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Frida: Il Colpo di Fulmine

Conobbi il lavoro di Frida Khalo a Castel dell’Ovo, Napoli nel 1997, in una collettiva di pittori messicani.

Confesso che fu un vero e propriocolpo di fulmine! Erano esposti pochi quadri dell’artista, ma così travolgenti da creare in me un profondo “shock”. La sua cruda espressività totalmente denudata mi scaraventò in una dimensione di sgomento: la mia giovane sensibilità era così risonante, che naufragai perdutamente nel suo mondo. Ero tanto assetata, che cercavo di conoscere tutto di Lei, fino a giungere a Città del Messico nel 2007, centenario della sua nascita. Visitai il museo delle Belle Arti che la celebrava con un’esposizione monografica, mi commossi davanti alle sue ceneri nella Casa Azul: lì si placò la mia frenetica avidità.

Grazie a Frida si è svelato in me il significato dell’autenticità nell’arte: “stillare gocce di vita”. Pormi a nudo di fronte alla realtà e a me stessa è ormai la mia condizione esistenziale, è la mia espressione artistica.

Frida tanto unica quanto umile, incurante nel riconoscerti una grande artista, per te respirare, vivere, dipingere sono stati la medesima cosa!

Frida, come descriverti? L’unico modo è riportare frammenti delle tue stesse parole: i tuoi scritti[i]:

Perché studi così tanto? Quale segreto vai cercando? La vita te lo rivelerà presto. Io so già tutto, senza leggere o scrivere. Poco tempo fa solo qualche giorno fa, ero una ragazza che camminava in un mondo di colori, di forme chiare e tangibili. Tutto era misterioso e qualcosa si nascondeva; immaginare la sua natura era per me un gioco. Se tu sapessi com’è terribile raggiungere tutta la conoscenza all’improvviso – come se un lampo illuminasse la terra! Ora vivo in un pianeta di dolore trasparente come il ghiaccio. È come se avessi imparato tutto in una volta, in pochi secondi. Le mie amiche, le mie compagne si sono fatte donne lentamente. Io sono diventata vecchia in pochi istanti e ora tutto è insipido e piatto. So che dietro non c’è niente se ci fosse qualcosa lo vedrei…

(sett. 1926- lettera ad Alejandro Gòmez Arias)

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Vi lascio il mio ritratto

perchè di me vi ricordiate

tutti i giorni, tutte le notti

che da voi sono lontana.

 

La tristezza è ritratta

in tutti i miei lavori

ma è la mia condizione

e non c’è più rimedio.

 

Nondimeno la gioia

è presente nel mio cuore

quando penso che Arcady e Lina

mi amano per quel che sono.

 

Accettate questo quadro

dipinto con tenerezza

in cambio del vostro affetto

e d’infinita dolcezza.

(3 maggio 1946- poesia dedicata a Lina e Arcady Boytler)

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La mia prima esposizione ebbe luogo alla Galleria Julien Levy a New York, nel 1938. Il primo quadro che ho venduto è stato acquistato da Jackson Philiph………

I miei quadri sono ben dipinti, con pazienza, non con negligenza. La mia pittura porta in sé il messaggio di dolore. Ritengo che almeno a qualcuno possa interessare. Non è rivoluzionaria. Perché mai dovrei continuare a illudermi che sia militante? Non ci riesco.

Dipingere ha arricchito la mia vita. Ho perso tre figli e altre cose che avrebbero potuto colmare la mia vita orribile. La pittura ha preso il posto di tutto questo.

Ritengo che il lavoro sia la cosa migliore

(dall’autobiografia di Frida Kablo, 1953)

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06 Mostre Roma Scuderie del Quirinale Frida Kahlo frida06 Riflessioni Le eroine_ Frida Kahlo-unos-cuantos-piquetitos



[i] Frida Kahlo “Lettere Appasionate” – Abscondita edizioni.

 

Un autodidatta che ha studiato

Ho scritto altre volte come sia importante l’onestà intellettuale in ognuno di noi. Questa ‘onestà’ si riferisce, chiaramente, anche al mondo della Cultura e, nella fattispecie, dell’Arte.

Questo piccolo preambolo mi serve per presentare un autodidatta che ha studiato. E lo studio, e l’applicazione, e l’impegno di Giovanni Bonfiglio, ingegnere di Genova, sono stati accolti con estrema onestà intellettuale. Onestà intellettuale che spesso vedo venire meno proprio da chi (invece) gli studi, quelli professionali, li ha fatti e comunque è arrivato ad essere considerato l’Artista storicizzato.

Vedi chi ha esposto L.O.V.E., scultura monumentale, che raffigura una mano con tutte le dita mozzate eccetto il dito medio, o quanti hanno esposto ed espongono regolarmente senza soluzione di continuità nelle Biennali d’Arte di Venezia opere francamente discutibili. Per carità, qualcosa si salva in queste esposizioni, ma è veramente ben poco. Vengo subito all’onesto Pittore che ha esposto a dicembre 2013 nello spazio culturale Muef Artstudio a Roma.

Una pittura fresca, a volte materica, una pittura di chi crede ancora in questo meraviglioso “mestiere”: quello del Pittore. Un po’ meno convincente (anche se il Bonfiglio predilige questa tecnica) è quando si cimenta nei pastelli. Nel mio molto piccolo sapere mi sono permesso di consigliargli, per l’appunto, di approfondire lo studio dei pastelli.

La mostra è ormai finita, Giovanni Bonfiglio ne farà, forse, una a Savona. Ma se vi capita di sentire questo nome, andate a vedere e anche voi vi accorgerete della sincerità d’intenti di questo Pittore autodidatta.

Complimenti al Pittore.

06 Riflessioni Un autodidatta che ha studiato Passioni giovanili

Icone e Feticci

Ci giunge notizia che a New York folle quasi in preda ad affannosa isteria corrono, letteralmente corrono ad ammirare la Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer. (Ricordate? Se ne fece tempo fa anche un film tipo pasticcio sentimentale: soldi buttati via per una storia assurda!). Va bene. Qual’è la novità? Ma non è una novità. Stesso fenomeno (bombardamento mediatico, file e attese ultrachilometriche) lo abbiamo avuto per altre “star”, che fossero i Bronzi di Riace, la Dama con l’ermellino di Leonardo o i Girasoli di van Gogh, per non parlare dell’ eterna, maniacale fissazione per la irridente Gioconda! Fenomeno che ci parla chiaramente dell’attrazione quasi folle che le masse hanno per “l’Icona”, la sacrale Immagine che in sé racchiude pulsioni, desideri, delizioso sgomento per una magica, unica apparizione che prepotentemente ci magnetizza. Non ci interessa il contesto, la somma e l’approfondimento, l’evoluzione estetica e l’analisi del percorso creativo.

Vogliamo solo lei: la primadonna, la protagonista che abbiamo eletto a punto di riferimento assoluto, enigmatico, affascinante “buco nero” in cui si riversano intelligenze, curiosità, stupori. Non abbiamo tempo né voglia (e forse neanche capacità) di interessarci ad altro che non sia l’Immagine che abbiamo eretto a Totem, a Feticcio sacrale e riassuntivo delle nostre manie e fobie. Intorno all’Icona prescelta intoniamo nenie e cortei quasi trovassimo in essa risposte a oscuri disagi e a incertezze identitarie che imperversano sulle nostre folle contemporanee, sempre più povere di autentiche capacità percettive, di scelte e di libertà profonde e motivate.

I soliti stregoni ci imbastiscono la Stella santificata di turno ordinandoci oceaniche genuflessioni. A questo punto la critica artistica come l’effettiva qualità dell’opera in questione conta poco e qualsiasi contraddizione suonerebbe sacrilegio! Quel che conta è correre ed essere lì, aspettando il nostro turno di baciare il Sacro piede e di imbastire una specie di muta preghiera, di essere esorcizzati nel rituale di comune adorazione. Non è forse così anche in altri ambiti? Nello sport non è quel tale campione da cui solo ci aspettiamo miracolosi interventi? Non è quella star nel cinema, morta o vivente che sia, in cui riversiamo sogni e pretese di redenzione? Nella stessa politica non siamo sempre all’affannosa ricerca del Leader carismatico, del Grande Padre o Fratello che poi tante follie e tragedie collettive ha sempre provocato?..

La libertà costa cara: costa fatica, studio, solitudine, incomprensione. Poter capire e scegliere è raro privilegio, rara medaglia che pochi possono appuntarsi al bavero. E’ molto più comodo accodarsi e farsi trascinare nell’orgia della stupefazione ammirativa per la Sacra Immagine di turno: misteriosa Fanciulla, prega per noi!

 06 Riflessioni Arte ICONE E FETICCI Ragazza con l’orecchino di perla Fig1

Elettroni contro Materia

Quando vedo mia nipote che sente la musica in cuffia dopo aver immagazzinato in una scatoletta migliaia di brani in MP3, penso alla discoteca di mio padre, intatta a dieci anni dalla sua scomparsa. E quando vedo l’altro nipote che invece di leggere libri cerca tutto e subito in rete col suo IPhone, dimentico per un attimo il mio incubo quotidiano di bibliotecario e bibliofilo, ossessionato come sono dal problema dello spazio saturo. Purtroppo sono nato nel Novecento e non riesco ancora a fare a meno della carta, del vinile e di altri supporti materiali, anche se nel lavoro e nella vita privata uso normalmente le tecnologie attuali. Ai nostalgici che continuano polemicamente ad elogiare il piacere che prova il polpastrello a scorrere la pagina stampata rispondo ironicamente che il feticismo è una perversione. Nella realtà una cosa è la consultazione, altro la lettura personale. In quest’ultimo caso preferisco anch’io il libro all’e-book, i cui dispositivi di lettura sembrano finora progettati da tecnici che di libri ne leggono proprio pochi. Ma al momento di accendere il giradischi e abbassare la puntina nel solco del disco mi sento tagliato fuori, come se usare una tecnologia superata mi provocasse un’irrefrenabile melanconia. Non è il disagio che proverei davanti ai nipoti – anzi, sono curiosi di vedere come si viveva una volta, ma quel senso storico di fronte ai ricordi. I dischi in vinile fermano il loro repertorio ai tempi in cui tu eri studente e i VHS che ho registrato per anni si dimostrano per quello che sono: film che non ho più il tempo né la voglia di rivedere, bombardato come sono da immagini e audiovisivi di ogni genere. E non riesco più a rivedere una commedia dove il protagonista cerca disperatamente una cabina telefonica: è assurdo.

Ma a parte questi dettagli, qual è il vero problema? In fondo queste nuove tecnologie fanno guadagnare spazio ed efficienza e fanno anche risparmiare materiali, energia e altro. Oltretutto le case sono piccole e gli uffici pure. Ebbene, il vero problema lo pongono gli oggetti non ancora comprimibili: ma di cui abbiamo piene le case e gli uffici. Nelle case degli italiani ci sono milioni di macchine fotografiche, cineprese superotto, registratori a nastro, proiettori e lettori perfettamente funzionanti ma ormai inutilizzati e privi dei pezzi di ricambio. In ufficio impiegheremo ancora qualche anno per mandare al macero tonnellate di carta scritta e archiviata. Possiamo anche buttare le radio a valvole, i libri vecchi, i dischi in vinile, l’enorme impianto stereo anni ‘80, e chi più ne ha più ne metta. Ma resteranno sempre tanti beni materiali insostituibili o comunque da conservare: mobili, quadri, ricordi personali, servizi da tavola, indumenti. In più il calo demografico ha fatto convergere verso singole famiglie l’eredità delle zie, con il bel risultato di moltiplicare i servizi di porcellana, le argenterie, i cristalli, le poltrone, i quadri di genere, i mobili. Per qualche anno ce li siamo rivenduti nei mercatini di quartiere borghese, ora con l’aria che tira li accettano solo in conto vendita. Argento e oro si vendono, il resto te lo tieni o lo butti. E qui c’è da divertirsi: a girare per cassonetti c’è di tutto: lampadari, spartiti musicali, pellicole cinematografiche, interi archivi di uffici commerciali (pieni di dati sensibili, n.b.), televisori e videoregistratori, computer completi di stampante. Per saperlo non c’è bisogno di infilare il naso dentro il cassonetto: basta osservare rom e romeni che con i loro carrettini pescano con l’uncino e svuotano tutto per terra per la quotidiana puntata di Uomini e topi. Prima qualcosa recuperavo anch’io – vecchie radio, spartiti musicali – ma ora dovrei essere un loro concorrente e non ne ho il coraggio: si direbbe che la vera differenziata la fanno loro. Alcuni di loro poi sembrano veramente fuoriusciti da Auschwitz.

A questo punto mi chiedo come ho fatto a vivere un anno e più di servizio militare dovendo far entrare tutto dentro un armadietto di metallo. Quando dico tutto intendo esattamente: divise, equipaggiamento, anfibi, abiti civili e quel poco che potevo tenere di mio: una radiolina, qualche libro, una macchina fotografica, una scatola di ricordi e di piccoli attrezzi, carta e penna, un diario, qualche fotografia, qualche alimento extra mensa e infine l’occorrente per la cura del corpo: rasoio, sapone, spazzolino e dentifricio. Eppure ero felice e non sentivo il bisogno di altro.

Giovanni Cara: l’essenza dell’umano

La figura, intendo l’umana umanissima figura, in Giovanni Cara non rispetta né vuole farlo adempimenti accademici o sapienze volumetriche che risolvano il pathos in una presenza solida e temporaneamente stabile.

La superficie, pelle e carne, appaiono candidamente indifese in una limpidità disarmante. La figura vive e appare solo mediata dal suo empito erotico: mani, occhi, tendini, sangue, solo come apparenza di una corposità disfatta nella luce, nel colore, nel segno lasciato senza pentimenti: una dolce ferita che è primitiva ingenuità esistenziale.

L’uomo vibra nell’essere suo momentaneo. Hic et nunc: qui ed ora comunque. Una eternità mutevole sofferta nel suo aperto dissociarsi da simmetrie e proporzioni rassicuranti.

Tutto si fonde e si ricompone nell’aperto, dissacrante, scomposto desiderio di esistere nella necessaria, irresistibile sessualità che è continuità carnale del proprio sé in un mondo che ci riflette impietoso.

 06 Riflessioni Giovanni Cara