone e Roma

Ideata in occasione del bicentenario dalla morte di Napoleone Bonaparte, la mostra lo celebra ripercorrendo il rapporto tra l’imperatore francese, il mondo antico e Roma.
Annessa all’Impero dal 1809 al 1814 e città imperiale seconda solo a Parigi per volontà di Napoleone stesso, Roma, e più precisamente l’area archeologica dei Fori Imperiali, fu oggetto di scavi promossi dal Governo Napoleonico di Roma tra il 1811 e il 1814 per liberare l’area a sud della Colonna di Traiano, che Napoleone aveva già preso a modello per la realizzazione tra il 1806 e il 1810 della Colonna Vendôme a Parigi. I Francesi volevano applicare a Roma quei criteri di ordine urbanistico che, nei loro intenti, l’avrebbero trasformata realmente in una seconda Parigi. Ispirarsi alla Roma Imperiale in ogni suo aspetto per celebrare la magnificenza di Napoleone e della sua famiglia divenne ben presto una consuetudine e portò inevitabilmente con sé l’uso di un linguaggio di propaganda ispirato all’Antico, caratterizzato dalla rappresentazione dell’Imperatore come erede dei grandi condottieri del passato, degli Imperatori romani, se non addirittura come eroe e divinità dell’antica Grecia, in un rimando costante a Roma Imperiale, alla sua arte e alla sua cultura.
Il percorso espositivo si snoda attraverso 3 macro-sezioni e comprende oltre 100 opere – tra cui sculture, dipinti, stampe, medaglie, gemme e oggetti di arte cosiddetta minore – provenienti dalle Collezioni Capitoline nonché da importanti musei italiani ed esteri.
La prima macro-sezione evidenzia il rapporto tra Napoleone e il mondo classico, seguendo la formazione del giovane Bonaparte, anche attraverso l’adozione di diversi modelli tratti dall’Antico, utilizzati di volta in volta per trasmettere messaggi di potere, buon governo e conquiste militari, fino alla divinizzazione della sua figura. In questa sezione saranno presenti opere antiche e moderne di eccezionale valore storico, che illustrano il percorso biografico di Napoleone e, allo stesso tempo, i suoi modelli e riferimenti culturali.
La seconda macro-sezione è dedicata al rapporto di Napoleone con l’Italia e Roma. Si inizia con tre opere di particolare bellezza che illustrano il ruolo di Napoleone come Re d’Italia: il gruppo scultoreo di Pacetti Napoleone ispira l’Italia e la fa risorgere a più grandi destini, dal Castello di Fontainebleau, e due ritratti di Napoleone da Milano (Galleria d’Arte Moderna e Palazzo Moriggia-Museo del Risorgimento).
La terza macro-sezione approfondisce alcuni aspetti relativi alla ripresa di modelli antichi nell’arte e nell’epopea napoleonica, come ad esempio quello dell’aquila romana, esemplificato in mostra, tra le altre opere, dal vessillo del 7° Reggimento Ussari dal Musée de l’Armée di Parigi. Nell’approccio all’Antico fu fondamentale per Napoleone la Campagna d’Egitto, impresa militare e culturale insieme, raccontata attraverso alcune opere, come la stampa di Girardet dal Museo Napoleonico di Roma, raffigurante
La mostra si conclude con il famoso quadro Napoleone con gli abiti dell’incoronazione, dipinto da François Gérard nel 1805 e conservato ad Ajaccio, nel Palais Fesch-Musée des Beaux-Arts: il dipinto raffigura Napoleone al suo apice e rappresenta il compendio più evidente dell’uso che egli seppe fare dei simboli.
Le immagini dell’anticomania napoleonica (la nudità eroica, le insegne del potere, l’alloro, l’aquila…) rifunzionalizzate nel presente sono allo stesso tempo rivolte al futuro: si rivolgono ai posteri e partecipano alla costruzione della leggenda dell’Imperatore


Napoleone e il mito di Roma
Sino al 30 maggio 2021

Roma
Mercati di Traiano


LAURENZIO LAURENZI, un artista dimenticato

Conoscevo le acqueforti di Laurenzi (1878-1946) per averne ereditata una di piccolo formato da mio padre (uno scorcio di paesaggio con cipressi) e soprattutto per averne visto alcune di grande formato (mm 495×375) incorniciate negli uffici del Museo della Civiltà Romana: non esposte in sala, rappresentano edifici monumentali della Roma antica, compresi quelli sparsi nelle province romane. Belle calcografie in stile classico, sono in parte reperibili sul mercato antiquario ma senza raggiungere quotazioni alte: dai 100 ai 250 euro. Ma la sorpresa è stata scoprire la scarsa documentazione su questo artista: poco o niente si trova scandagliando l’OPAC SBN – il Servizio Bibliotecario Nazionale – e persino scorrendo lo schedario della Biblioteca Hertziana, specializzato nello spoglio dei periodici di storia dell’arte. Non una monografia, né un catalogo di una mostra, solo qualche notizia in rete. Tuttavia, un articolo pubblicato nell’agosto del 1938 ne Gli Annali dell’Africa Italiana (1)  suggerisce di estendere la ricerca alle riviste italiane del Ventennio, e spieghiamo subito perché: Laurenzi ha vissuto una vita artistica ben suddivisa fra due periodi: nel primo è legato ad Assisi e all’Umbria (dove era nato) e all’illustrazione delle città italiane, mentre nel secondo cambia stile e diviene un interprete della Romanità, per finire dimenticato dopo la guerra. Muore nel suo appartamento romano nel 1946 assieme al suo gatto per una fuga di gas – disgrazia o suicidio? – ma ormai si era ritirato dalle scene, dopo aver viaggiato a suo tempo per tre anni a spese dello Stato per illustrare in 80 lastre le architetture della Romanità in Europa e in Africa. Romanità imperiale antica e moderna, secondo lo schema ideologico del Duce: non solo Roma, Spalato, Sabratha o Treviri, ma anche Gondar e Axum. Ma sarebbe interessante sapere chi aveva realmente commissionato l’impresa: nella prospettiva della Mostra Augustea della Romanità, ipotizzo un interessamento di Quirino Giglioli, direttore del Museo dell’Impero e grande organizzatore della Mostra Augustea, storica celebrazione promossa nel 1937 per il bimillenario della nascita dell’imperatore Augusto. La ricerca dovrebbe a questo punto esplorare gli archivi del Museo dell’Impero ed è appena iniziata. Le tavole erano 80, ma finora non sono riuscito a catalogarle tutte: 48 incisioni riferite a periodi diversi sono conservate a Mantova da un’istituzione privata, la Raccolta di stampe Adalberto Sartori (2). Stranamente, neanche una è registrata dall’Istituto Nazionale per la Grafica. Per fortuna la Sovraintendenza Capitolina ai Beni Culturali ne conserva ben 45 nel Gabinetto Comunale delle Stampe del Museo di Roma (3) e ringrazio la dott.ssa Angelamaria D’Amelio per la sollecita collaborazione nella ricerca.

NOTE

  1. www.maitacli.it/component/phocadownload/category/2-somalia?download=31:somalia . Opera dello scrittore e giornalista Eugenio Giovannetti (1883-1951), l’articolo è intitolato «Le acqueforti africane di Laurenzio Laurenzi», ed è accompagnato dalla riproduzione di sei opere.
  2. https://raccoltastampesartori.it/autori/laurenzi-laurenzio.
  3. http://www.museodiroma.it/it/collezioni/percorsi_per_temi/grafica

Bibliografia:

Incisori moderni e contemporanei. Raccolta di monografie illustrate, Libro Secondo, a cura di Arianna Sartori, Mantova, Centro Studi Sartori per la Grafica, 2010, pp. 176/189.

Una stampa fiamminga del ‘600

Maius, cioè maggio, uno dei dodici mesi della serie. Nella stampa vediamo in prospettiva un bel giardino all’italiana e in primo piano una scena di genere: alcuni gentiluomini s’intrattengono con le dame nella pausa di una battuta di falconeria.

Nella stampa si leggono in basso tre nomi in corsivo: Jodoc. de Momper invenit , Adrian. Collaert sculp., Phls Galle excud. , che per intero suonano: Jodocus de Momper invenit, Adrianus Collaert sculpsit, Philippus Galle excudit. E’ una stampa c.d. di riproduzione: Joos de Momper è l’autore dei quadri, mentre Adriaen Collaert è l’incisore che ha trasposto su lastra di rame il disegno per inciderla all’acquaforte e poi trarne le stampe per il suo editore, Philip Galle. Questa divisione del lavoro è comune nel mondo delle stampe antiche, che vede spesso una specializzazione dei ruoli. Siamo nelle Fiandre fra il 500 e il 600, e l’arte diventa quasi un’industria: le grandi tipografie riproducono a stampa i quadri famosi e ne diffondono in serie le immagini, rendendole popolari in tutta Europa. Una di queste imprese – la Plantiniana – aveva sede ad Anversa ed esiste ancora come museo. Fondata nel 1555 da Christofle Plantin la Plantiniana stampò più di 1500 opere e l’opera fu continuata da Balthasar Moretus, nipote diretto del fondatore e amico personale di Rubens, per il quale Philip Galle – editore della stampa che descriviamo – riportò in calcografia molte sue opere. Tra parentesi, Galle è il suocero del suo incisore: Adriaen Collaert ne ha sposato la figlia Justa, e bene ha fatto l’editore a legare saldamente alla sua impresa un artista di tale rango.

La stampa è di medio formato (143 x 207 mm.) e risale al 1610, quando Collaert era ormai in età matura – sessant’anni circa, per l’epoca già un anziano – e aveva già riprodotto a stampa una grande quantità di opere d’arte, oltre ad averne create da disegni suoi originali. La stampa era insieme al conio l’unico modo di riprodurre in serie le opere d’arte e diffonderne la popolarità sul mercato internazionale, e si è visto che Anversa – come Venezia – era un centro di produzione di livello sia per qualità che per capacità industriale. Quanto invece a Joos de Mompert il giovane (per distinguerlo dal nonno, anche lui pittore come suo padre), era un paesaggista e la sua attività ad Anversa è ben nota dal 1581 al 1635, Nel 1611 diventa decano della gilda di San Luca e anche uno dei suoi figli Philippe sarà pittore. Al nostro sono attribuiti almeno 500 quadri, ma pochi dei quali firmati. La produzione di quadri di genere – i paesaggi erano richiestissimi dal mercato – era quasi sempre opera di bottega, dove l’autore dello sfondo magari non era l’autore dei personaggi in primo piano, anche se Mompert si fa riconoscere per lo stile: frequenti i paesaggi di montagna e alcuni  stilemi assorbiti dai due Brueghel, con cui collaborava.

La trasposizione di un’immagine da un quadro a olio alla stampa su carta passava necessariamente per la grafica e Collaert, come Galle, da buon fiammingo era anche un accurato disegnatore. Chiaramente l’incisione è qualcosa di profondamente diverso dal quadro riprodotto: non era possibile stampare a colori o almeno non con gli effetti cromatici attuali, quindi la stampa è l’apoteosi del bianconero. Nel nostro caso la tecnica usata per incidere la lastra di rame sulla quale è stato riportato il disegno è l’acquaforte, che permette – a differenza della xilografia, incisione su matrice di legno – la gestione della profondità di campo.

L’acquaforte è una tecnica complessa e si basa sul potere corrosivo degli acidi e su quello protettivo della cera. Per semplificare: la lastra di rame viene ricoperta da un sottile strato di cera d’api, oppure bitume. Successivamente, con un qualsiasi strumento a punta, si asporta il materiale protettivo affinché restino scoperte le parti che poi verranno stampate; dopo di che si immerge la lastra acquaforte (come veniva anticamente chiamata la miscela formata da tre parti d’acqua e una di acido nitrico). L’acquaforte, con un’azione chiamata “morsura”, corrode le parti della lastra rimaste senza protezione. La lastra deve rimanere in acido per un tempo proporzionato al tipo di segno desiderato: più lunga sarà la morsura, più scuri saranno i segni. Una volta terminata l’operazione, si leva la cera e si usa la lastra come matrice tipografica, valendosi di uno speciale torchio “a stella”, tuttora in uso per le stampe d’arte.

I punti di vista su Hirst

Una delle più inarrestabili macchine da soldi, nel campo dell’arte contemporanea, è sicuramente Damien Hirst, l’ex promettente rappresentante della Young British Art, con il solo dividere l’opinione degli addetti e non ai “lavori”, sull’essere un genio o un bluff, ha fatto lievitare le sue quotazioni.

Mentre sono sempre più numerose le persone che si domandano se Damien Hirst sia un astuto Madoff dell’arte o un Duchamp dei nostri giorni, altri fanno soldi con le opere che firma. Una interminabile produzione di puntini colorati che si succedono su superfici bianche per offendere la vista da si tanta luminosità.

Già nel 2008 si sentiva così in sintonia con l’umanità che esclamava: «Come artista cerco di fare cose in cui la gente può credere, con le quali possa relazionarsi, che possa sperimentare. Occorre dunque esporle nel miglior modo possibile».

E Hirst ha saputo dare al pubblico quello che voleva, o quello che il pubblico credeva di volere, grazie ad indulgente mercato dell’arte, sino a proteggerlo dalla crisi, salvaguardando gli investimenti, per esaltare l’isteria del popolo che si nutre del business dell’arte.

Hirst, come Koons o anche il nostro Cattelan, non conosce crisi e tutto può essere trasformato in icona, sia la banalità del quotidiano che quello del male, senza alcuna attinenza alla sensibilità di Hannah Arendt, ma come catarsi personale resa pubblica, svuotata da qualsiasi comprensione, senza alcuna presenza di umanità. Qualcosa di simile al gioco perpetrato della agenzie di rating con il diffondere voci per far salire o scendere le quotazioni a loro favorevoli.

damien_hirst_2 Dell’arte contemporanea e su di essa si può dire di tutto e il suo contrario, ma la realtà è nel suo spudorato utilizzo finanziario, in Occidente come in Oriente, dagli arricchiti russi e cinesi, dopo gli arabi e i giapponesi, spiazzando i cultori dell’opera come ingegno e manualità, limitandone la sua comunicabilità nella ripetitività. Una ripetitività che spesso viene confusa con la riproducibilità ben diversa dalla concezione di Walter Benjamin dell’opera d’arte.

Grande clamore per un teschio che Hirst ha tempestato di diamanti e portato in tour, per ribadire la superiorità dell’arte sopra ogni altro pensiero e attività, al quale nessuno può resistere, tanto che il povero Cartrain, alias di un’artista inglese impegnato nella realizzazione collage e stencil ispirati ad icone popolari come Mickey Mouse o Clint Eastwood, è rimasto impigliato negli ingranaggi con il suo utilizzare illegittimamente l’immagine dell’opera hirstiana. Una superficialità che gli è costato un’accusa di plagio, vincolando la creatività alle regole del mercato. Cosa potrebbe essere accaduto all’arte contemporanea se Dalì o Dupham, Picasso o Warhol, fossero incappati nell’accusa di plagio per l’utilizzo della Mona Lisa o dell’arte africana, ma forse a rischiare di più poteva essere Warhol con le sue zuppe in barattolo e numerosi simboli del consumismo.

Ora l’illusionista delle immagini come arte è presente contemporaneamente in tre luoghi di Roma (Fondazione Pastificio Cerere, nella hall del MACRO e nella Gallerie Gagosian), alle sedi della Gagosian gallery sparse nel mondo (Londra, New York, Parigi, Ginevra, Atene, Hong Kong e a Beverly Hills), oltre 300 dipinti a pallini colorati, da quelli di 1 mm di diametro sino a 60 cm ognuno, dei quasi 1.500, per un excursus di venticinque anni che proseguirà ad aprile con l’antologica alla Tate Modern.

Una moltitudine di esposizioni per una sovraesposizione mediatica stimolata da Hirst esaminando la dislocazione planetaria delle gallerie Gagosian, una vera e propria industria, che ha offerto il fianco ai suoi mille detrattori che lo incolpano di utilizzare centinaia di assistenti e lui non fa mistero, anzi a lui interessa solo il risultato identico al suo pensiero, non gli strumenti utilizzati per raggiungere tale risultato, allontanandosi dalla pittura come la intende David Hockney, suo connazionale e critico del suo comportamento, fatta di gesto e materia, non ridurre l’opera d’arte a prodotto industriale, ad oggetto di arredamento.

Potrebbe essere utile, per comprendere come l’arte si possa essere instradata nella strada del prodotto industriale, riflettere su cinque secoli di arte, messa in mostra a Londra presso la Tate Britain, sino al 14 agosto 2012, con Migrations, ma è tra il 1890 e la Young British Art che si può risalire frustrazione dell’arte britannica nell’avere generato, escludendo William Blake e i preraffaelliti, solo ritrattisti e paesaggisti, mentre il resto dell’Europa contribuiva alla storia dell’arte con ben altri artisti, esuli e perseguitati per la religione, dall’Olanda e il Belgio, artisti come Van Dyck, alla ricerca di un’affermazione economica, che hanno stimolato il ritratto e hanno introdotto il genere paesaggistico. Una mostra che solleva profondi interrogativi sulla rilevanza dell’arte britannica, escludendo un Hogarth o un Turner, nel panorama internazionale, in fin dei conti anche Hirst ha fatto tesoro degli stimoli che aleggiano nell’aria, trasformandoli in un lavoro meno faticoso possibile. L’arte britannica si è formata grazie all’evento migratorio, non solo dell’umanità in cerca di migliorare la propria vita, ma anche sulla circolazione di idee e concetti.

Altro detrattore di una certa arte contemporanea è Jean Clair, accademico di Francia e storico dell’arte, che con il suo recente libro L’inverno della cultura (Skira), si sofferma sull’uso disinibito dell’immagine. Un libro a capitoli, ognuno dei quali viene introdotto da una citazione come per il primo capitolo con “Quando il sole della cultura è basso sull’orizzonte, anche i nani proiettano grandi ombre.” di Karl Kraus, utilizzati come sintesi del pensiero di Jean Clair, sviluppato nelle pagine successive.

Sono lontani gli anni dove i politici si accompagnavano agli artisti per darsi importanza e apparire competenti. Erano gli anni craxiani dell’acquisto dell’opera d’arte senza troppe domande, ora c’è la crisi e alcuni artisti amerebbero tanto un posto fisso da permutare con la variegata incertezza della creatività del mercato. Gran parte dell’odierna arte è un’illusione creata da capaci persone, ben più capaci dell’artista che intendono promuovere, impegnate a plasmare il desiderio di quel prodotto, come dimostra il grande impegno dalla famiglia reale del Qatar, con i numerosi acquisti di opere d’arte di varie epoche, più che del contemporaneo, e innalzando musei.