Antonello da Messina A proposito del “San Girolamo nello studio” di Antonello da Messina… lo splendore dell’umana intelligenza qui raggiunge la sua vetta…. ragione e sentimento qui si coniugano nella totalità di una sapiente bellezza…
Teatralità nel seicento Oltre a grande maestro di plasticità chiaroscurale il Merisi fu anche figlio del suo tempo nel senso drammatico della teatralità: il seicento fu il secolo del teatro, dalla concitazione del Bernini e di Borromini, fino a Shakespeare Moliere e Tirso de Molina e l’invenzione tutta italiana del melodramma. Ammirare un dipinto di caravaggio vuol dire anche assistere a un vero e proprio evento teatrale corredato sempre, fra l’altro, da sapienti fonti di luci non naturali, come appunto da scenografia di interni ( nei suoi dipinti e’ rarissima l’introduzione della luce esterna, naturale, e questo crea ogni volta l’effetto di una azione scenica).
La rigidità botticelliana Però il Botticelli… per carità: bellezza assoluta, nitore e limpidezza, splendore cromatico… ma… come un sospetto di rigidità quasi sovrumana, una beltà fredda e distaccata, il ripetersi di uno schema sublime che certo incanta ma forse non commuove..
La gioia per la vista La pittura del Veronese è pura gioia visiva, nobile cibo per gli occhi, pittura tattile e corposa di un eros totale verso la materia: non apparenza ma sostanza della realtà.
Le icone nell’arte … la Kahlo… e poi la Lempicka… o chi altri, Basquiat o Koons o altri “santoni” alla ribalta. A parte il loro valore intrinseco, secondo me piuttosto limitato, sono figure che per varie ragioni risentono di un richiamo, una tendenza, o se preferite semplificare, una “moda” che le porta un po’ sull’altare della celebrità fino a farne icone di alcune ragioni politiche, sociali, umane di una cultura che di volta in volta necessita di “manifesti” e di volti come punti di riferimento emozionali…niente di male. Della Kahlo e della sua pittura “primitiva” e piuttosto crudele ho già detto altrove, della Lempicka celebrata come eroina della ambigua libera sensualità e di un certo femminismo ante Litteram, a proposito della sua pittura mi piace ricordarla come una piacevole e decorativa volgarizzazione di certa avanguardia novecentista, tra Braque e d’Annunzio, una “cubista” (nel senso pittorico) da salotto.
Marina Abramović: Quando non serve dipingere La china in discesa è senza fine! Archi di trionfo e corone d’alloro alle cosiddette “performer” mentre sono più neglette (se non ridicolizzate) tecnica, capacità espressiva,valenza estetica, lavoro di ricerca e approfondimento pittorico… tutte cose inutili e “sorpassate”… non so quando e chi mi disse: “ma tu disegni ancora?..a che serve? … ma guardati intorno!”.. mi sono guardato intorno, eccome! E il paesaggio è deprimente questi esempi di trionfalismo delle “geniali” trovate concettuali sono la tomba di chi ancora crede nell’arte e nel suo rigore… fra l’altro questo dà sempre mano libera e fornisce alibi formidabili all’esercito infinito di dilettanti allo sbaraglio,pur del tutto incapaci,ma forniti di granitica presunzione… È proprio vero: a che serve ancora disegnare e dipingere?
Ecco le due anime fondamentali dell’estetica americana: Pollock e Hopper… Una ne rappresenta la tendenza, pur infantile e primitiva, alla dissoluzione e autodistruzione, con tutte le sue componenti romantiche e nichiliste di proporsi aldilà di ogni schema e ogni limite… L’altro è l’anima del radicato conservatorismo e tradizionalismo legato ai valori d’appartenenza fondamentali: la propria terra, la cultura ereditata e la sostanziale fiducia nel senso concreto del proprio esistere, pur con tutte le incertezze e malinconie inevitabili…
La matita di Seurat
I disegni di Seurat. Magnifici disegni. In questo caso più che di “puntinismo” si dovrebbe parlare di “diffusismo” in cui la materia si sfibra e si ricompone nella vibrazione della luce attraverso un tessuto vivo nel quale l’elemento figurativo ritrova la sua magica dimensione.
Whistler l’arioso
Whistler. Ecco, questo è un pittore che ho sempre amato: modernissimo, originale, intenso, soffuso di una malinconia tutta sua. Egli supera l’impressionismo nelle sue atmosfere evanescenti e crepuscolari… come fosse un Turner redivivo passando dalla cosmica solarità dell’inglese alle penombre intessute di silenzi e solitudini notturne irrimediabili.
Postraffaelliti?
C’è qualcosa nel manierismo di eccessiva accentuazione estetica e pronunciata raffinatezza formale che fa pensare irresistibilmente agli ideali formali dei preraffaelliti.. .in effetti questi artisti avrebbero dovuto chiamarsi più giustamente “postraffaelliti!”
La bellezza del paesaggio
Non mi stancherò mai di elogiare la bellezza, nei dipinti dal ‘300 al ‘500, degli sfondi paesaggistici: invenzioni di volta in volta fantasiose, elegiache, nitide di una luce incorrotta, quasi favole originali che suggeriscono il desiderio di rievocare un mondo perfetto, un giardino edenico, una natura segnata dal divino.
Rodin: il flusso del sentire
Tutto in Rodin è puro erotismo, beninteso come pura sacralità dell’esistere: sentire, sentire, sentire le manifestazioni della vita come flusso irresistibile e prepotente, e la vita stessa come eterna primavera crudele e vitalissima, e in questa totale aderenza dell’artista alla vita in quanto tale è appunto la sacralità del suo eros necessario e irresistibile che in tutte le sue opere si manifesta.
Frida Kahlo
La pittura della Kahlo risente di quella cultura che fu precolombiana e che è ancora viva in quelle genti, cultura per un verso ricca e raffinata, e per altro crudele e sanguinaria. Nella sua pittura ci sono tutte le componenti di quel mondo violento e carnale: il cromatismo feroce senza mezze misure, la naturalità spietata del corpo vista nella sua elementarietà, tutte componenti di una natura si’ bellissima ma terribile ed eccessiva come quel clima. Una cultura che ancora risente di un primitivismo affascinante ma che reca in se’ l’eredità di antiche barbarie, e in questo è la gioia infantile e la pena dell’esistere espresso dalla Kahlo,
La storia dell’Arte, tutta la storia di tutte le arti è fatta di incalcolabile, sublime narcisismo… Narcisismo tragico e possente (non querula vanità) per trasformare appropria immagine e somiglianza qualsiasi realtà. Cosicché il mondo, da futile e fugace apparenza, diventa sostanza e carnale riflesso della nostra anima riassumendosi nei disperati specchi dell’artista… Egli si effonde nell’universo e in sé lo racchiude, traducendolo dall’abisso dell’enigma nella certezza vicina e concreta del nostro dolore. Che altro c’è?… Il resto è obiettivo di cronaca mediocre, arte minore, decorativa cialtroneria.
(da “Zibaldone privato“- giugno 1995)
Il minore Botero
Non molto tempo fa (mi sembra fu’ in una trasmissione di Maurizio Costanzo) si definì Botero il più grande pittore del novecento: giudizio a dir poco avventato se si pensa al foltissimo drappello di artisti del secolo di alta o altissima qualità espressiva (Balla, Boccioni, Sironi, Morandi, Afro ecc., solo per restare in casa nostra)… Botero, al massimo, con la sua pittura sacrificata ad un livello di ripetitività satirica (gli eterni ciccioni) può aspirare a definirsi come curioso “minore”, una specie di Arcimboldo dei nostri tempi, in un ambito ristretto ad una originalità aneddotica.
Crivelli e il crudelismo
In Carlo Crivelli l’esigenza espressionista (per quel che noi intendiamo espressionismo) e’ una dimensione talmente scoperta e inderogabile da rasentare il “crudelismo” di una umanità urlante e vulnerabile fin nelle sue fibre intime… una umanità lontanissima, pur contemporanea, dagli olimpici equilibri quattrocenteschi.
Moreau o Redon
Moreau, il campione di un simbolismo fine secolo un po’ “pompier”, un po’ sovrabbondante di orpelli e vezzi erotici… molto più interessante il simbolismo decisamente surreale di Odilon Redon.
La rusticità di Utrillo
Amo la pittura di Utrillo… la sua tecnica e’ elementare, spesso ingenua, quasi infantile… ma i suoi colori sono stemperati in un diluente poetico di forte intensità emotiva. la sua Parigi fatta di vecchie stradine di periferia, di rusticità campestri, di antichi intonaci, in uno struggente clima autunnale, e’ una città rivissuta nella memoria di un autentico poeta, un luogo posto nella regione della irrimediabile nostalgia di un mondo perduto nell’incanto di una stagione che pure fu nostra…
L’onesto Rigaud
Hyacinthe Rigaud (1659-1743), artista di corte sotto il re Sole Luigi XIV… Ecco l’esempio di un artista perfettamente “calato” nel suo tempo e nelle sue esigenze… successo, rinomanza, serenità e una vita lunga e piena di soddisfazioni… a che altro può aspirare un valente pittore? Forse di vivere una esistenza breve e tormentata da genio dannato e “maledetto” come Caravaggio?.. Certo, Caravaggio “resta” nella memoria mentre l’onesto Rigaud chi lo ricorda più?.. Ma importa poi molto?… Se potessi, dite quello che volete, sceglierei senz’altro la vita del buon Rigaud!
«I musei sono spazi democratizzanti, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sul passato e sul futuro. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, custodiscono artefatti ed esemplari nella fiducia della società, salvaguardano memorie diverse per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone. I musei non sono a scopo di lucro. Sono partecipativi e trasparenti e lavorano in collaborazione attiva con e per diverse comunità per raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esibire e migliorare la comprensione del mondo, con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario »
Con queste parole ICOM, la principale organizzazione internazionale che rappresenta i musei e i suoi professionisti, annunciava nel 2017 la volontà di ridefinire il suo statuto approvato nel 2007, che definiva il museo nel seguente modo:
“Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto.”
ICOM Italia aveva partecipato assieme a 115 paesi all’appello del MDPP (Standing Committee on Museum Definition, Prospects and Potentials) proponendo una sua definizione di museo. Ne erano state presentate 269.
“Il Museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, accessibile, che opera in un sistema di relazioni al servizio della società e del suo sviluppo sostenibile. Effettua ricerche sulle testimonianze dell’umanità e dei suoi paesaggi culturali, le acquisisce, le conserva, le comunica e le espone per promuovere la conoscenza, il pensiero critico, la partecipazione e il benessere della comunità.”
Il finale? Una bufera. La politicizzazione della funzione del museo “per adeguarla al linguaggio del XXI secolo” (Jette Sandhal, direttrice del Museo di Copenhagen e chair del comitato ICOM) non è piaciuta e fra il 70% dei membri ancora non si è trovato un accordo, mentre le dimissioni di molti membri hanno confermato le spaccature interne. Nell’intento di Sandahl e della “sinistra museale” le istituzioni museali dovrebbero aprirsi alle crescenti “richieste di democrazia culturale”, facendo del patrimonio materiale e immateriale accumulato una occasione di critica – e autocritica – delle politiche culturali dominanti. In tal senso, secondo Sandahl, «la definizione di museo deve essere storicizzata, contestualizzata, denaturalizzata e decolonizzata».
Leggendo il testo con gli occhi disincantati di chi nei musei ci lavora, sorprende questo tono messianico, saturo di onnIcomprensive enunciazioni di principio che comunque nessun paese autoritario sarebbe capace di accettare senza chiuder tutto. E se invece dell’ICOM il documento l’avesse stilato papa Francesco? Provate a sostituire “museo” con “chiesa” e non vi accorgerete della differenza. Ma se una definizione circoscritta a un specifico ambito scientifico diventa un’inclusiva frase alla moda, allora vuol dire che qualcosa non funziona. Forse si è messa troppa carne al fuoco: per estendere il senso e la funzione del museo se ne ottunde il carattere specifico, esclusivo, né questo aiuta un direttore di museo nella gestione ordinaria: al momento di chiedere i fondi o far approvare un progetto, egli potrebbe chieder tutto e il contrario di tutto, ma anche vedersi bloccare un progetto elitario e poco inclusivo, perché tutti i musei dovrebbero dimostrare di rientrare nei criteri della nuova definizione. Vediamoli.
L’esame linguistico del testo individua una serie di termini pertinenti alla vita politica e sociale: il museo è democratizzante (promuove e ostenta sentimenti democratici), inclusivo (valorizza le differenze e offre a tutti le stesse possibilità di crescita civile) , polifonico (unisce voci diverse per suonare e cantare insieme in modo armonico uno spartito condiviso), dialoga criticamente tra passato e futuro, riconosce e affronta i conflitti e le sfide del presente (obiezione: il museo per definizione conserva testimonianze del passato, il presente non essendo ancora storicizzato). Custodisce artefatti (oggetti prodotti dall’uomo) ed esemplari (campioni, magari da prendere a modello; non è chiaro l’accostamento dei due termini ) “nella fiducia della società” (virgolette mie: il testo inglese recita in trust for society, il che è più chiaro). Diverse sono le memorie per le generazioni future; son garantiti pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutti, in linea con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. I musei poi sono partecipativi e trasparenti, quindi gestiti mediante la partecipazione e in modo trasparente (magari! ndr.) e infatti lavorano in collaborazione attiva con e per diverse comunità (il pensiero per il diverso è ossessivo). Il termine collaborazione attiva traduce l’inglese active partnership, ma nei documenti UE non ha una traduzione univoca: partenariato attivo, collaborazione attiva, partnership attiva, sinergie attive, compartecipazione estesa (fonte: eur-lex.europa.eu). Il capoverso finale è prolisso: raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esibire e migliorare la comprensione del mondo (e perché non piuttosto la storia di una cultura, di una civiltà, di una nazione?) con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario. Premettendo che molti standard ormai erano già realtà (accessibilità, finalità sociale, abbattimento delle barriere architettoniche, funzione didattica), potremmo dire lo stesso parlando di una scuola, di un centro di ricerca sui cambiamenti climatici, della Casa del Popolo, di GreenPeace o di un orfanatrofio femminile in Somalia. E’ un problema di semantica: se i termini usati non sono esclusivi della realtà museale, ma comuni ad altri ambiti o istituzioni, dove risiede dunque lo specifico del museo? Per i Greci, era l’istituzione protetta dalle Muse e per questo esclusiva e sacra, mentre la definizione attuale sembra una fuga in avanti verso funzioni alle quali il museo può concorrere, ma snaturando la sua funzione originaria: conservare per valorizzare e trasmettere. Non a caso, a opporsi a questa nuova definizione sono stati soprattutto i musei europei ritenendola troppo ideologica, mentre quelli africani e sudamericani- chehanno poco da conservare ma molto da dimostrare – l’hanno promossa, in modo analogo alla Teologia della Liberazione.Purtroppo la definizione proposta non risponde nella forma ai criteri minimi di una definizione circoscritta chiara, breve e applicabile in tutti i contesti culturali e normativi interessati. Una nuova definizione deve ribadire la necessità della conservazione della molteplicità delle esperienze dell’umanità ma al contempo indicare una direzione di sviluppo non tanto “sostenibile”, quanto praticabile.
Per concludere, si pongono almeno due ordini di problemi: l’applicabilità della definizione di museo quale ora definita e la sua stessa base ideologica. Un museo non solo va caratterizzato rispetto ad altri istituti culturali, ma va anche gestito, per cui si deve anche valutare il ruolo che la definizione assume nel momento in cui entra nelle legislazioni nazionali e conduce a conseguenze non sottovalutabili anche dal punto di vista operativo. Il museo è già di suo una macchina di produzione ideologica, e politicizzarlo ulteriormente ne complica solo la gestione. E qui entriamo nel secondo problema: davvero un museo è quell’istituzione inclusiva che contribuisce alla dignità umana, alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario? Un museo intanto è selettivo per sua natura e deve aver sottesa un’ideologia capace di dare un valore agli oggetti conservati. Questo valore non è univoco: l’ISIS ha distrutto tante opere d’arte in quanto esse per loro erano idoli pagani. Dietro ogni museo c’è uno stato o una nazione, i cui confini sono spesso arbitrari o frutto di guerre. Il destino storico di un popolo è solo un mito politico del nazionalismo di turno: ogni stato nazionale crea artificialmente una propria mitologia delle origini (per noi italiani la Romanità esaltata dal Duce, Alessandro Magno per l’attuale Macedonia del Nord ) valorizzando alcuni episodi, scartandone o rimuovendone altri e negando l’identità delle minoranze. Lo stesso avvenimento storico ha valenze diverse secondo la comunità di riferimento (andate a Vienna al Museo di storia militare: Custoza e Caporetto sono vittorie austriache), niente è scelto a caso: i musei aiutano a costruire l’identità collettiva e quindi non possono essere neutrali. Specialmente i musei di storia moderna sono condizionati dalla politica e quelli di arte antica – spesso frutto di spoliazioni coloniali – danno per scontata la superiorità di un modello culturale sugli altri e il relativismo culturale sposta solo i confini del problema e moltiplica i centri di potere. C’è sempre un conflitto nel modo di interpretare la medesima realtà, e alla fine c’è sempre chi decide per gli altri, quindi nessuno si illuda che il Museo possa essere un’inclusiva macchina per contribuire al benessere planetario. E’ semplicemente uno strumento a cui non deve essere chiesto di cambiare il mondo, ma di trasmetterne la cultura accettandone i compromessi.
La ratifica finale del Parlamento italiano della Convenzione di Faro ( più esattamente: Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, STCE n. 199, 2005) ha creato violente polemiche. E’ quindi il caso di leggersela per intero e analizzarla con calma. Il testo, stilato in inglese e francese, è reperibile in rete anche in lingua italiana (1) anche se il nostro Ministero dei beni culturali ne mantiene in linea una traduzione non ufficiale, il che è già una carenza. Molte le domande inevase: perché ratifichiamo solo oggi una convenzione stilata nel 2005? E perché tra le nazioni che l’hanno ratificata mancano Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Grecia? A tutt’oggi i firmatari sono venti, consultabili in rete, ma mancano all’appello paesi di peso culturale non indifferente. Da noi la firma ma non la ratifica fu stilata nel 2013: all’epoca emersero dubbi sul puro aspetto formale della convenzione (ne abbiamo firmate decine senza mai applicarle) e sugli strumenti attuativi per renderla operativa, argomento particolarmente delicato perché la convenzione, come vedremo, delega molto potere alle comunità locali. E ci si chiede pure se fosse necessaria una convenzione nel quadro del Consiglio d’Europa per attuare quello che dovrebbe già fare l’UNESCO. A leggere comunque il testo integrale s’indovina una mediazione continua che sfuma nell’ambiguità linguistica, accanto a frasi fatte sentite quaranta volte nei documenti ufficiali su cultura e musei, più l’invito tanto attuale allo sviluppo sostenibile.
Ma passiamo al testo. Dopo un lungo preambolo e una serie di riferimenti a documenti ufficiali pregressi, si passa agli articoli. L’art.1 definisce gli obiettivi: riconoscere il diritto all’eredità culturale come inerente al diritto a partecipare alla vita culturale, così come definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; riconoscere una responsabilità individuale e collettiva nei confronti dell’eredità culturale; sottolineare che la conservazione dell’eredità culturale, ed il suo uso sostenibile sono funzionali allo sviluppo umano e alla qualità della vita; ne segue il ruolo dell’eredità culturale nella costruzione di una società pacifica e democratica, nei processi di sviluppo sostenibile e nella promozione della diversità culturale. Infine si fa appello a una maggiore sinergia di competenze fra tutti gli attori pubblici, istituzionali e privati coinvolti. Il termine qui usato è “eredità culturale” (Cultural Heritage) e non “patrimonio culturale” (come nel nostro art.2 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 – Codice dei beni culturali e del paesaggio). Il termine – tanto caro agli inglesi – è sostanziale: introduce un concetto dinamico nella definizione di cultura e memoria. Né sfugge l’accento dato alla sinergia tra istituzioni e attori vari.
L’art. 2 spiega meglio il concetto di eredità culturale:
l’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi; b. una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.
Come si vede, nel concetto di eredità culturale viene inserita la variabile temporale: la cultura è il prodotto dell’interazione tra popoli e luoghi nel corso del tempo. Sono poi le comunità a identificare quanto vale la pena di trasmettere agli altri, fermo restando il supporto dell’azione pubblica. Nota: nella stampa accademica (nota 2) il termine “comunità di eredità” è tradotto correntemente come “comunità patrimoniale”. Non è ancora disponibile il testo ufficiale approvato dal nostro Parlamento, per cui teniamo presenti le due traduzioni. Si riconosce comunque che tutti hanno un diritto inalienabile all’eredità culturale. Si accenna anche al concetto di patrimonio culturale immateriale quale processo collettivo capace di integrare nella memoria sociale anche elementi ancestrali e non immediatamente tangibili come potrebbero essere opere d’arte figurativa.
L’art. 3 definisce l’eredità culturale dell’Europa, in termini molto “pacifisti”:
tutte le forme di eredità culturale in Europa che costituiscono, nel loro insieme, una fonte condivisa di ricordo, comprensione, identità, coesione e creatività; e, b. gli ideali, i principi e i valori, derivati dall’esperienza ottenuta grazie al progresso e facendo tesoro dei conflitti passati, che promuovono lo sviluppo di una società pacifica e stabile, fondata sul rispetto per i diritti dell’uomo, la democrazia e lo Stato di diritto
L’art. 4 è il più discusso e ha provocato p0lemiche violente. Il titolo recita: Diritti e responsabilità concernenti l’eredità culturale, ma è un testo bifronte: da un lato si garantisce il diritto di trarre beneficio, dall’altro si ha l’obbligo di tutela:
chiunque, da solo o collettivamente, ha diritto a trarre beneficio dall’eredità culturale e a contribuire al suo arricchimento; b. chiunque, da solo o collettivamente, ha la responsabilità di rispettare parimenti la propria e l’altrui eredità culturale e, di conseguenza, l’eredità comune dell’Europa;
Il comma c poi è la pietra dello scandalo:
l’esercizio del diritto all’eredità culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altrui diritti e libertà.
Quali limitazioni? Che significa protezione dell’interesse pubblico? E quali altrui diritti e libertà potrebbero essere limitati dall’esercizio del diritto all’eredità culturale? Le reazioni violente hanno tirato in ballo il politicamente corretto, l’Islam che si offende, l’identità europea, ma il comma è ambiguo: le limitazioni possono riferirsi sia a un intervento dello Stato a scapito del diritto soggettivo di fruizione del bene culturale, sia a un controllo politico dell’esercizio del diritto all’eredità culturale. Sarebbe dunque possibile aprire un museo del fascismo?
Più ovvio l’art. 5: Leggi e politiche sull’eredità culturale. Le parti firmatarie s’impegnano a promuovere: l’interesse pubblico associato agli elementi del patrimonio culturale (a); a valorizzare il patrimonio culturale attraverso la sua identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione presentazione” (b); ad assicurare che, nel contesto specifico di ogni Parte Firmataria, esistano le disposizioni legislative per esercitare il diritto al patrimonio culturale, come definito nell’articolo 4 (c); favorire un clima economico sociale che sostenga la partecipazione alle attività del patrimonio cultuale” (d); a promuovere la protezione del patrimonio culturale, quale elemento prioritario di quegli obiettivi(e); a riconoscere il valore del patrimonio culturale sito nei territori sotto la propria giurisdizione, indipendentemente dalla sua origine”(f); formulare strategie integrate per facilitare l’esecuzione delle disposizioni della presente Convenzione”(g).
L’art. 6, Effetti della Convenzione, concerne le misure tese a salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali contenute nella Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo e nella Convenzione per la protezione dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Con questo finisce la prima parte del testo. La parte seconda (artt. 7-12) analizza le principali Convenzioni internazionali ed europee che regolano il patrimonio culturale, con particolare attenzione al patrimonio culturale di natura immateriale (definito nel 2003 dall’UNESCO stessa). Tutte le fonti confermano che l’idea di una nuova convenzione tiene conto delle distruzioni causate dalla guerra civile jugoslava e cerca di superare i testi dell’UNESCO, troppo specialistici. Questo spiega frasi scontate in Italia ma non nei Balcani:
stabilire i procedimenti di conciliazione per gestire equamente le situazioni dove valori tra loro contraddittori siano attribuiti alla stessa eredità culturale da comunità diverse; c. sviluppare la conoscenza dell’eredità culturale come risorsa per facilitare la coesistenza pacifica, attraverso la promozione della fiducia e della comprensione reciproca, in un’ottica di risoluzione e di prevenzione dei conflitti;
Gli artt.8 e 9 sono invece attenti all’ecologia: Ambiente, eredità e qualità della vita e Uso sostenibile dell’eredità culturale. L’unico comma innovativo è il c dell’art.8: rafforzare la coesione sociale promuovendo il senso di responsabilità condivisa nei confronti dei luoghi di vita delle popolazioni. Gli altri parlano della necessità di curare manutenzione e gestione in modo corretto, usando materiali adatti e tecnici preparati: qualità degli interventi, principi per la gestione sostenibile e per incoraggiare la manutenzione. Come al solito, più raccomandazioni che vincoli.
L’art. 10 affronta un altro problema: Eredità culturale e attività economica. In sostanza, lo sfruttamento economico di un bene culturale è un valore, a patto di b. considerare il carattere specifico e gli interessi dell’eredità culturale nel pianificare le politiche economiche; e c. accertarsi che queste politiche rispettino l’integrità dell’eredità culturale senza comprometterne i valori intrinseci. Il turismo di massa, il folklore reinventato e il falso artigianato non hanno dunque spazio.
E ora passiamo alla terza parte: Responsabilità condivisa nei confronti dell’eredità culturale e partecipazione del pubblico. Artt. 11-14. Si tratta di una serie di raccomandazioni per realizzare quanto scritto prima. Si parla (art.11) della organizzazione delle responsabilità pubbliche in materia di eredità culturale; di incoraggiare (art. 12) l’accesso all’eredità culturale e alla partecipazione democratica. La novità è l’accento (12.b) su il valore attribuito da ogni comunità patrimoniale all’eredità culturale in cui si identifica; c. il ruolo delle organizzazioni di volontariato, sia come partner nelle attività, sia come portatori di critica costruttiva nei confronti delle politiche per l’eredità culturale. L’art. 13, Eredità culturale e conoscenza inserisce giustamente l’eredità culturale all’interno di un sistema scolastico e formativo, professionale e di ricerca. Infine l’art.14 si preoccupa invece di adeguare la cultura ai nostri tempi: alla voce Eredità culturale e società dell’informazione si parla doverosamente di tecnologie digitali, di standard internazionali di catalogazione e gestione dei beni culturali, ma anche di difesa della diversità linguistiche e di lotta al traffico di opere d’arte. Sibillino il comma d: che mai significa riconoscendo che la creazione di contenuti digitali relativi all’eredità culturale non dovrebbe pregiudicare la conservazione dell’eredità culturale attuale ? E’ forse un invito a non buttar via i vecchi schedari di carta e i libri rilegati passati allo scanner? O forse che una copia digitale diffusa in rete ha lo stesso valore dell’originale ai fini della divulgazione e conservazione della cultura? Testo ambiguo.
Le ultime sezioni della Convenzione sono la conclusione di quanto enunciato in precedenza. Parte 4, artt.15-17: Controllo e cooperazione; parte 5, artt.18-23: Clausole finali. Sono impegni che vanno dalla cooperazione internazionale al monitoraggio (tramite un comitato) e allo scambio di informazioni, ma non sembrano particolarmente vincolanti. Unica novità degna di nota è la possibilità di uno Stato di estendere il proprio intervento a realtà nuove ogni volta che se ne presenti l’occasione. Citiamo qui dall’art. 20.b, Applicazione territoriale:
Ogni Stato, in qualsiasi data successiva, può, mediante una dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, estendere l’applicazione di questa Convenzione a qualunque altro territorio specificato nella dichiarazione
In calce alla Convenzione, una serie di indicazioni in caso di ratifica.
Conclusioni e/o osservazioni.
Convenzione? Il testo sembra più un insieme di raccomandazioni, e in Europa di dichiarazioni di principio finora ne abbiamo viste proprio tante. La stessa relazione esplicativa precisa che le convenzioni quadro definiscono obiettivi generali e identificano aree di azione, non creando alcun obbligo di un’azione specifica e perciò lasciando allo Stato membro la competenza in merito alla forma e ai mezzi per raggiungere gli obiettivi fissati. Per quale motivo un documento poco vincolante è stato ratificato con tanto ritardo e neanche da tutti? Alla data attuale (settembre 2020) solo 20 stati hanno ratificato.
Nell’articolo 3 si parla per la prima volta di “patrimonio comune dell’Europa” e se ne fornisce una definizione chiara e scevra da religioni e nazionalismi.
Il baricentro si è spostato dagli oggetti agli uomini. C’è un forte accento sullo sviluppo di una società umana più democratica, pacifica e sostenibile. La peculiarità della Convenzione sta, infatti, nel superare la visione di un patrimonio culturale da tutelare soltanto per il suo valore intrinseco o scientifico, per promuovere la concezione di un patrimonio governato da più attori e valutabile anche attraverso l’efficacia del suo contributo allo sviluppo umano e al miglioramento della qualità della vita.
Si riconosce il diritto al patrimonio culturale, ma in che senso e in quali termini di responsabilità giuridica? E come verrà esso recepito all’interno del quadro giuridico e normativo dei singoli stati europei e del diritto internazionale?
C’è un passaggio importante dalla cultura materiale alla centralità della comunità che di questa cultura si assume la responsabilità della conservazione e della trasmissione. E’ come passare dal museo a qualcosa di più avvolgente e dinamico. L’ICOM (l’istituzione internazionale che coordina i musei) ancora non è riuscita a dare una definizione univoca e aggiornata di museo, ma questa convenzione fornisce interessanti linee guida in argomento.
L’articolo 2.a (vedi) è generosamente onnicomprensivo: la formulazione di patrimonio culturale è talmente estesa che nel concetto di eredità culturale è compreso tutto e il contrario di tutto. Come esercitare realmente le funzioni di tutela e valorizzazione e gestione davanti a una definizione così estesa?
E’ evidente un forte accento su realtà associative non statali o istituzionali: singole comunità locali, associazioni culturali, comunità patrimoniali. Il confronto fra enti di natura diversa non sarà facile: va necessariamente rielaborata una legislazione che coordini forme istituzionali di dialogo tra pubblico e privato per la gestione dei beni culturali o eredità culturale che sia. Da un lato viene esaltata l’importanza della partecipazione attiva delle comunità locali, ma dall’altra vanno perfezionati gli strumenti normativi.
Nell’art.12.b (vedi) si dice che gli Stati debbano prendere in considerazione il valore attribuito da ogni comunità patrimoniale al patrimonio culturale in cui essa s’identifica, ma in che modo gestirlo? In Italia il modello è fortemente statale e centralizzato, pur essendo l’Italia una democrazia.
La c.d. comunità patrimoniale è trasversale e numerose sono le organizzazioni o associazioni che, alla luce della Convenzione, possono definirsi tali. Sono gruppi flessibili, trasversali e aperti, più o meno spontanei, non necessariamente accomunati da parametri quali la cittadinanza, l’etnia, la professione, la classe sociale, la religione, ma piuttosto uniti da interessi e obiettivi simili. Possono avere un’estensione locale, regionale, nazionale, sovranazionale; essere temporanei o permanenti; formati da individui che appartengono allo stesso tempo a più gruppi, senza alcuno schema predefinito. Questa impostazione può superare gli schemi classici a cui siamo abituati.
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