Sì, è davvero curioso che proprio un contenutista—espressionista, un romantico depravato come me debba rivendicare alla debita forma il suo necessario dovuto. Una volta si tacciava di formalismo l’accanito artefice che lisciava fino all’adorazione la superficie, la pelle o se preferite la scorza della sua opera. Artigiano? Mestierante? Accademico? E sia. Operaio rifinito della forma diciamo, ma con tutti i limiti e i meriti consentiti di chi conoscendo e amando il suo lavoro, si prodiga nella qualità tecnica dei suoi “manufatti”. La forma non è tutto, d’accordo, ma è anche a ben riflettere la concreta e necessaria proiezione nella materia indefinita e caotica di un’idea, un’emozione, un racconto, un dramma o quel che sia. La forma adeguata quindi al suo contenuto, anima e corpo: il collegamento è inscindibile, un matrimonio indissolubile. Ecco quel che distingue l’artista dal valente artigiano: la ricerca e l’elaborazione di una forma, una pelle, una e sola, irripetibile, per l’idea che in essa si realizza felicemente e poeticamente. Vi par poco? Tutta la storia dell’arte è in questa decisiva coniugazione idea— materia. Ora, svilire la forma a comodo balbettante aforisma o a materia volutamente sciatta o peggio contrabbandare rozzezza e superficialità tecnica per improrogabili e “significative” necessità espressive son solo goffi giochi di prestigio che definisco semplicemente cialtroneria gratuita. L’ho detto! Adesso crocifiggetemi, se volete, al patibolo del bieco e tetro formalismo! Ma ragionate: la forma è per il contenuto e il contenuto è per la forma: coppia perfetta, fusione amorosa di idea e materia. Così è stato sempre, per secoli, almeno fino all’altro ieri, da quando un esercito di belve aggressive e velleitarie, barando sull’equivoco contenutistico hanno alluvionato il mondo dell’arte coi loro proclami arroganti sulla presunta poetica della miseria formale. Badate, intendo miseria e non scarna essenzialità: nessuno qui osanna trionfi formali che sarebbero altrettanto altezzosi. Può bastare una traccia, un accenno, un presentimento,se è calzante e appropriato; niente virtuosismi! Ma noi sappiamo distinguere tra poetica essenzialità e miserevole sciatteria. L’inondazione del presuntuoso “concettuale”, ludico, grottesco o drammatico che sia poggia i suoi piedi ingombranti e maleodoranti sull’ormai annoso pretesto, antenato oltretutto dell’odierna fumosa e pulciosa “arte povera” (mai attributo fu più adeguato!), pretesto databile ai primordi della “pop art” laddove si caricò la gobba innocente di utensili e oggetti di uso comune, solo perché scelti e messi in vetrina,di profondi e poetici contenuti esistenziali. L’idea non era peregrina (i dadaisti l’avevano già usata per rompere i vetri del sussiego benpensante e anche per divertirsi un po’) e qualche risultato artistico talvolta ne era conseguito. Amen. Ma era il concetto in sé ad essere pericoloso perché armava di motivazioni e pretese “serie” fior di tangheri e ultra— dilettanti lanciandoli fuori dal ghetto dove giustamente illanguidivano sulla cresta dell’onda di uno scandalismo da pattume. Così oggi come oggi eserciti di guerrieri ad oltranza del “concettuale”, trincerati nelle munite posizioni fortificate da drappelli di deliranti critici, sparano a raffica ovunque e comunque eventi ed avventi di invasiva pretestuosità pseudo—filosofica alla faccia della vessata e malmenata forma. E in arte diciamolo, non c’è niente di peggio del teorico—filosofo che presume per il fatto di pensare di appartenere a una categoria superiore all’artefice, e quindi giustificato a maltrattare qualsivoglia superficie “formale o anche solo in odore di pestifera formalità. Ma, miei cari, la forma, la forma! Lo sapevano bene i greci, solo la forma miracolata e risorta ai fasti della qualità espressiva può dar vita e significato al concetto in essa contenuto e che per essa si dilata e illumina. Non basta ammucchiare degli stracci o lasciar marcire un cespo d’insalata per esprime re la transitorietà della condizione umana; allora anche un rivendugliolo di Porta Portese o un camion dell’AMA sono poetici! Ogni concetto, per nobile e profondo che sia se non ha la stampella che lo giustifichi e lo realizzi della sua veste corporea, è solo soffio e fritto misto d’aria! Il resto, l’idea in sé, geniale o banale che sia, nuda e abbandonata a sé stessa è solo arido cifrario intellettuale, esercitazione per filosofi da circolo domenicale intenti a proclami ingenui e rumorosi di giacobini in ritardo senza baionette e ghigliottina, convinti di rifare il mondo con una frase gettata nel piatto.
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Itinerari di controinformazione poetica
Alle 15.30, dopo lunghe ricerche e attese telefoniche riesco a parlare con un centralino:
“E’ il reparto ortopedico dell’Ospedale San Giovanni Evangelista di Tivoli?
Chiamo da Roma. Vorrei notizie di una signora forse ricoverata da poche ore.
Mi scuso per il disturbo, ma sto cercando di rintracciare una persona disabile
a causa di un recente ictus…che questa mattina è caduta in casa.
Si tratta di una signora molto anziana senza parenti,
tranne una figlia affetta dalla sindrome di down…
chiedo per cortesia di poterle parlare un attimo tramite il telefono dell’Ospedale
dato che la mia amica non ha il cellulare.”
La voce maschile dice che la persona risulta ricoverata effettivamente ma…
“al telefono si può parlare solo tramite il cellulare dei pazienti”.
A questo punto ho come un capogiro e non posso credere, insisto, forse ho capito male.
No, ho capito benissimo, mi si chiede di non alzare la voce e la comunicazione viene interrotta.
Ho un vuoto nella testa, possibile che la dittatura dei consumi possa arrivare a tanto.
Possibile che…l’attuale paziente,
colpevole di non essere nato con cellulare incorporato,
come ennesima costola o proseguimento della mano,
sia obbligato a possedere quel famigerato ordigno detto “Telefonino”…
che ogni ospedale serio dovrebbe sconsigliare?
Rabbrividisco e torna il capogiro vedendo che il Sistema, nell’ultima follia,
procede all’impazzata riuscendo perfino a peggiorare.
Infatti l’antico paziente comunicava normalmente con l’esterno
mentre oggi, se privo del dispendioso ordigno…
non hai speranza di soccorso… né voce amica che ti possa confortare.
E quell’onesto soprammobile scomparso
che troneggiava sul bianco comodino d’ospedale:
il buon amico “fisso” per tutti i pazienti della stanza?
Servizio sociale superato, vago ricordo di una antica usanza.
Ma noi, poveri obbedienti spendaccioni tendiamo a emanciparci
e sognando di sguazzare nella trappola del lusso
incorporiamo fatali giocattoli elettronici
perchè la dittatura dei consumi continui allegramente a stritolarci.
E compriamo compriamo e mangiamo, compriamo e mangiamo a non finire,
compriamo e mangiamo per dimenticare che… volevamo dimagrire
e comprando e consumando… distruggiamo… foreste, silenzio e poesia…
e distruggendo e mangiando, senza mai saziarci, produciamo maree di scorie,
non solo terrestri, ma palle di fuoco celesti che…torneranno eterne a visitarci.
Si sa, assimilando veleni televisivi può accadere tutto e nel vuoto totale della mente…
potremmo comprare per solo 20 miliardi di euro, uno stormo di caccia bombardieri che,
se pure di tipo scadente, riusciranno in breve…ad eliminare un bel po’di gente.
Tutto scorre in questo mondo ladro secondo la legge del più forte
e tutto scorrerà perfettamente, finché miliardi di poveri come il povero paziente
continueranno ad ingoiare ordigni di morte, così che quattro gatti…
possano continuare ad arricchirsi impunemente.
Evocazione ed ambiguità nell’opera d’arte
Dalla convinzione fondamentale che è pur convenzione radicata nell’umana esperienza, dai graffiti primordiali alle contemporanee sperimentazioni, che l’opera d’arte non è mai descrizione ma evocazione, ne derivano importanti e decisive conseguenze. Ma restiamo ad esaminare il primo passo intrapreso. Evocativa? Come e perché? Se l’opera d’arte fosse solo necessità descrittiva o illustrativa (qualità tipica degli onesti accademici o degli affaticati mestieranti) avrebbe pur ragione il superficiale spettatore che a una resa pittorica dettagliata e verosimigliante esclamasse la fatidica frase: “Bello! Sembra vero!”. Ma per questo è stata inventata la fotografia, anche se bisogna pur dire che l’artista fotografo già contempla e distorce una sua autonoma realtà. Ma il traguardo dell’artista è ben altro: egli esamina ed “usa” la realtà che lo circonda per trarne poi una inevitabile traduzione emotiva che nel genio creativo arriva ad una vera e propria diversa realtà, o dimensione evocata, nuova ed originale, un mondo a sé stante in cui sentimenti, memorie, intuizioni dell’artefice concorrono a stabilire e codificare uno spazio, un tempo, una necessità completa e perfetta, irripetibile nelle sue cifre e nelle sue leggi di volta in volta elaborate nell’assecondare il proprio percorso creativo. Ed è questa la vera “magia” dell’arte, la sua prepotente capacità evocativa nel dar vita e configurazione concreta, attraverso decisivi e geniali processi di sintesi, ad una altrimenti indefinibile congerie di sentimenti che è eredità dell’umana specie e che resterebbe appunto indefinita e inespressa se l’artista non la “evocasse” decodificandola in uno scenario che è necessaria dimensione di quei sentimenti confusi e nascosti, portandola alla superficie percettiva, all’emozione profonda e al turbamento dello spettatore che in essa poi si riconosce e si ritrova. Questo fa il poeta: traduce per sé e per tutti l’intraducibile. Ma se la realtà è pur mistero da svelare ogni volta, tale che essa si manifesta spesso ingannevole e deviante, e che per ogni essere cosciente esiste una diversa interpretazione di essa ecco che giungiamo a cogliere un’altra qualità essenziale dell’opera d’arte: essa è necessariamente ambigua. La Realtà vera, assoluta, aldilà della sua manifestazione fenomenica, per sé ambigua e sfuggente, vuole gli occhi e le mani attente dell’artista vero che attraverso un processo alchemico della materia, processo altrettanto ambiguo e deviante, arrivi con la potenza del genio poetico ad intuirla, comprenderla in una definizione che seppur momentanea, limitata e di volta in volta legata alle umane necessità emotive dell’artista, “scopre” ed “inventa” un lembo del grande Mistero. Per questo l’opera d’arte non può e non deve “rappresentare” in modo semplice e diretto quel che apparentemente manifesta: se si dipinge un albero, una foresta, un lago, una bottiglia, un atleta o un cavallo in corsa, non si vuole nella sua schietta e più o meno realistica resa racchiudere e completare la propria necessità espressiva. Il traguardo è, appunto, ambiguo e percorre strade devianti per giungere a quella che definisco “evocazione traslata”, trasferendo l’oggetto da una sua manifestazione apparentemente diretta ad un piano che intende condurre elementi e significati alla intuizione di una diversa realtà ed una diversa prospettiva emotiva. Per questo la necessità ultima di una natura morta non si esaurisce in sé, semplicemente nel rappresentare e definire i fiori, i cibi o le bottiglie che la compongono; così il tronco di un albero, o il corpo di una modella o il volteggio di un acrobata, non si soddisfano nella loro diretta qualità raffigurativa, ma essi stessi sono enigmi che l’artista conduce per vie traverse e misteriose ad esplicare una dimensione alterna e parallela alla apparente realtà, dimensione appunto “traslata” ed evocata, luogo segreto e indefinibile in cui l’artista vero raggiunge e concretizza una effettualità atemporale che è piccolo specchio e frammento dell’Assoluto, del Mistero che è nelle – cose, nel dar vita e verità ad uno spazio che è ragione profonda di sé e del nostro esistere.