Mentre la Brexit riaccende il dibattito
sull’indipendenza della Scozia, è verso le sue coste che ci invita a dirigerci
verso Francesca Piqueras.
Francesca
Piqueras, conosciuta per le sue fotografie di relitti abbandonati alla ruggine,
presenta una nuova serie nella continuità. È lo stesso tema, lo stesso assillo
che l’artista scava e approfondisce qui con il suo approccio singolare,
affascinato dal rapporto che l’uomo ha con la natura. Ma è verso il continente
che si è rivolta, questa volta, il suo obiettivo e sui due elementi
fondamentali che sono la pietra e l’acqua
Queste strutture in cemento e acciaio
consentono a Piqueras di giocare sui paradossi. In primo luogo, poiché sono
emblematici dell’era industriale, sembrano usciti dalle profondità dei secoli.
Le piattaforme evocano totem eretti per la gloria di alcune divinità marine. Le
file di piramidi di Cramon fanno eco agli allineamenti delle Sfingi di Luxor.
Gli obiettivi di Luce Bay ricordano queste pietre megalitiche, che si trovano
in gran numero in Scozia.
Le sue fotografie sono meno meditative,
più frontali. Il rapporto con gli elementi e con la luce è sia più
naturalistico che più sfumato. Se la sua opera raggiunge un punto di maturità
continuando a interrogarci sul destino umano attraverso i suoi manufatti, non
si tratta più di confrontarli con l’elemento marino ma con questa costa che ora
appare sullo sfondo.
Queste strutture in cemento e acciaio
consentono a Piqueras di giocare sui paradossi. In primo luogo, poiché sono
emblematici dell’era industriale, sembrano usciti dalle profondità dei secoli.
Le piattaforme evocano totem eretti per la gloria di alcune divinità marine. Le
file di piramidi di Cramon fanno eco agli allineamenti delle Sfingi di Luxor.
Gli obiettivi di Luce Bay ricordano queste pietre megalitiche, che si trovano
in gran numero in Scozia.
Un altro paradosso su cui gioca la fotografa: se queste piattaforme e queste vestigia segnano gli stretti legami (militari, economici) della Scozia con il resto del Regno Unito, sembrano qui delimitare e isolare il “territorio tranquillo” che noi vede sullo sfondo delle sue fotografie.
Francesca Piqueras Territoire Tranquille TERRITOIRE TRANQUILLE Dal 18 febbraio al 5 aprile 2020
Timidi tentativi di raffigurare una
realtà più aderente a una America a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento si
hanno con pittori come Cari Wimar, intenti a scoprire l’altra America, quella
degli indiani, delle praterie e della grandi foreste, pur rimanendo legati ai virtuosismi
della vecchia Europa. In questo contesto fatto di una tradizione ricostruita e di
una realtà non interamente rappresentata nasce, nel 1882, Edward Hopper.
Divenuto un trentenne illustratore newyorkese e occasionale pittore
“estivo”, Hopper visita l’Europa tre volte, tra il 1906 e il 1910.
Durante questi viaggi conosce Cézanne e si scontra con una realtà artistica
vitale, luminosa; non più ferma alla maestria settecentesca, ma ricca della
lezione impressionista, fauvista, simbolista e surrealista. Affascinato dai
colori e dalla luce, decide di dedicarsi a tempo pieno alla pittura, realizza i
suoi primi “appunti” di viaggio pittorici.
Dall’esperienza europea ritornerà in
patria con una pittura lontana dalla “pana” folla e ricca di
attenzione per l’architettura, pronto per avviare il discorso di un
“realismo americano”.
Contemporaneo di Norman Rockwell e di
Sen Shahn, Hopper si colloca tra loro, tra la tradizione illustrativa americana
e un certo tipo di Espressionismo europeo, realizzando una pittura che trae
ispirazione dalla quotidianità paesaggi, oggetti e persone immerse nella luce,
anche nell’ambientazioni notturna, atmosfere velate del surrealismo alla
Magritte, irreali quanto un set cinematografico.
Tra il 1915 e il 1923 Hopper si dedica
quasi esclusivamente all’acquaforte e alla puntasecca, un lavoro che gli
permetterà di approfondire una visione architettonica nella costruzione dello
spazio pittorico, sostituendo le macchie di colore con le grandi stesure
cromatiche.
La modernità di Edward Hopper nel
narrare le atmosfere urbane, i paesaggi costieri di Cape Cod, i granai del
Massachusetts e gli immensi orizzonti del Sud, è nell’osservare la vita
americana, tra gli anni Venti e i primi anni Sessanta, e raccontarla con
apparente oggettività e freddezza. Da cronista cala i personaggi in un inquietante
silenzio.
Con Hopper nasce il moderno mito
americano del viaggio, con i suoi motel, i distributori di benzina, la
ferrovia. la poetica dell’incomunicabilità e della solitudine rappresentata da Hopper
offre dei personaggi colti in un attimo non ben definito del tempo e
dell’azione, in un momento di riflessione o, forse, di ripensamento, fotogrammi
di un’epoca malata di malinconia.
Un’America tragica e generosa alla
Faulkner.
I personaggi assorti nella lettura o nelle fantasie del “sogno americano” , mentre sullo sfondo, oltre il finestrino del treno o dell’albergo, scorre il paesaggio. Una pittura americana autonoma che darà impulso all’Action Panting di Jackosn Pollock, all’lperrealismo e alla Pop Art, influenzando pittori come Eric Fischl.
L’arte Zehra Doğan, artista e fondatrice dell’agenzia giornalistica femminista curda “Jinha”, si interseca e intreccia con la vicenda personale e con i drammatici eventi politici della più stringente attualità.
Il percorso espositivo riunisce circa 60 opere inedite, tra disegni, dipinti e lavori a tecnica mista, che interessano tutto il periodo della detenzione dell’artista nelle carceri di Mardin, Diyarbakir e Tarso, dove Zehra è stata rinchiusa per 2 anni, nove mesi e 22 giorni con l’accusa di propaganda terrorista per aver postato su Twitter un acquarello tratto da una fotografia scattata da un soldato turco. Questo disegno digitale mostrava la città di Nusaybin distrutta dall’esercito nazionale nel giugno 2016 con le bandiere issate e trionfanti, e i blindati trasformati in scorpioni.
La mostra dà conto della necessità irrefrenabile di produrre e raccontare non tanto la propria, quanto l’altrui condizione con l’immagine e la parola. Dalla carta di giornale alle stagnole dei pacchetti di sigarette, dagli indumenti di uso comune ai frammenti di tessuto: ne emerge una amplissima gamma di strumenti e materiali, spesso legata alle particolari contingenze entro le quali le opere hanno trovato vita. Qualunque elemento tratto dal quotidiano incorre nella creazione, come il caffè, gli alimenti, il sangue mestruale o i più tradizionali pastelli e inchiostri, quando reperibili.
Il corpo rientra nella rappresentazione politica con scene di guerra in cui di nuovo incorre la predominanza della presenza femminile, a sottolineare come la prima delle battaglie da vincere sia quella contro il patriarcato. Pablo Picasso, quello di “Guernica” e dell’elaborazione di un linguaggio specifico della disperazione è, nelle parole dell’artista stessa, il punto di riferimento fondamentale per definire una narrativa del dolore.
Zehra Doğan è anche protagonista, insieme alla scrittrice turca Asli Erdogan e alla docente universitaria di medicina legale Sebnem Korur Fincanci, del DopoFilm Curdi Terroriste Zehra e le altre di Francesca Nava.
La mostra è un progetto in progress che nasce da una riflessione su come l’Arte, oggi più che mai, possa esprimersi attraversando la Storia e la sua Memoria, per poi restituirla rinnovata e nello specifico attraverso la Fotografia e la Grafica d’Arte. Già presentata alla Casa della Memoria e della Storia di Roma e a Civita Castellana.
Un’iniziativa per raccontare la memoria della Shoah attraverso le opere di artisti contemporanei con un accento di tipo interpretativo più che storico o celebrativo e vuole riflettere su come i linguaggi del contemporaneo possano percepire, leggere e interpretare le vite e gli avvenimenti di un periodo storico difficile da dimenticare, che riguarda le vittime, i luoghi e gli accadimenti relativi alla persecuzione antiebraica fra il 1939 e il 1945, cercando così di cogliere ciò che rimane vivo del passato alla memoria.
Le immagini in esposizione provengono da racconti incontrati ma anche cercati, sono frutto di esperienze personali e di straordinarie storie di vita, sono i luoghi simbolo del pianto e dell’orrore, sono i ricordi della memoria che tramandata da generazione a generazione, da nonno a nipote getta uno sguardo anche nell’ottimismo e nella forza della rinascita: sono visioni della memoria.
Provenienti da percorsi diversi e con mezzi espressivi comuni, gli artisti sono chiamati a fermare il tempo, e attraverso la sensibilità delle personali visioni ci regalano una riflessione e una domanda su come, oggi, la Memoria della Shoah possa essere raccontata e rappresentata.
Questa mostra vuole indicare una strada, ampliando lo sguardo che oltre a cogliere il racconto della storia, colga il particolare dell’orrore attraverso un’azione artistica che poggi i suoi motivi sullo stesso principio attivo di trasmissione per far nascere un nuovo impulso affinché la memoria oltre che essere una dimensione privata possa sempre più divenire una condizione pubblica, un bene comune e una condizione condivisa e collettiva.
Molti di noi si interrogano come sia possibile affrontare questo tema scottante e pieno di dolore non essendone stati i protagonisti diretti, e quale possa essere la giusta modalità.
Questo è la domanda che oggi ci poniamo affinché la memoria non diventi un concetto astratto tantomeno scomodo per non affrontarlo affinché le nuove generazioni trovino una strada aperta da percorrere anche attraverso gli strumenti dell’arte che come medium trasversale può sorreggere la storia con quello sguardo e quella percezione sottile capace di sostenere tanto orrore e disperazione del ricordo.
E come ci ricorda Pietro Terracina “La memoria è ciò che lega il passato con il presente”.
E proprio per non dimenticare con questa mostra e con i suoi artisti, oggi in occasione della Settimana della Memoria , ricordiamo la SHOAH, quella tempesta devastante, quella catastrofe.
Pensiamo che questa possa essere la funzione dell’Arte nei confronti della Memoria, quella di raccontare, raccoglierne i frammenti per poi restituirli, rendendoli vitali per il ricordo.
Un’esperienza che fino ad oggi ha coinvolto 29 artisti di diversa natura e biografia, molti dei quali di rilevanza internazionale, chiamati ad interpretare attraverso il mezzo della fotografia e della grafica d’arte, la memoria della Shoah.
Con questa esperienza si è potuto osservare come i linguaggi del contemporaneo elaborano, interpretano gli avvenimenti, le vittime, i luoghi e gli accadimenti relativi al periodo che si è svolto tra il 1939 e il 1945.
L’iniziativa si completa con un progetto indirizzato agli studenti che parteciperanno attivamente prendendo a pretesto la nostra mostra per realizzare un lavoro o in forma letterale o in forma visiva che sarà presentato nel mese di maggio ed ad un ampliamento della partecipazione di artisti del territorio.
Shoah. La percezione e lo sguardo del contemporaneo
Dal 25 gennaio al 23 febbraio 2020
Centro culturale Leonardo Da Vinci
San Donà di Piave (Venezia)
Presenti in mostra per la fotografia :
Andy Alpern, Dario Bellini, Marzia Corteggiani, Edoardo Cuzzolin, Valerio De Berardinis, Gian Luca Eulisse Francesco Finotto, Gerri Gambino, Toni Garbasso, Teresa Mancini, Simone Manzato, Cristina Omenetto, Peter Quell, Francesco Radino, George Tatge.
Per la grafica d’arte:
Luisa Baciarlini, Livio Ceschin, Alessia Consiglio, Susanna Doccioli, Elisabetta Diamanti, Marcello Fraietta, Valeria Gasparrini, Cesco Magnolato, Elio Mazzali, Laura Peres, Giorgia Pilozzi, Usama Saad, Gianluca Tedaldi.
A cura di:
Toni Garbasso, Bianca Cimiotta Lami e Giorgia Pilozzi
Promossa da FIAP (Federazione Italiana Associazioni Partigiane)
Il catalogo realizzato per l’occasione riunisce i testi di: Bianca Cimiotta Lami, di Vittorio Calimani, di Aldo Pavia, di Pupa Garriba e del Sindaco e dell’Assessore alla Cultura che con la loro sensibilità ci hanno consentito di trasmettere la memoria attraverso un linguaggio contemporaneo.
Il mondo dell’arte si identifica spesso con musei, gallerie, collezioni pubbliche e private, ma c’è una stagione dell’arte moderna che ha avuto un diverso profilo: un ‘altro mondo’, dinamico e informale, nel quale gli artisti hanno vissuto il loro momento sociale e comunitario, dove le loro opere sono state apprezzate e raccolte. È qui che sono nate collezioni insolite, più o meno ricche ed esclusive, spesso entrate a far parte di una tradizione, che hanno segnato una cultura e hanno marcato con inconfondibili caratteri una città e un territorio.
L’iniziativa pone l’attenzione su uno di questi ‘luoghi’, su un collezionismo che ha avuto per mecenati ristoratori di rara sensibilità, lungimiranti nelle scelte, capaci di dar vita ad esperienze che hanno scritto un capitolo importante e originale nella scena culturale non solo cittadina.
Un ambiente ideale e accogliente per gli artisti, in cui ritrovarsi, discutere, scambiare opinioni ed esperienze, far progetti, unirsi in gruppi e tendenze, elaborare documenti e programmi, ma anche celebrare successi, festeggiare ricorrenze, prendere atto di divergenze, litigare, consumare rotture. E, naturalmente, mangiare e bere.
Esposti dipinti, lettere, testimonianze, fotografie, schizzi, dediche e saluti, menù e ricette. Tutto il mondo della cultura e dell’arte, con i suoi protagonisti, che ruota attorno al ristorante All’Angelo.
La mostra raccoglie le opere e quelle che altri artisti, italiani e stranieri, hanno voluto lasciare a ricordo del loro passaggio in trattoria e, spesso, a testimoniare l’eccellenza della sua cucina e la speciale atmosfera che si era creata tra quelle pareti e attorno ai quegli oramai celebri tavoli.
Un totale di 90 opere tra oli, tempere, matite, inchiostri e tecniche miste di molti artisti tra i quali spiccano, oltre ai tre già nominati, De Pisis, De Luigi, Casorati, Alberto Giacometti, Guttuso, Sironi, Music e così via.
Una ricchissima documentazione fotografica e documentaria in buona parte inedita, appartenente alla famiglia Carrain e ad altri fondi archivistici veneziani costruisce il contesto storico e sociale di quegli anni, mentre pubblicazioni riconducibili agli episodi e alle personalità che frequentarono abitualmente o occasionalmente il locale forniscono i termini di raffronto tra l’episodio dell’Angelo e il tessuto cittadino.
La mostra costituisce la prima tappa di un progetto che prevede di affrontare e presentare la storia, i protagonisti e le collezioni di alcuni dei principali locali veneziani del ‘900.
A cura di:
Giandomenico Romanelli e Pascaline Vatin
Promotori:
Fondazione Querini Stampalia, Venezia
con Lineadacqua e Villa Morosini a Polesella.
Il Libro-catalogo, edito da Lineadacqua, è un originale e insolito prodotto editoriale ricchissimo di immagini, di approfondimenti, di curiosità, di storie segrete e di pettegolezzi.
Magazine di Spunti & Riflessioni sugli accadimenti culturali e sociali per confrontarsi e crescere con gli Altri con delle rubriche dedicate a: Roma che vivi e desideri – Oltre Roma che va verso il Mediterranea e Oltre l’Occidente, nel Mondo LatinoAmericano e informando sui Percorsi Italiani – Altri di Noi – Multimedialità tra Fotografia e Video, Mostre & Musei, Musica e Cinema, Danza e Teatro Scaffale – Bei Gesti