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Sopravvivere nell’invisibilità delle baraccopoli

L’esposizione ha l’obiettivo di mostrare gli enormi bisogni umanitari e medici di donne, uomini e bambini costretti a vivere in vere e proprie “bombe a orologeria” umanitarie. La mostra, frutto della collaborazione fra Medici Senza Frontiere (MSF) e l’agenzia fotografica NOOR, propone il lavoro di cinque fotografi (Stanley Greene, Alixandra Fazzina, Francesco Zizola, Jon Lowenstein e Pep Bonet) che hanno visitato i progetti dell’organizzazione medico-umanitaria in altrettante bidonville: Dhaka (Bangladesh), Karachi (Pakistan), Johannesburg (Sud Africa), Port-au-Prince (Haiti) e Nairobi (Kenya). Le fotografie e i video-documentari che hanno realizzato accendono un riflettore sulle fasce di popolazione più povera che emigrano in massa dalle regioni rurali verso le città, nella maggior parte dei casi finendo nelle bidonville che crescono in modo esponenziale. I visitatori potranno entrare nel cuore di immense baraccopoli “invisibili” al mondo esterno e toccare con mano le condizioni di vita estreme e le sfide che MSF sta affrontando, ogni giorno, per assistere la popolazione: malnutrizione, acqua contaminata, mancanza di servizi igienico-sanitari, infezioni, HIV/AIDS. In Asia, il fotografo Stanley Greene documenta la vita nella baraccopoli di Dacca (Bangladesh), tra malnutrizione infantile, assenza di servizi igienico-sanitari e vulnerabilità alle catastrofi naturali; Alixandra Fazzina racconta attraverso i suoi scatti la baraccopoli di Karachi (Pakistan) dove MSF assiste le persone affette da HIV/AIDS e tubercolosi. L’Africa è invece vista attraverso l’obiettivo dei fotografi Francesco Zizola che ha viaggiato a Nairobi (Kenya), fra gli abitanti di Kibera, la maggiore baraccopoli della capitale, e Pep Bonet che documenta la vita degli immigrati dello Zimbabwe presenti a Johannesburg (Sud Africa) e di coloro che vivono nella baraccopoli della città, lottando contro HIV/AIDS e tubercolosi multiresistente ai farmaci. Infine, Haiti, dove Jon Lowenstein racconta la violenza e le difficoltà di Martissant, baraccopoli della capitale Port-au-Prince, colpita anche dal colera.

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Roma

Museo di Roma in Trastevere

URBAN SURVIVORS

Dal 15 dicembre 2012 prorogata al 17 febbraioio 2013

Info: tel. 060608 (tutti i giorni ore 9.00 – 21.00)

MSF

Museo in Trastevere

Info

URBAN SURVIVORS

 Mostre Urban Survivors Sopravvivere nelle baraccopoli01

 

Artisti Americani a Roma

Mostra

ARTISTI AMERICANI A ROMA

dalla fine degli anni ’60 agli anni ’90

opening il 17 gennaio 2013, alle ore 18.00

Una selezione delle oltre cento opere di piccolo e medio formato, in gran parte su carta, ma anche su tela e delle sculture, dei veri soprammobili, di metallo o di ceramica, raccolte nell’arco di una quarantina d’anni da Maria Verzotto durante la sua presenza all’Accademia Americana di Roma. 

Schizzi, dipinti compiuti, sculture e bozzetti, dal figurativo tradizionale, all’astratto, alla grafica per temi e tecniche altrettanto diversi e alterni. 

Un excursus sulla tradizione nordamericana in un vitale scambio con la tradizione europea, attraverso le opere di artisti come: Anthony Ames, Charles Dwyer, Paul Kubic, Karen Saler, Varujan Boghosian, Gyorgy Kepes, John Wenger, Edgard Haag, Laura Newman e Frederic Biehle. 

Questi sono solo alcuni nomi che si succedono nell’itinerario proposto da Maria Verzotto; il cammino è ampio e propone interessanti scoperte artistiche di un paese che molto ha dato e preso in un continuo e vitale scambio con la tradizione europea. 

ARTISTI AMERICANI A ROMA

dalla fine degli anni ’60 agli anni ’90 nella Raccolta Verzotto

che rimarrà aperta

dal 18 gennaio all’8 febbraio 2013

dal lunedì al venerdì – dalle 15.00 alle 19.00

presso lo spazio “Moto della Mente”

Via Monte Giordano, 43 (piazza Navona) 00186 Roma Tel. 06/6869974

 A cura di Gianleonardo Latini Con il testo di Luigi M. Bruno

  http://www.ex-art.it/raccolta_verzotto/index.html

 

Documentare l’arte

L’istituto nazionale per la grafica rende omaggio alla figura di Federica Di Castro (1932- 1998), curatrice e conservatrice dell’arte contemporanea per l’Istituto dal 1977 al 1997, con un’edizione selezionata dei suoi scritti e una mostra di opere grafiche del secondo Novecento, acquisite alle collezioni della Calcografia, grazie alla sua mediazione.

L’ampiezza degli interessi che contraddistingue la ricerca della studiosa può essere ricondotta ad alcuni concetti di fondo: l’opera d’arte riproducibile, il suo valore estetico e la sua funzione sociale, con un’attenzione particolare al ruolo svolto dalla donna in ogni campo di ricerca affrontato.

Le opere esposte offrono un panorama molto ampio della ricerca contemporanea del secondo dopoguerra, tra queste si segnalano i lavori di Accardi, Capogrossi, Dorazio, Novelli, Perilli, Radice, solo per citare alcuni nomi. Tali opere provengono, per la gran parte, dalla donazione che Renzo Romero fece al termine della sua attività di gallerista e stampatore nel 1986. Il fondo, con più di 1000 pezzi tra stampe, matrici e disegni, costituisce la più ampia acquisizione di opere dei maestri dell’astrattismo italiano.

Dalla donazione di Francesco Flores D’Arcais derivano invece alcune opere utilizzate per la rivista «Civiltà delle Macchine» come nel caso di Santoro e Consagra.

In mostra anche i collages di Remo Remotti sul caso Moro, le cartelle di grafica della storica Galleria La Salita, stampate da Roberto Bulla alla fine degli anni Cinquanta, con Fontana, Schifano, Festa e molti altri.

Non mancano i grandi formati e tra questi, oltre alla xilografia di Kritsotaky, anche le acqueforti di Chia e Vedova, donate dalla stamperia Il Cigno Galileo Galilei Edizioni di Arte e alcune delle opere selezionate per la Biennale internazionale di grafica di Lubiana nel 1995, tra le quali quelle di Delhove, Ducrot, Frare, Napoleone, Paladino, Romanello.

Infine, è esposta una scelta dalla cartella Paolini Patella Pistoletto, realizzata alla fine degli anni Settanta all’interno delle sperimentazioni della scuola della Calcografia voluta da Carlo Bertelli.

Sempre nell’ambito del progetto, l’Istituto offre la possibilità di consultare la raccolta di filmati d’artista, avviata anch’essa da Federica Di Castro nel 1979. Quest’ultima realtà dimostra quanto la ricerca sui linguaggi contemporanei della riproducibilità, fin da allora, sentiva il bisogno di espandersi oltre i limiti del foglio e di confrontarsi con altri media trovando nell’Istituto un punto privilegiato di analisi.

Nel suo complesso l’iniziativa si inserisce nel progetto GRAFICA: femminile singolare, sostenuto dalla Direzione generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee del Ministero per i beni e le attività culturali.

L’installazione di computer art Echi della memoria, omaggio a Federica Di Castro, ideata per questa occasione da Ida Gerosa, con musiche di Nicola Sani, è parte integrante del progetto.

L’inaugurazione della mostra dedicata a Federica Di Castro è inserita all’interno dell’evento che l’Istituto ha realizzato in occasione del Re-birth day, prima giornata mondiale della rinascita ideata da Michelangelo Pistoletto.

Il volume Federica Di Castro. L’Idea espansa. Un percorso critico nell’arte del Novecento è edito da Quodlibet Edizioni, Macerata.

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Federica Di Castro

L’IDEA ESPANSA

Dal 21 dicembre 2012 al 17 febbraio 2013

Roma

Istituto Nazionale per la Grafica

Palazzo Poli, via Poli 54 (Fontana di Trevi)

http://www.grafica.beniculturali.it

http://www.federicadicastro.it

 

 

 

 

 

 

UNA DINASTIA DI PITTORI

Il nome Brueghel ricorre spesso nella storia dell’arte fiamminga per oltre un secolo e mezzo; si riferisce ad una famiglia di artisti originata da Pieter Brueghel il Vecchio (1525/30 -1569) e proseguita prima con i figli Pieter il Giovane (1564 -1638) e Jan il Vecchio, detto “dei Velluti” (1568 – 1625) e poi con i nipoti e bisnipoti Jan il Giovane (1601 – 1678), Ambrosius (1617 – 1675), Abrahm, detto “dei Fiori” (1631 – 1697) e Jan Pieter (1628 – 1680), a loro si aggiungeranno poi altri pittori legati a Brueghel da vincoli matrimoniali.
Alla dinastia DART Chiostro del Bramante unitamente ad Arthemisia Group dedica una mostra che si tiene nel suggestivo edificio omonimo e che espone 100 opere tra quadri, disegni e grafiche proveniente da musei italiani ed esteri e da importanti collezioni private; precedentemente la mostra, in forma ridotta, era stata ospitata a Tel Aviv.
La carrellata in un percorso di un secolo e mezzo prende il via dal capostipite del quale si hanno pochissime notizie anagrafiche, sposò la figlia del pittore Pieter Coeke anche se non sembra fosse a bottega da lui, più probabile invece si ispirasse a Hieronymus Bosch stralunato e fantastico artista a cui si rifà nello stile popolaresco, onirico e fantastico con punte di grottesco che tramandò ai figli in particolare Pieter il Giovane che si adattò molto allo stile paterno; diverso il percorso artistico del fratello Jan il Vecchio più aperto alla moda italiana e definito “dei Velluti” per la raffinatissima perizia tecnica che si sviluppa nei paesaggi e soprattutto nelle nature morte floreali che poi divennero quasi un emblema di altri membri della famiglia; questi a loro volta rinnovarono in tempi successivi il loro stile sino a giungere agli ultimi della dinastia che visitarono l’Italia e subirono l’influsso della pittura barocca.
La mostra si articola in cinque sezioni: si parte dal capostipite che in pieno Rinascimento, mentre in Italia si puntava sullo studio dell’uomo e della sua interiorità, sposta il suo interesse verso la natura ed il paesaggio con scene di vita contadina, allora definita “vita bassa” cogliendone i vari aspetti anche negativi e grotteschi. La seconda esamina l’opera dei due figli, Pieter imitatore del padre e Jan il Vecchio che invece si differenzia, la terza prende in esame i rapporti tra gli stili dei vari membri della famiglia compresi pittori divenuti parenti acquisiti tramite matrimonio con ragazze Brueghel, si tratta di David Teniers il Giovane e Jan van Kassel il Vecchio. La quarta sezione mostra una serie di “allegorie” genere di pittura all’epoca di moda e diversi quadri raffiguranti i Quattro Elementi “Acqua, Fuoco, Terra, Aria”, l’ultima infine espone i più tardi epigoni della quarta generazione della dinastia, che giunse alle soglie del ‘700, fino ad Abraham detto “il fracassone” che visse e morì in Italia pienamente integrato nella cultura barocca locale. Degne di nota alcune opere esposte quali “Danza nuziale all’aperto” e “le sette opere di Misericordia” di Pieter il Giovane, alcune allegorie di Jan il Giovane, paesaggi di Jan il Vecchio, nature morte con fiori di Ambrosius, studi di farfalle di Jan van Kassel il Vecchio ed un bellissimo “Paesaggio fluviale con maniero” di David Teniersi il Giovane; molto piacevoli alla vista sei pannelli di Martin van Cleve contemporaneo di Pieter il Vecchio rappresentanti “Matrimonio di contadini”.

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BRUEGHEL
Meraviglie dell’arte fiamminga
Dal 18 dicembre 2012 al 2 giugno 2013

Roma
Chiostro del Bramante
via della Pace

Orario:
tutti i giorni dalle 10 alle 20

Catalogo
Silvana Editoriale

Informazioni:
tel. 06/916508451

http://chiostrodelbramante.it/

http://www.brueghelroma.it/

Evocazione ed ambiguità nell’opera d’arte

Dalla convinzione fondamentale che è pur convenzione radicata nell’umana esperienza, dai graffiti primordiali alle contemporanee sperimentazioni, che l’opera d’arte non è mai descrizione ma evocazione, ne derivano importanti e decisive conseguenze. Ma restiamo ad esaminare il primo passo intrapreso. Evocativa? Come e perché? Se l’opera d’arte fosse solo necessità descrittiva o illustrativa (qualità tipica degli onesti accademici o degli affaticati mestieranti) avrebbe pur ragione il superficiale spettatore che a una resa pittorica dettagliata e verosimigliante esclamasse la fatidica frase: “Bello! Sembra vero!”. Ma per questo è stata inventata la fotografia, anche se bisogna pur dire che l’artista fotografo già contempla e distorce una sua autonoma realtà. Ma il traguardo dell’artista è ben altro: egli esamina ed “usa” la realtà che lo circonda per trarne poi una inevitabile traduzione emotiva che nel genio creativo arriva ad una vera e propria diversa realtà, o dimensione evocata, nuova ed originale, un mondo a sé stante in cui sentimenti, memorie, intuizioni dell’artefice concorrono a stabilire e codificare uno spazio, un tempo, una necessità completa e perfetta, irripetibile nelle sue cifre e nelle sue leggi di volta in volta elaborate nell’assecondare il proprio percorso creativo. Ed è questa la vera “magia” dell’arte, la sua prepotente capacità evocativa nel dar vita e configurazione concreta, attraverso decisivi e geniali processi di sintesi, ad una altrimenti indefinibile congerie di sentimenti che è eredità dell’umana specie e che resterebbe appunto indefinita e inespressa se l’artista non la “evocasse” decodificandola in uno scenario che è necessaria dimensione di quei sentimenti confusi e nascosti, portandola alla superficie percettiva, all’emozione profonda e al turbamento dello spettatore che in essa poi si riconosce e si ritrova. Questo fa il poeta: traduce per sé e per tutti l’intraducibile. Ma se la realtà è pur mistero da svelare ogni volta, tale che essa si manifesta spesso ingannevole e deviante, e che per ogni essere cosciente esiste una diversa interpretazione di essa ecco che giungiamo a cogliere un’altra qualità essenziale dell’opera d’arte: essa è necessariamente ambigua. La Realtà vera, assoluta, aldilà della sua manifestazione fenomenica, per sé ambigua e sfuggente, vuole gli occhi e le mani attente dell’artista vero che attraverso un processo alchemico della materia, processo altrettanto ambiguo e deviante, arrivi con la potenza del genio poetico ad intuirla, comprenderla in una definizione che seppur momentanea, limitata e di volta in volta legata alle umane necessità emotive dell’artista, “scopre” ed “inventa” un lembo del grande Mistero. Per questo l’opera d’arte non può e non deve “rappresentare” in modo semplice e diretto quel che apparentemente manifesta: se si dipinge un albero, una foresta, un lago, una bottiglia, un atleta o un cavallo in corsa, non si vuole nella sua schietta e più o meno realistica resa racchiudere e completare la propria necessità espressiva. Il traguardo è, appunto, ambiguo e percorre strade devianti per giungere a quella che definisco “evocazione traslata”, trasferendo l’oggetto da una sua manifestazione apparentemente diretta ad un piano che intende condurre elementi e significati alla intuizione di una diversa realtà ed una diversa prospettiva emotiva. Per questo la necessità ultima di una natura morta non si esaurisce in sé, semplicemente nel rappresentare e definire i fiori, i cibi o le bottiglie che la compongono; così il tronco di un albero, o il corpo di una modella o il volteggio di un acrobata, non si soddisfano nella loro diretta qualità raffigurativa, ma essi stessi sono enigmi che l’artista conduce per vie traverse e misteriose ad esplicare una dimensione alterna e parallela alla apparente realtà, dimensione appunto “traslata” ed evocata, luogo segreto e indefinibile in cui l’artista vero raggiunge e concretizza una effettualità atemporale che è piccolo specchio e frammento dell’Assoluto, del Mistero che è nelle – cose, nel dar vita e verità ad uno spazio che è ragione profonda di sé e del nostro esistere.