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L’immaginazione al podere

07 MP LocationAlla fine la sceneggiatura era quasi pronta: una storia d’amore tradizionale o quasi, con le opportune (e trendy) contaminazioni del momento, opportunamente inserite nella trama. Gay e famiglie arcobaleno dovevano entrarci per forza, normali come la coppia in crisi o i contratti a termine. Ma l’idea portante era che la storia si dovesse svolgere all’interno di un’azienda agricola rivitalizzata da giovani imprenditori figli di vignaioli impoveriti dalla crisi. Inutile parlare di borsa e obbligazioni a un pubblico composto di famiglie che vivono in provincia, mentre invece le startup agricole stanno ora prendendo piede tra i giovani. Ma a quel punto le storie d’amore e le alleanze commerciali si sarebbero incrociate quasi meglio che nel realismo socialista, interagendo una con l’altra. Due coppie giovani e rispettivi genitori tradizionalisti in agricoltura ma abbastanza moderni in amore.

Ora, per chi non fosse pratico di produzioni cinematografiche, va detto che – a parte la scelta del regista – il problema non è trovare un paio di bravi scrittori e sceneggiatori, né fare il casting degli attori. Il vero problema è trovare i soldi per produrre il film. Per un film prodotto ce ne sono cinquanta che non vedranno mai la pellicola, e sul Giornale dello spettacolo le denunce di lavorazione non devono ingannare: son poco più che atti amministrativi e non è detto che quei film o sceneggiati saranno completati o persino iniziati realmente. Il finanziamento del cinema avviene essenzialmente attraverso il credito bancario. Ma devi dare garanzie, e in questo il mondo del cinema somiglia molto a quello dei palazzinari. Come un nuovo cantiere paga l’appalto precedente, così un film nuovo serve a pagare i buffi della produzione arretrata. E se un film incassa poco, bisogna subito produrne un altro di cassetta, altrimenti le cose vanno male. Ma sono anni che ormai ora si tende a vendere all’estero il film prima ancora che ne sia stata iniziata la lavorazione, attraverso compromessi di ogni genere, quindi dimenticate l’immagine del produttore vecchio stile – l’ultimo è stato Franco Cristaldi – e consideratelo ora come una via di mezzo fra l’imprenditore e l’appaltatore, con ottime (e necessarie) doti di intermediario. Se poi si riescono a programmare i passaggi televisivi ancora meglio, tanto la gente non va più al cinema e le sale chiudono. Naturalmente in prima serata certe cose sarebbero sconvenienti, quindi altri compromessi, anche se ormai al pubblico familiare fa piacere vedere la coppia gay o il migrante integrato per fidanzamento con la figlia. Però niente incesto, anche se ormai dilaga.

Ma torniamo al lavoro di budgeting (1). Una serie di accordi con la regione Puglia garantiva una serie di vantaggi finanziari sotto forma di defiscalizzazione nel caso fossero stati scelti per le riprese alcuni luoghi da valorizzare: fattorie e aziende dove sviluppare l’agriturismo, centri storici di piccoli paesi da ripopolare. Questo era coerente con l’idea di partenza: narrare la ripresa di un’azienda agricola vinicola. Che vino scegliere in questo caso? I vini pugliesi sono almeno una trentina (2). Parecchi produttori si misero in lizza e la produzione si vide recapitare parecchie casse di bottiglie, prontamente accantonate per le feste di rappresentanza. Era bastato inviare una serie di mail e di lettere con la carta intestata della produzione a una serie di aziende, specificando che non solo il loro marchio sarebbe stato visibile in alcune scene (sarebbe vietato, ma in commissione stanno attenti solo a sigarette e superalcolici), ma che la location avrebbe valorizzato le loro colline e le loro vigne e quindi la promozione turistica in Italia e all’estero. Qui nessuno s’inventava niente: è noto quanto gli stranieri amano il vino italiano e le loro zone di produzione, che tuttavia non sempre conoscono. Le vigne ben ordinate rendono il paesaggio gradevole, ma le bottiglie in tavola son sempre un valore aggiunto. Prendete il commissario Montalbano: è una buona forchetta e col pesce un buon bianco non può mancare. Alla fine si optò per un Bianco d’Alessano

Nella trama dovevano confrontarsi più generazioni: gli anziani vignaioli e i loro figli e nipoti che lottavano per modernizzare l’azienda agricola e renderla competitiva per il mercato estero. Trama banale, ma di sicuro effetto, mezza erede del grande romanzo russo ma aggiornabile ai tempi attuali. Centro dell’azione doveva essere la grande masseria di famiglia. Ma una variante fu introdotta per l’interessamento della Provincia autonoma di Bolzano, o meglio, di alcuni imprenditori altoatesini. In sostanza, se eravamo disposti ad ambientare parte della trama in alta val Venosta, c’era la possibilità di un sostanzioso contributo finanziario. Avremmo avuto almeno un albergo tutto per noi, addirittura ne sapevamo già il nome: a esser pignoli era il Fernblick a san Valentino alla Muta, in quel di Curon Venosta (Graun im Vinschgau). Bene o male dovevano rientrarci pure le mele col marchio appunto della valle, quindi niente mele del Trentino, ma neanche le austriacanti Marlene. Quanto al vino, andavano bene sia il Riesling che il Kerner, tanto tipici della val Venosta, ma fu scelto il secondo perché più vicino alla location. E’ comunque un ottimo bianco col pesce alla griglia.

Furono richiamati gli sceneggiatori. Potevano adattare la trama mischiando la Puglia col Sud-Tirolo? L’ibridazione era possibile o poco credibile? Visto che c’erano di mezzo i soldi, la produzione non avrebbe perso tempo: o si cambiava la trama o si cambiavano gli scrittori. In genere gli sceneggiatori si dividono in tre categorie: gli intellettuali, i professionisti e gli aspiranti. I primi sono insopportabili e lavorano solo per i grandi registi, gli altri sono duttili e scrivono a comando, adattandosi alla situazione in un modo sconosciuto all’intellettuale che frequenta da anni le sale d’essai e ama il cinema, ma nulla conosce del retrobottega produttivo. In modo analogo, chi scrive colonne sonore può essere un bravo musicista oppure un marchettaro del pentagramma, ma anche bravi professionisti hanno ogni tanto accettato sottobanco lavori in nero per sfamare la famiglia. La terza categoria, gli aspiranti, è quella che ha pure seguìto corsi di sceneggiatura e scrittura creativa, ma non conosce ancora i trucchi del mestiere e soprattutto non ha i giusti agganci per entrare nel giro. Se ne incontri uno, ti chiederà sempre “chi conosci?” Per cui, non appena qualcuno gli promette un lavoro, sono disposti a sgobbare anche di notte per riscrivere da capo scene e dialoghi. Lo sceneggiatore a contratto li chiamava i miei negretti, termine molto diffuso nell’ambiente. Ma grazie a loro si andava spediti. Erano riusciti tra di loro a formare un gruppo affiatato e questo era un vantaggio nei tempi serrati richiesti dalla produzione.

La prima idea era copiata da un vecchio fatto di cronaca: un giovane imprenditore del nord Italia s’innamorò di una ragazza calabrese che non avrebbe mai trovato marito dopo una violenza carnale subìta poco prima. In realtà erano stati i parenti a commissionare lo stupro, in modo da lasciare intatta la grande proprietà terriera di famiglia. Quest’uomo del nord era naturalmente estraneo a quella mentalità e fece capire che della verginità non gliene poteva fregare di meno. La cosa finì in tribunale perché, sempre per non frazionare il latifondo, i parenti di lei cercarono di fare la pelle al nordista guastafeste. La trama sembrava però più adatta a un film di Mario Salieri (3) che a un film per i canali televisivi. Piuttosto, i giovani agrari pugliesi avrebbero potuto conoscere i loro colleghi sudtirolesi durante una vacanza in val Venosta. Poco importa se il bel meridionale s’innamorasse della figlia del direttore della cantina sociale di Curon Venosta o il giovane sudtirolese produttore di mele e gestore del turismo perdesse la testa per la bellezza italiana conosciuta nell’albergo di famiglia: l’importante è che la famiglia si opponesse, in modo da terminare la serie televisiva con un bel matrimonio che integrasse nord e sud, italiani e sudtirolesi. E qui c’era solo da scegliere: trame simili sono vecchie come il mondo. Sicuramente uno del nord avrebbe suggerito la modernizzazione delle vigne pugliesi, ma era meglio non replicare lo stereotipo del sud arretrato. Su questo punto la discussione si protrasse per diverse ore, arrivando a un compromesso: il sud- tirolese non avrebbe messo bocca sulla gestione delle vigne pugliesi, ma sarebbe stata invece la bella ragazza del sud a far notare la modernità dell’economia altoatesina. Al ritorno dalla vacanza in montagna lo avrebbe poi riferito ai fratelli e al padre, naturalmente sordi come pentole. Manfred – chiamiamolo così – una volta presentato in famiglia, sarebbe stato oggetto di facili ironie, molto educato con tutti ma capace di chiedere perché il vino prodotto localmente si chiamasse primitivo.

Solo che i danni della xylella agli uliveti pugliesi avrebbero drasticamente indirizzato gli investimenti nel settore vinicolo. La falcidia degli ulivi secolari poteva essere sfruttata pure per mostrare all’estero l’arbitrio dell’Europa dei burocrati di Bruxelles verso i produttori di olio meridionali, e nella sceneggiatura qualcuno avrebbe magari detto che quegli uliveti secolari li avevano piantati i Greci. Su questo insisteva molto uno degli aiuto sceneggiatori, di Barletta, che aveva preso a cuore la sorte degli ulivi. Era lui che suggeriva le battute anche dialettali da mettere in bocca ai personaggi meno colti dello sceneggiato, né sapeva che il film sarebbe stato doppiato in inglese per l’estero. Quelle battute avrebbero compensato gli educati ma legnosi altoatesini dell’altra metà della trama, il cui accento e le movenze non potevano essere mascherate. La Provincia autonoma di Bolzano infatti aveva insistito per una serie di attori locali – alcuni in realtà austriaci e bavaresi – per favorire la distribuzione del prodotto nelle reti televisive di Innsbruck e Monaco, ma bisogna dire che per i nostri gusti quegli attori erano tutti bravi ma poco espressivi.

Tutto sarebbe a questo punto filato liscio: trama credibile, location finanziate, casting quasi pronto. I fotografi avevano già iniziato a fare i sopraluoghi sia in Puglia che in val Venosta, un brogliaccio di dialoghi era già strutturato, se non che arriva la telefonata del produttore, o meglio del gruppo di azionisti che avevano programmato la prevendita della serie. Fermi tutti, bisognava farci entrare un inglese. Un inglese? Certo: la serie forse si poteva vendere anche a una rete britannica, e da qui il contratto con Netflix era cosa fatta. Ormai i negretti erano abituati a questi cambiamenti di vento, per cui non si scomposero. Alla corte britannica si era nel frattempo celebrato il matrimonio tra il principe Harry e Megan e l’onda lunga dei rotocalchi sarebbe durata mesi. Un inglese, magari aristocratico, poi fa sempre scena, e nel nostro sceneggiato poteva essere stato il fidanzato della figlia del possidente pugliese quando lei era andata a studiare in qualche costoso college estivo nella terra di Albione. In fondo quella ragazza era una che se la tirava, come tante provinciali ricche, quindi la storia era più che credibile. Sarebbe stata anche l’occasione per mettere in mezzo qualche stilista italiano trapiantato a Londra, interessato a far conoscere le proprie collezioni. Anche la ragazza pugliese doveva essere elegantissima, ma Italian Style. Gli unici che forse avrebbero posto problemi di vestiario erano i crucchi altoatesini, ma a loro si sarebbe pensato in seguito. Già, ma il nostro inglese come reinserirlo nella trama? Veniva in Puglia da singolo o piuttosto con moglie e figli per godersi le gioie dell’agriturismo? E l’incontro dopo cinque anni sarebbe stato casuale o si sarebbero prima rincontrati su Facebook dopo qualche anno? La prima ipotesi avrebbe aggiunto un tocco melodrammatico alla vicenda, nel secondo caso sarebbe stata un tocco di classe al passo coi tempi, per cui la scelta non portò a discussioni. Ne frattempo si aspettava la decisione della banca…

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  • Il budgeting è una delle fasi iniziali e più importanti della produzione cinematografica e consiste nel reperire i fondi necessari alla realizzazione del film. I processi per il suo avvio nascono durante lo sviluppo, generalmente durante la scrittura della sceneggiatura, quando il regista deve proporre ai produttori dello studio cinematografico interessato un bilancio di spesa approssimato e ottenere da loro il mandato per procedere con la pre-produzione. Procedendo e dilungandosi nella produzione, il budgeting viene solitamente diviso in quattro aree: talento creativo (cast tecnico e artistico), produzione diretta (costo per costruzione di set e materiale necessario alla lavorazione), post-produzione (costo per le fasi di questo processo) e settori vari (completamento delle obbligazioni, distribuzione, marketing, etc).
  • Per la precisione: vini DOCG 4, vini DOC 29, vini IGT 6 (Fonte: UIV – ISTAT)
  • Mario Salieri, napoletano, è un affermato regista italiano di film pornografici, bisogna dire di qualità: trame decenti e legate alla cronaca o alla letteratura, attori e attrici che sanno recitare anche col volto. Anche la fotografia, affidata al bravo Nicola De Sisti e spesso in B/N, è di rara qualità nel mondo dell’hard. Dopo il 2008 – crisi dell’home video – si è adeguato all’internet. Grosse polemiche ha suscitato il suo remake (2017) de La Ciociara. (vedi: https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Salieri)

 

JOY

MP Cinema Joy locandinaIn Europa la prostituzione nigeriana è tra le più strutturate e consolidate, grazie a connivenze di ogni genere e allo sfruttamento di ragazze ignoranti e superstiziose. Il film inizia infatti in Nigeria, dove una ragazzina prima della partenza per l’Europa viene sottoposta a un rituale magico di tipo vudù, che la legherà a madame e al mestiere. Precious – questo il nome della ragazza forse diciottenne – verrà infatti mandata a fare la puttana e il film – dalla critica definito chissà perché piacevole e scorrevole – è in realtà molto duro e non fa sconti a nessuno. Qui siamo a Vienna, ma potrebbe essere la periferia di qualsiasi grande città europea, e la macchina da presa alterna le scene di marciapiede con quelle – inedite – della vita quotidiana delle ragazze sfruttate da madame e i suoi picciotti.

La regista Sudabeh Mortezai è nigeriana lei stessa, quindi il film è vissuto dall’interno della propria comunità, dove allo sfruttamento si unisce una buona dose di untuoso paternalismo. Come in Gomorra, nessuno riesce simpatico e madame è semplicemente un’ex puttana che ora sfrutta le nuove arrivate e le sottomette con la violenza fisica, psicologica e religiosa.

Ogni ragazza deve ripagarle 60.000 euro, verosimilmente entro cinque anni, ma le ragazze devono anche mandare i soldi a casa (ricordate le c.d. rimesse degli emigranti?), quindi imparano presto a spennare o impietosire i clienti, i quali nel film sono descritti per quello che sono. Fa eccezione un professionista disposto anche ad aiutare finanziariamente Joy, la ragazza che dà il nome al film, ma le differenze culturali tra i due rovinano subito l’intesa. Joy ha pure il compito di proteggere e istruire Precious, la ragazza di cui parlavamo all’inizio, la quale viene soggiogata ma vede in Joy una specie di madre. Purtroppo per lei, verrà presto mandata in Italia, dove l’aspetta solo un marciapiede diverso, mentre Joy nel frattempo ha finito di pagare il debito, anche se ora le servono altri soldi per far curare il padre. Poteva collaborare con la polizia, ma senza precise garanzie si è guardata bene dal rischiare. Una volta libera dal debito e sciolta pure dal sortilegio juju, abbandona quella specie di “comune” e va ad abitare da sola, continuando in proprio l’unico mestiere per lei redditizio. Si prostituisce nei locali e gestisce privatamente una ragazza arrivata da poco, ma in questo modo pesta i piedi a madame.

Morale: viene arrestata da due poliziotti e rimandata al paese suo con decreto di espulsione immediato (non ditelo a Salvini, ma in Austria fanno sul serio). Nelle ultime scene vediamo Joy di nuovo in Nigeria, mentre cerca di pagarsi un passaggio che la riporti di nuovo in Europa con il solito giro mafioso. Come si vede, nel film non c’è redenzione né happy end; le cose vengono descritte per quelle che sono. Vigorosa l’interpretazione della protagonista (Joy Anwulika Alphonsus), la quale senza accorgersene finisce per fare più o meno quello che madame faceva con lei. Dunque, il cerchio ancora non si chiude.

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Joy
Regia di Sudabeh Mortezai
Un film con Joy Anwulika, Alphonsus, Angela Ekeleme Pius, Precious Mariam, Sandra John
Genere Drammatico
Austria, 2018, durata 100 minuti.

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Un bianco e nero rivelatore

MP Cinema 195412 agosto 1945; da qualche parte della campagna ungherese, un lento treno a vapore percorre sbuffando la pianura e si ferma in una piccola stazione prima di continuare il suo viaggio. Sicuramente è l’unico treno della giornata e ne scendono anche due ebrei osservanti – verosimilmente padre e figlio – con due casse di bagaglio. Li aspettano un carro e un paio di facchini, mentre un pugno di soldati russi ronza sempre intorno: siamo  nel 1945, come suggerisce data il titolo al film del cinquantenne Ferenc Török, a guerra appena finita. Mentre si scarica il bagaglio (contenuto dichiarato : profumi) il capostazione in divisa cerca di precedere in bicicletta questi strani viaggiatori diretti al villaggio, poco più che un borgo agricolo a una decina di chilometri dall’assonnata stazione. In montaggio alternato (montatore: Bela Barsi), vediamo ora il capostazione che pedala e arriva al villaggio, ora i due austeri giudei che seguono a piedi il carro dove hanno fatto caricare il loro ingombrante bagaglio. I soldati russi comunque continuano sempre a ronzare intorno, a bordo di una usurata jeep americana. Per il villaggio non è un giorno come tutti gli altri: il figlio del vicario si sposa con una giovane contadina del posto, che diventerà d’ora in poi moglie del droghiere (ma in realtà ha già un amante, un giovane e robusto contadino peraltro già fidanzato). La notizia dell’arrivo dei due ebrei si sparge dunque rapidamente e disturba i preparativi per la festa di nozze. Tutti i paesani iniziano a discutere tra di loro, ad agitarsi, l’osteria diventa un comizio e le donne del villaggio diventano tutte nervose. Ognuno è polemico col vicino e l’armonia della comunità sembra un ricordo. Ma che è successo? Premetto che il film io l’ho visto in lingua ungherese con sottotitoli non sempre leggibili, vuoi perché stavo in fondo alla sala, vuoi perché il film è in superbo bianconero. Ebbene, anche seguendo i soli movimenti di macchina si capisce benissimo il motivo della crisi: tutti hanno qualcosa da nascondere e hanno paura che i due ebrei possano riprendersi quello che durante la guerra era stato loro confiscato; peggio ancora se ne tornassero altri (ma nel 1945 poco si sapeva dell’Olocausto). E’ un film fatto di dettagli: a casa di uno dei paesani – un ubriacone e delatore – il quadrante dell’orologio a muro conserva le cifre in ebraico, e in un’altra scena una massaia cerca di nascondere nel granaio stoviglie d’argenteria sicuramente non sue. Tutto il villaggio è stato dunque complice di un’appropriazione indebita e tutti ora hanno paura di pagare il conto. La presenza dei due taciturni ebrei fa dunque da catalizzatore dei contrasti latenti, al punto che un paesano s‘impicca, lo sposo litiga con suo padre e decide di emigrare, il matrimonio salta e la promessa sposa, abbandonata a poche ore dalle nozze, dà fuoco alla drogheria mentre l’aspettano in chiesa. Ma i due taciturni e ieratici personaggi hanno ben altro da fare: si recano al locale cimitero e fanno scavare una fossa intorno a una delle tombe. Mentre gli operai sterrano, tutti intorno si chiedono – noi compresi, ammettiamolo – quali tesori gli ebrei devono dissotterrare. Interviene anche il notaio del villaggio, l’unica autorità locale riconosciuta, chiedendo educatamente spiegazioni. Ebbene, i due ebrei sono tornati soltanto per seppellire nelle tombe di famiglia – avvolti nei panni rituali ebraici – gli effetti personali dei loro parenti morti nei campi di sterminio. Agli abitanti del villaggio non chiederanno mai niente, il notabile lo capisce e stringe loro la mano in segno di rispetto. E così come sono venuti – nello stile classico, si direbbe, dei film western –  padre e figlio se ne andranno lentamente per andare chissà dove, riprendendo lo stesso treno che abbiamo visto nella scena iniziale.

Il film è girato in uno scarno bianco nero, sotto la sapiente direzione della fotografia di Elemér Ragályi. Produrre nel 2018 un film in B/N può sembrare una follia, ma ricordiamo qui una frase che Wim Wenders mise in bocca a uno dei suoi personaggi: “Il mondo è a colori, ma il bianconero è più realistico”. E mi piace ricordare anche una frase pronunciata dalla regista ungherese Marta Meszàros a proposito del suo film Diario per i miei figli (1982): negli anni ’50 era il mondo ad essere in bianco e nero. Qui siamo addirittura nel 1945, in un’Ungheria rurale quasi fuori del tempo, se a datare le vicende non vedessimo i soldati russi che tutto sorvegliano e per l’appunto quei due ebrei che tornano nel villaggio in cui abitavano prima della guerra, nelle campagne dove il pregiudizio antisemita era latente da sempre: in argomento ricordo un vecchio film ungherese, I miei primi trecento anni , visto negli anni ’80.

Il film ha trovato una distribuzione italiana e sta avendo un discreto successo, vista le sue qualità intrinseche.

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1945
di Ferenc Török
Con Péter Rudolf, Eszter Nagy-Kalozy, Bence Tasnádi, Tamás Szabó Kimmel, Dóra Sztarenki
2017 Ungheria, durata 91’
prodotto da Katapult Film
distribuzione italiana: Mariposa Cinematografica e barz and hippo

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Un riflessivo Sorrentino

di Giulia Lich –

Ho letto varie critiche al film di Sorrentino, tra le quali quelle di essere un film lento. Sorrentino è un regista che cura attentamente le immagini e che spesso si lascia andare a visioni simboliche, rischiando ogni volta di cadere nell’autocompiacimento, ma la lentezza non può essere la vera accusa. Forse il film non è piaciuto ai fan di Silvio, o ai suoi peggiori detrattori, o a chi si aspettava più politica,semplicemente perché,almeno in questa prima parte, non è un film su Berlusconi, ma su ciò che siamo diventati e che saremo sempre più anche a causa di Berlusconi (cui merito /colpa è di aver dato linfa ad un bisogno ben presente in molti italiani).

Se non è sufficiente la metafora della pecora ipnotizzata dai quiz di Mike, ecco scendere in campo la lunga carrellata di corpi giovani e perfetti, ragazze spersonalizzate già in formato velina, specchio della generazione instagram di potenziali Chiare Ferragni, la cui vendita di culi e tette non rientra più nella dicotomia morale/immorale, ma è semplicemente l’unica forma amorale di esistenza.

C’è anche il connubio sesso/potere, cui propulsore sono fiumi di coca, ma fa da sfondo,così come la Roma ancora formato “grande bellezza”, protagonista di quest’eterno “basso impero” in cui tutto è già visto e da vedere.

Se un rinoceronte può correre sulla Colombo (abbiamo visto maiali, asini e cinghiali), è il ratto a innescare la deflagrazione di un camion di mondezza, sommergendo il Foro e noi stessi sotto una cascata di merda, pronta a trasformarsi nella pioggia anfetaminica booster di un’orgia perenne, cui unica finalità è la cristallizzazione in quella vita “Smeralda” non a caso anticipata dai Vanzina anni ’80.

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Loro 1

di Paolo Sorrentino
Con Toni Servillo, Elena Sofia Ricci, Riccardo Scamarcio, Kasia Smutniak, Euridice Axen

durata 104 min.
Italia 2018.
Universal Pictures

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Achille Nero

La pratica cinematografica di fare interpretare dei personaggi di un film o di una serie televisiva ad un attore di un’etnia diversa non risparmia neanche l’Iliade di Omero: nel 2018 Netflix e la BBC trasmetteranno Troy: Fall of a City, rifacimento televisivo del celebre poema greco, con un Achille interpretato da David Gyasi. attore afroamericano già noto per i suoi notevoli ruoli in Interstellar e ancor prima in Cloud Atlas. Nella polemica seguita all’evento, sono stati confusi due piani diversi anche se correlati: la reinterpretazione del mito e il suo adeguamento alle differenze culturali subentrate al testo classico. Per il primo punto, nessuno può e deve dire niente: miti millenari sono stati reinterpretati centinaia di volte e con successo da artisti, scrittori e registi. E visto che si parla del colore della pelle, cito Orfeo negro (1959), lo stupendo film scritto da Albert Camus, dove il mito di Orfeo ed Euridice viene reinterpretato e ambientato nel carnevale di Rio. Per il secondo punto, il politically correct, la questione in realtà non è nuova. I poemi omerici hanno sempre goduto di grande popolarità, ma nella Francia del re Sole e del barocco di corte era imbarazzante seguire le gesta di sovrani che scannano montoni davanti all’ospite e guerrieri che si coprono di insulti. Questo urtava le convenzioni sociali del tempo, anche se non era colpa di Agamennone se era vissuto nell’età del bronzo, quasi tremila anni prima. Risultato? Le traduzioni in francese dell’epoca sono un capolavoro di diplomazia. Ma ancora quando facevo io il liceo si sorvolava sull’episodio di Telemaco che cerca di rendersi indipendente da Penelope, perché il linguaggio di un figlio verso sua madre era ritenuto irrispettoso! E sempre in quei tempi, nell’Eneide televisiva firmata da Franco Rossi (1971) all’unione del maturo Enea con la giovane Lavinia viene affiancata una sub-trama di un coetaneo che corteggia la fanciulla: una love story ipocrita che mette in secondo piano il rapporto fra Enea e Lavinia e la loro differenza di età. In realtà anche la vergine Maria era giovanissima, visti i costumi dell’epoca, ma questo il pubblico televisivo non l’avrebbe accettato.

E passiamo dunque al nostro Achille Nero. Ovviamente tale non poteva essere, visto che era miceneo. Fosse stato il capo dei Garamanti o dei Numidi o degli Etiopi (popoli africani già noti a Omero), allora era diverso. Ma ammettiamo pure che l’Iliade non è un documento storico, quindi del testo classico uno può farne quello che vuole: per un jazzista è normale improvvisare variazioni su un tema di Bach, il quale del resto faceva lo stesso con la musica del suo tempo. Il vero problema di Achille Nero è piuttosto la debolezza del progetto: la motivazione sembra tutta commerciale, allo stesso modo in cui anche la nostra pubblicità ora è piena di colori alla Benetton. Non saranno i lineamenti somatici di un attore ad interferire con gli amori, intrighi, tradimenti e battaglie del un kolossal a episodi, non per nulla annoverato come Historical fiction – Fantasy, girato a Città del Capo, in Sudafrica, impegnato a offrire il racconto, e non storia, della presa di Troia vissuta attraverso lo sguardo dei vari protagonisti, con il punto di vista della famiglia reale troiana. Se veramente avesse voluto reinterpretare il mito, il regista avrebbe potuto rappresentare sia il re Menelao che la bellissima Elena con la pelle scura, Paride essendo invece adatto a simboleggiare la prepotenza dello sfruttamento coloniale europeo. A quel punto la guerra di Troia sarebbe stata la stupenda metafora di un popolo che si riprende quello che altri gli hanno espropriato con la forza e con l’inganno. Ma questo è solo un suggerimento letterario. Purtroppo Bertolt Brecht non è più di moda.

 

Magazine di Spunti & Riflessioni sugli accadimenti culturali e sociali per confrontarsi e crescere con gli Altri con delle rubriche dedicate a: Roma che vivi e desideri – Oltre Roma che va verso il Mediterranea e Oltre l’Occidente, nel Mondo LatinoAmericano e informando sui Percorsi Italiani – Altri di Noi – Multimedialità tra Fotografia e Video, Mostre & Musei, Musica e Cinema, Danza e Teatro Scaffale – Bei Gesti