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“Khartoum” di Basil Dearden

Il racconto dell’assedio di Khartoum da parte del Mahdi e della resistenza operata da Charles Gordon. Una delle pellicole più celebri del cinema inglese, incentrata sulla più grande rivolta mai operata in Sudan.

Khartoum

1884: ad el Obeid, in Sudan, un esercito di 10’000 soldati anglo-egiziani vengono uccisi dai ribelli fedeli a Muhammad Ahmad, il neo proclamato Mahdi. La presenza di 15’000 cittadini britannici a Khartoum, spingerà allora il governo britannico ad inviare in Sudan il generale Gordon, eroe dell’Impero che già si era occupato del paese. La sua missione appare però fin da subito disperata e l’inglese si darà un gran da fare per potenziare al meglio le difese, riuscendo a far circondare completamente la città dal Nilo.

Un colloquio con il Mahdi risulterà pieno di stima ma privo di sostanza, rendendo chiaro a Gordon che la fine è ormai vicina. A questo punto il condottiero britannico non potrà far altro che sperare in un aiuto in extremis, mentre tenta di far risalire ai suoi concittadini il corso del fiume.

Eroe britannico

Il film, uscito nelle sale nel 1966, narra la caduta di uno dei più celebri eroi dell’Impero britannico, Charles Gordon, caduto infine proprio durante tale assedio. La celebrazione a tale personaggio sarà la chiave portante di tutto il film, trasponendo esattamente l’idea che avevano gli inglesi sia di questa battaglia che del loro ruolo nel mondo. Il “buono” è l’europeo venuto a “civilizzare” in Africa, non l’africano a cui la terra è stata sottratta.

Khartoum
Gordon e il Mahdi

Va detto che la figura del Mahdi, per quanto non compresa, viene comunque rispettata durante tutto il film. Tuttavia, anche se a vincere saranno poi i locali, il focus non sarà mai sugli indigeni e sulle loro motivazioni continuando ad essere una celebrazione di Gordon e dell’Impero.

L’ultima vittoria del Mahdi

La pellicola resta però estremamente interessante per la presenza di questo personaggio, simile, sotto moltissimi aspetti, a Lalla Fatma n’Soumer. Con la condottiera algerina, infatti, condividette sia la presunta vicinanza a Dio, sia un’incredibile abilità militare. Il Mahdi, in arabo “il ben guidato/il messia”, fu anche in grado di concludere da vincitore la propria campagna. A differenza della magrebina non venne mai sconfitto, cadendo, probabilmente per tifo, pochi giorni dopo la vittoria di Khartoum.

Khalid Valisi
del 21 giugno 2019
Articolo originale
dal blog Medio Oriente e Dintorni


Cantate Domino – Postilla

Di musica liturgica avevo scritto in modo articolato su queste pagine (vedi) e non intendevo più tornare sull’argomento, se non avessi ora letto l’ultimo documento del Papa Emerito, il quale mi ha illuminato sui motivi dello scadimento del canto che deve accompagnare la liturgia. Per correttezza riporto per intero la parte che m’interessa:

Pensiamo a questo riguardo a una questione centrale, la celebrazione della Santa Eucaristia. Il nostro modo di trattare l’Eucaristia non può che suscitare preoccupazione. Il Concilio Vaticano II si è giustamente concentrato sul riportare questo sacramento della Presenza del Corpo e del Sangue di Cristo, della Presenza della Sua Persona, della Sua Passione, Morte e Risurrezione, al centro della vita cristiana e dell’esistenza stessa della Chiesa. In parte, questo è realmente avvenuto, e dovremmo essere molto grati al Signore per questo.

Eppure è prevalente un atteggiamento piuttosto diverso. Ciò che predomina non è una nuova venerazione per la presenza della morte e risurrezione di Cristo, ma un modo di trattare con Lui che distrugge la grandezza del Mistero. Il calo della partecipazione alla celebrazione eucaristica domenicale dimostra quanto poco noi cristiani di oggi sappiamo ancora apprezzare la grandezza del dono che consiste nella Sua Presenza Reale. L’Eucaristia viene svalutata in un mero gesto cerimoniale quando si dà per scontato che la cortesia esiga che Egli sia offerto in occasione di celebrazioni familiari o in occasioni come matrimoni e funerali a tutti gli invitati per motivi familiari.

Il modo in cui le persone spesso ricevono il Santissimo Sacramento nella Comunione come una cosa ovvia mostra che molti vedono la Comunione come un gesto puramente cerimoniale. Pertanto, quando si pensa a quali azioni siano necessarie in primo luogo e soprattutto, è piuttosto ovvio che non abbiamo bisogno di un’altra Chiesa di nostra iniziativa. Piuttosto, ciò che è richiesto in primo luogo e soprattutto è il rinnovamento della Fede nella Realtà di Gesù Cristo che ci è stata data nel Santissimo Sacramento

Dunque: dalla Trascendenza si scende al Convivio, dal Mistero alla Cerimonia; dalla mistica celebrazione del Sacramento si arriva all’Assemblea di quartiere, alla gioiosa Mensa comune aziendale. A questo punto è quasi normale spingersi fino all’estrema, logica conseguenza successiva: l’esaltazione di un repertorio musicale secolare. Se è una festa di famiglia o di quartiere, tutto diventa un musical, la celebrazione di un incontro tra famiglie di credenti. La musica sacra ha infatti valore soltanto se ha valore il Sacro, altrimenti è cosa buona e giusta cantare Sanremo con le parole cambiate. Ringrazio a questo punto il cardinal Ratzinger per avermi dato la chiave di lettura che mi mancava. Purtroppo il Papa Emerito era più colto dell’epoca in cui è stato costretto a vivere.

Precedentemente:

Cantate un canto nuovo
Del 2 Febbraio 2018
“Cantate Domino canticum novum, cantate Domino omnis terra” (Salmo 96)

L’implacabile Gabin

Jean Gabin, il freddo, malinconico, disincantato eroe del “realismo poetico” francese anni ‘40-‘50, la maschera perfetta, taciturna e disperata evocata dalle poetiche sceneggiature di Prevért e dalle struggenti canzoni di Kosma.
Un mondo di reietti, vittime predestinate di eventi fatali e ineluttabili. Alba tragica, Il porto delle nebbie e poi Grisbi nel dopoguerra, quando Gabin ritorna al cinema con il nuovo personaggio dell’implacabile gangster, ma eticamente provveduto, (l’onore, l’amicizia, la parola data) con l’eterna piega amara, gli occhi perduti lontano, i sempre più rari sorrisi della bocca tagliata come una ferita. Un mondo perduto di criminali poeticamente esistenziali, di umide città notturne e di nostalgiche “feuilles mortes”. In coppia con Michèle Morgan, il Gabin al femminile, poche parole, molti sguardi, personaggi d’una cartolina in bianco e nero che ritorna da una Francia, anzi una Parigi perduta, la città delle città. Parigi è tutto, Parigi è il mondo: ricordate il nostalgico monologo di Pepé le mokò, gangster relegato nella casbah di Algeri, che rievoca con occhi sognanti le strade, i “bistrots” di Parigi?
Parigi e Gabin ritornano, entrambi fatiscenti e nostalgici del bel tempo che fù in Le chat, l’implacabile uomo di Saint-Germain del ’71 di Granier-Deferre, dove assistiamo al compiersi di due destini irrimediabili: lo stravolgimento tra gru e cantieri della vecchia città e gli ultimi giorni di due vecchi coniugi (Gabin e la commovente Simone Signoret) asserragliati in una vecchia casetta, innamorati un tempo, con niente più da dirsi, con l’elenco da sfogliare di giorni inutili e silenziosi. Grande Signoret, umiliata nel suo amore respinto da un Gabin monumento di pietra, freddo e taciturno più che mai, prodigo di carezze solo per un gatto. Capita. Solitudini, gelosie di vecchi, ripicche di non parlarsi più, il tempo della vita scorre buttato via stupidamente, senza avere più il coraggio di volersi bene, di dirselo, di capire che non si può fare a meno dell’altro, gatto o non gatto. E quando lei morirà, il vecchio orso capirà tutto in un momento, adesso è chiaro: non c’era altra vita senza la sua donna.
Un pugno di pasticche e, alé! Il vecchio implacabile uomo scompare insieme alla sua casetta, alla sua vecchia Parigi, assediato da crolli e sventramenti.
Amaro, anzi amarissimo film, da ritrovare e consigliare a chi si sciroppa troppe melasse e troppi zuccheri; storia disperata col vecchio, marmoreo Gabin che idealmente si riallaccia all’operaio, al fuggitivo, al gangster di quarant’anni prima, all’eroe prevertiano del “realismo poetico” fatto di stracci e fiori, all’uomo omericamente segnato dal Fato, con lo sguardo perduto e l’eterna sigaretta appesa alle labbra “tagliate” a lametta. Attore e uomo coerente a sé e alla sua storia: uomo implacabile, storia implacabile. Da rivedere.

da ORIZZONTI 2000-2001
La Cineteca Dimenticata

“The Beirut School” dei Mashrou’Leila

È stato finalmente rilasciato il nuovo album dei Mashrou’ Leila: The Beirut School. Dopo un attesa lunga 4 anni, il più grande complesso Middle East torna con una celebrazione dei 10 anni del gruppo. Un solo problema: nell’album c’è un solo inedito, Cavalry.

10 anni insieme

I Mashrou’Leila fanno il loro ritorno sulle scene in grande stile, omaggiando i loro 10 anni di successi. Un album che contiene tutte le tracce più interessanti di questo complesso, vera e propria leggenda dei giorni nostri. Un vero e proprio viaggio nella storia della band che ha come tappe finali Cavalry e una rivisitazione di Salam. Un vero e proprio omaggio a tutti i fan che li hanno seguiti dal primo all’ultimo giorno di questa lunga cavalcata verso il successo.

Mashrou'Leila
Le date del tour europeo

Purtroppo, però, oltre a questo l’unica nota positiva dell’album è l’imminente tournée europea, conclusasi giusto una settimana fa dopo aver toccato diverse città del Nord Europa. Dopo 4 anni di assenza ci si aspettava davvero qualcosa di più, specie per come è stato gestito il tutto.

Poco collezionabile

Chiariamo fin da subito: questo tipo di operazioni commerciali si fanno da anni e in qualsiasi campo dell’intrattenimento, il problema di questa è che stata gestita male. Non è raro infatti imbattersi in “edizioni limitate” o rimasterizzate che ripropongono lo stesso prodotto ma con qualche extra, in questo caso sono mancati. Abbiamo disperatamente provato a capire se esistesse una sorta di limited edition ma perfino su Amazon manca la possibilità di un ordine fisico di ogni sorta.

Mashrou'Leila

I Mashrou’Leila

In un mondo dove si può ascoltare perfino Bi Kidude con pochissimi clic, un album-compilation fa una pessima figura e risulta un modo per “fare il concerto dei 10 anni”. Senza nessun extra, inoltre, l’album diventa del tutto inutilizzabile anche per il futuro. Perché chi ha già quei brani dovrebbe riacquistarli o anche solo sostituire quelli che ha già? Ci fosse stato il classico “contentino” come il “dietro le quinte”, l’album avrebbe almeno avuto l’appeal collezionistico, così è davvero insignificante.

Inspiegabile

Siamo da sempre fan dei Mashrou’Leila e proprio per questo ne parliamo con estrema sofferenza. Cavalry prometteva un album davvero spettacolare, i 4 anni di attesa e l’anniversario ci avevano fatto sperare in un ritorno in grande stile, per farlo così potevano anche risparmiarsi la fatica. La cosa che ci delude ancor di più è che sarebbe bastato davvero poco a far qualcosa di bello, anche senza sforzarsi. Negli anni, infatti, il gruppo non è stato fermo ma ha anzi collaborato con diversi grandi artisti Middle East e non, riuscendo anche a produrre pezzi originali ed interessanti, sarebbe bastato riproporre quelli.

Scrivendo ogni giorno ci rendiamo benissimo conto che, alle volte, scrivere qualcosa di interessante sia una vera e propria impresa; in 4 anni di assenza però ci si aspettava qualcosa di più. Così com’è l’album risulta una mera operazione per ricavare del profitto sul loro stesso anniversario. Un’operazione che si non si addice alla storia di questo gruppo e dalla quale speriamo di essere a breve smentiti. Voi cosa ne pensate? Vi è piaciuto il “nuovo” album?

Khalid Valisi
del 29 marzo 2019
Articolo originale
dal blog Medio Oriente e Dintorni

Velázquez. L’ombra della vita

Lo scorso febbraio Rai5 ha regalato al grande pubblico il bellissimo documentario in 4 puntate “Velázquez. L’ombra della vita”, diretto da Luca Crescenti e brillantemente commentato da Tomaso Montanari, celebre storico dell’arte che insegna attualmente all’Università per stranieri di Siena. Uso non a caso il verbo “regalare”, perché ho trovato questa divulgazione particolarmente generosa: non solo per la ricchezza di informazioni, per la chiarezza espositiva e per l’eccezionale qualità scientifica che si concede oltre la cerchia degli studiosi, ma anche e soprattutto per la grande lucidità e profondità di lettura dell’opera d’arte da parte dello storico fiorentino. Una lettura che va ben oltre la contemplazione delle sorprendenti qualità pittoriche delle tele presentate, ma che è capace di farle parlare a distanza di secoli e rendere le loro “parole” impastate nei colori di bruciante attualità. Forse tutti gli studenti di storia dell’arte dovrebbero vedere questo documentario, per prendere coscienza del valore non solo storico ma anche sociale, e oserei aggiungere politico, del mestiere difficile che ci attende. In fondo nell’arte è sempre stata connaturata l’idea di una trasformazione del reale, la speranza che la Bellezza possa salvare il mondo, e le appassionate spiegazioni di Montanari vanno esattamente in questa direzione.

Nato a Siviglia nel 1599 – anno particolarmente felice per la storia dell’arte, che diede i natali anche a Gian Lorenzo Bernini e a Anthony Van Dyck – il giovane Diego fece i suoi primi passi nell’atelier di Francisco Pacheco, divenuto più tardi suo genero, e si incamminò nella via già percorsa da Caravaggio e dai bamboccianti dei quadri di taverna, i cd “bodegones”. La sua straordinaria presa sul reale e il suo irrinunciabile rapporto con il modello naturale lo pongono subito in stretto dialogo con il Merisi, di cui fu l’erede più diretto. Gli esiti di questo primo periodo sono ben rappresentati dal Venditore di acqua di Siviglia (1620, Apsley House, London). Il destino del pittore non era però quello di rimanere nella città natia a dipingere preziose scene di genere, ma di approdare alla corte di Madrid e ritrarre il giovane sovrano Filippo IV, divenendo ben presto il suo pittore di corte. Tutta la parabola artistica e personale di Diego sarà irrimediabilmente intrecciata a quella del re, il cui lento decadimento fisico e politico è registrato negli anni con sorprendente lucidità e commozione dal suo fidato pittore. Forse il ritratto più illuminante in questo senso è quello del sovrano vincitore dopo la repressione della rivolta catalana (il cd. Ritratto di Fraga, 1644, Frick Collection, New York): il volto triste e malinconico del re stride con l’abito scintillante da parata, reso con sorprendente libertà espressiva, e non comunica affatto l’immagine della monarchia trionfante.

Tra le bellissime spiegazioni di Montanari, merita una menzione d’onore quella del ritratto di Juan de Pareya (1650, Metropolitan Museum, New York), dipinto secondo la tradizione la notte prima di cimentarsi con il ritratto del perfido Innocenzo X, “per ammorbidirsi le mani”. È l’immagine di un ultimo, il servo morisco del pittore, che lo seguiva ovunque nei suoi spostamenti macinando i colori e passando lo straccio sui pavimenti. Eppure, mai come in questo quadro la pittura si è fatta viva carne, mostrandoci con straordinaria presenza la figura di un uomo pieno di dignità nella posa e di bonaria umanità negli occhi: grandi occhi neri, intensi e appassionati, desiderosi di innalzarsi alla sfera superiore dell’arte. Infatti, seguendo l’esempio del suo padrone Juan si era accostato alla pittura (conosciamo una sua Vocazione di s. Matteo dove appare il suo stesso autoritratto) e poté presto realizzare il suo sogno, dal momento che pochi mesi dopo Velázquez si impegnò di fronte alla legge a liberarlo entro 4 anni, come apprendiamo da un atto notarile redatto a Roma. Tutta la dignità che sa dare al suo schiavo nero, il Maestro la toglie crudelmente al rampollo di turno della corte pontificia, il cardinal nipote Camillo Astalli Pamphili, il cui volto vacuo e del tutto privo di qualità personali sfila beffardamente a fianco dell’intensissimo ritratto di Juan de Pareya nell’attuale allestimento al Metropolitan Museum di New York. La lezione di umanità di questo meraviglioso ritratto di schiavo è ritenuta da Montanari particolarmente eloquente in un periodo storico come questo, caratterizzato dall’involuzione razzista e xenofoba in Europa come in America, ed è impossibile dargli torto.

In una lettera del 3 settembre 1865 il grande padre dell’impressionismo Eduard Manet scrisse: “Velázquez da solo vale il viaggio […] È il pittore dei pittori, non mi ha stupito ma rapito”. Il pittore francese sancì presso i suoi contemporanei la consapevolezza di Diego Velázquez come un pittore moderno, quasi un preimpressionista, anche se sappiamo che la straordinaria libertà della sua pennellata, le macchie di colore “che non somigliano al reale ma che sono vere”, in quanto riproducono l’impressione vera e viva delle cose, derivano in ultima istanza dalla grande pittura veneziana del Cinquecento. Dopo Manet altri grandi pittori del calibro di Picasso, Dalì e Francis Bacon, con la celeberrima serie ispirata al ritratto di Innocenzo X, pagarono il loro tributo a Velázquez.

La grandezza del pittore spagnolo risiedette nella capacità di catturare con la sua tavolozza la materia della vita, la sua luce e i suoi colori, ma anche ciò che promana dall’anima delle persone, o l’assenza di questo contenuto profondo, come nel caso del ritratto del fatuo cardinal nipote. La grandezza del prof. Montanari è stata quella di restituirci non solo intatta, ma anche accresciuta di nuovi messaggi del nostro tempo, la stupefacente eredità di Velázquez.

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Per rivedere gli episodi di “Velázquez. L’ombra della vita”, vai al seguente link: https://www.raiplay.it/ricerca.html?q=velazquez%20-%20l%27ombra%20della%20vita

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