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Striscia di Gaza: via Crucis palestinese

di Enrico Campofreda

19050f970ef144139acdd1865927ad39_18La marcia per il ritorno dei profughi palestinesi si trasforma in una via Crucis nel venerdì di passione. Si chiamavano prevalentemente Mohammad ed erano sicuramente islamici le quindici vittime messe in croce con la tecnologia dei droni che sparavano lacrimogeni dall’alto, mentre tiratori scelti di Tsahal da terra hanno colpito a morte e ferito quei corpi ammassati sul confine che riproponevano una protesta contro omicidi più antichi. Era il 1976, proprio il 30 marzo, quando sei palestinesi disarmati che aderivano alla prima manifestazione intitolata al ‘Giorno della terra’ contro la decisione israeliana di espropriare cospicue aree della Cisgiordania,  vennero centrati mortalmente anch’essi da proiettili. Questa trama omicida ripetuta in tante, troppe circostanze, ha avuto oggi l’ennesimo copione stragista. Oltre a quindici cadaveri di uomini compresi fra i 19 e i 38 anni si contano millequattrocento fra feriti e intossicati dal gas. Una repressione inconcepibile, un piano preparato a puntino secondo precise direttive del governo di Tel Aviv, vista la presenza di tiratori scelti dislocati su una vasta linea di confine dove i manifestanti avevano montato tende per offrire assistenza logistica ai numerosi partecipanti anche d’età adulta e avanzata. Per questo Israele ha accusato Hamas di gettare allo sbaraglio migliaia di persone.

Hamas, per bocca del suo leader Haniyah, ha precisato che l’iniziativa è partita dal basso ed era molto sentita dal suo popolo e che la marcia è l’inizio del ritorno sull’intera Palestina. Israele che quest’anno festeggia il 70° anniversario della sua fondazione, è coadiuvata in tale scadenza da un copioso sostegno occidentale. Si pensi alle prime tre tappe del Giro ciclistico d’Italia, previste appunto in quella che era la Palestina storica, un’iniziativa propagandistica con cui il premier Netanyahu ha voluto sancire anche tramite lo sport delle due ruote, popolarissimo in Europa, un benestare alle occupazioni originarie e attuali, tramite militari e coloni. Inoltre il leader sionista sente il pieno conforto dell’amministrazione Trump e accresce gli agguati criminosi come quello odierno. Poiché gli organizzatori della protesta palestinese prevedono sei settimane di mobilitazione sino al 15 maggio, di fronte a repressioni così sanguinose, la situazione può precipitare. Il Centro legale palestinese ha diramato una durissima condanna dell’esercito israeliano che compie l’ennesimo crimine “in violazione a ogni diritto internazionale, senza distinguere nell’uso delle armi fra combattenti e civili disarmati” quali erano tutti i partecipanti alla mobilitazione. Cancellerie, Capi di Stato e le stesse Nazioni Unite finora tacciono.

Pubblicato 30 marzo 2018
Articolo originale
dal blog di Enrico Campofreda

 

Solidarietà anche come lavoro

Mario Giro, l’oramai ex-Viceministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale non ha mancato occasione di ribadire nei vari incontri pubblici, come nell’incontro “Cooperazione internazionale – Il nostro futuro nel mondo” all’Università Roma Tre del novembre 2017, che il Terzo settore è l’ambito lavorativo del futuro.

Un’affermazione confermata da Gentiloni durante la Conferenza Nazionale della Cooperazione allo Sviluppo (Auditorium Parco della Musica, 24 – 25 gennaio 2018).

Oltre il 10% della popolazione è impegnata nel sociale, per non lasciare solo il prossimo, e gran parte di queste persone sono organizzate in associazioni, rappresentando il 4% del Pil.

Su questi presupposti si può comprendere come l’aiuto al prossimo possa rappresentare non solo un impegno del volontariato, ma anche un’ipotesi di lavoro anche nell’ambito della Cooperazione Internazionale che non può essere racchiusa nello slogan “Aiutiamoli a casa loro”, ma usato come titolo della puntata di PresaDiretta di lunedì 29 gennaio 2018 su Rai Tre, “Aiutiamoli a casa loro”, nella quale si afferma che l’Italia ha stanziato nel 2016 quasi 5 miliardi per sostenere progetti in gran parte nei paesi africani, distribuiti all’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e ai vari progetti presentati dalle diverse organizzazioni.

Fondi che annualmente sono stanziati non solo dall’Italia, per “Aiutarli a casa loro”, ma anche dagli altri paesi “industrializzati”, secondo le loro possibilità e generosità. Una pratica che per il Center for Global Development, con il documento Deterring Emigration with Foreign Aid, fa sorgere una domanda: “can development assistance deter emigration?” (l’assistenza allo sviluppo può scoraggiare l’emigrazione?) dandosi la risposta negativa basata su di un’analisi economica, basata sull’assioma: ho qualcosa e voglio di più.

L’economista africana Dambisa Moyo già nel 2011 aveva portato sul banco degli imputati la pratica degli aiuti nei libri “La follia dell’occidente” e “La carità che uccide”, perché foraggiavano la corruzione invece di portare benessere alle popolazioni.

Non basta inviare soldi, bisogna sapere cosa si vuol fare per rendere meno disagevole vivere in comunità con scarsità d’acqua potabile e difficile accesso all’istruzione, bisogna poter seguire i progetti e intervenire nei casi di improvvise difficoltà come la sostituzione di una parte meccanica o il mancato corso di formazione.

È necessario non far cadere dall’alto gli “aiuti”, ma lavorare con la popolazione per conoscere le difficoltà e le loro aspirazioni, varando dei progetti condivisi.

Realizzare delle strutture produttive può essere un primo passo, ma non può evitare la migrazione se sono in atto conflitti o carestie e pacificare le aree sul condividere la terra e l’acqua.

Ma per ora un terzo dei miliardi italiani vengono utilizzati per la cosiddetta accoglienza nei vari centri d’identificazione (Cara, Cas, Sprar) e alle cooperative che dovrebbero garantire dei posti letto, un’assistenza sanitaria, corsi di italiano e fornire del denaro per le piccole spese (pocket money).

Un’accoglienza organizzata, con risorse pubbliche, piramidalmente, ben diversa da quella fornita da organizzazioni come la Caritas Italiana, il Centro Astalli e la Comunità di Sant’Egidio, per limitarsi a quelle più conosciute, che non si limitano ad offrire assistenza ai profughi, ma anche alle persone in povertà, anzi alcune sono nate proprio per dare supporto agli indigenti italiani per poi soccorrere anche lo “straniero”.

Organizzazioni, Comunità di sant’Egidio e Caritas, che occupano anche un posto nell’intervento all’estero, tanto da essere impegnate anche nell’ambito diplomatico tra fazioni belligeranti.

La Comunità di sant’Egidio è anche tra i promotori, insieme ad alcune chiese protestanti, dei canali umanitari che il Ministero degli affari esteri ha sponsorizzato, un’iniziativa che potrebbe subire le prospettive individualistiche del prossimo governo.

Il panorama del Terzo Settore è ricco di esempi di solidarietà, dove il volontariato occupa una posizione fondamentale, perché altrimenti non si potrebbe portare aiuto a costi bassi.

Ogni organizzazione, grande o piccola, ha un gruppo di “impiegati”, alcuni collaboratori e tanti volontari. Più grandi sono le organizzazioni e più è difficile il controllo sulla moralità dei componenti, come recenti notizie stanno portando alla luce, diventando per alcuni un vero lavoro, mentre per altri una missione.

Amref Health Africa è impegnata a formare medici e personale sanitario sul luogo, mentre altre organizzazioni internazionali come: The Save the Children, Medici Senza Frontiere Italia o Oxfam, si adoperano per proteggere l’infanzia, garantire le cure mediche o colmare le diseguaglianze. Emergency realizzando ospedali in Asia e in Africa, ma interviene anche per garantire in Italia il diritto alla cura per tutti , mentre il CISOM (Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta), oltre a svolgere attività di protezione civile, è presente sui mezzi della Guardia costiera, con un medico e un infermiere, per il soccorso in mare, garantendo l’assistenza ai migranti.

Poi ci sono delle strutture di “supporto” come AGIRE (Agenzia Italiana Risposta alle Emergenze), autore del rapporto 2017 sul Valore dell’aiuto, impegnate a raccogliere fondi e fanno attività di promozione per altre organizzazioni grandi e piccole (ActionAid. Amref. Cesvi. Coopi. Gvc. Oxfam. Sos villaggi bambini Italia. Terre des hommes) e come la Fondazione Magis (Movimento e Azione dei Gesuiti Italiani per lo Sviluppo), che oltre a sostenere l’attività di varie associazioni (Associazione Amici di Deir Mar Musa, Centro Astalli, Compagnia del Perù, CSJ Missioni, Gruppo India, Operazione Africa, etc.), promuove progetti o assiste alle esigenze delle comunità come nella recente emergenza in Kiscina, sperduto villaggio in fondo al Sahel ciadiano, dove le donne hanno avuto necessità di una rete metallica per difendere i loro minuscoli orti dalle bocche voraci dei cammelli.

Organizzazioni umanitarie che intervengono, spesso collaborano con gli organismi dell’Onu (Unicef e Unhcr), nelle crisi per aiutare le persone in emergenza, colpite da conflitti e catastrofi naturali, nonostante le decisioni di Donald Trump di tagliare gli stanziamenti statunitensi.

Anche le prospettive italiane nei confronti della cooperazione e dell’accoglienza non appaiono rose con un possibile Governo che perseguirà una politica di ulteriore chiusura verso flussi migratori e una restrizione ai fondi.

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Qualcosa di più:

Africa: le Donne del quotidiano
Le loro Afriche: un progetto contro la mortalità materno-infantile
Africa Solidarietà: il lato nascosto delle banche
Africa: i sensi di colpa del nostro consumismo
Cause Umanitarie
Cibo per molti, ma non per tutti
Le scelte africane
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Un promemoria sul mondo in conflitto
Cellulari per delle cucine solari

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Trump: I buchi del Distruttore

 

Il Mondo, dopo un anno dall’elezione di Trump a presidente della nazione leader, ha subito dei cambiamenti geopolitici, prospettando per gli Stati uniti una incredibile retrocessione.

Il presidente si è dato molto da fare nel distruggere l’eredità di Obama che lo ha preceduto, senza limitarsi alle innovazioni nella politica interna, definito dalla BBC US government shutdown: How did we get here again? uno “scontro tra bande” che dalla disputa sulla sanità e il clima ha coinvolto non solo la situazione migrante islamica ma che con i Dreamers è arrivato a coinvolgere lo shutdown nel confronto politico nell’era dell’amministrazione Trump, anche nel rapporto con le altre nazioni.

Con Obama il rapporto con islam era in evoluzione e con l’accordo sul nucleare iraniano aveva contrariato i paesi arabi sunniti e gli israeliani, mentre con i russi era un muro contro muro, ma tutto era delineato senza ambiguità.

Un panorama confuso se non nel fatto che tutto sembra ricondurre ad una forte volontà di svolgere il tradizionale ruolo di veditore di armi, ma anche in quest’ambito non sembra fare grandi affari se la Turchia, secondo esercito della Nato, preferisce fornirsi di sistemi missilistici russi, come anche i sauditi, riuscendo a mettere in crisi, non solo con le sue dichiarazioni “isolazioniste”, il rapporto con gli aderenti all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Con l’enunciazione della sua personale dottrina nucleare basata sulle mini bombe, capaci di scatenare tsunami radioattivi si disattiva l’impegno di Obama contro la proliferazione nucleare e la Russia risponde con un missile dalla traiettoria “imprevedibile”.

Trump è ambivalente nel suo lusingare la Turchia e armare i curdi, rafforzare i legami con i sauditi senza rinunciare ai rapporti con il Qatar, dichiara Gerusalemme capitale di Israele facendo infuriare i paesi islamici, andando incontro alle critiche dell’Onu e ai rimproveri degli alleati europei.

Con il mancato blocco degli insediamenti ebraici Trump fa sospettare il reale disinteressa di Israele per i colloqui di pace con i palestinesi.

Il presidente statunitense sta creando dei buchi nella politica estera che la Russia, la Cina e la Turchia si stanno impegnando a colmare, creando delle alleanze ambivalenti. Tanto ambivalenti che hanno portato la Turchia a chiedere il permesso alla Russia per intervenire nella zona siriana di Afrin per cacciare i curdi con l’operazione “ramoscello d’ulivo”, mentre i curdi trattano con Damasco per arginare l’avanzata turca in Siria e Trump sta a guardare gli alleati che si rivolgono agli avversari per risolvere un conflitto atavico, mentre Bashar Assad rade al suolo Ghouta Est alla periferia della capitale siriana.

Una resa dei conti “incrociati”, con alleanze variabili che nascono e muoiono sul batter di un interesse.

Un presidente impegnato, con lo sfilarsi dall’accordo di Parigi sul clima, nell’attivare le miniere di carbone, dare autorizzazioni di trivellazione ovunque si ritiene utile, che vuol completare i lavori dell’oleodotto progettato per transitare sul territorio della riserva dei nativi americani nel North Dakota.

Periodicamente lancia messaggi di distensione per un possibile rientro nell’accordo sul clima di Parigi, per poi manifestare tutto il suo scetticismo sui cambiamenti climatici, come sulle tematiche dell’evoluzionismo e creazionismo.

Mentre la Cina diventa il capofila per l’impegno ambientalista e rafforza la sua presenza in Africa. Un continente quello africano che ha colto interesse turco. La Turchia gareggia con la Russia e l’Iran anche per un posto d’onore nello scacchiere mediorientale.

Un presidente che appare confuso senza una chiara politica economica che probabilmente ha portato la “Trumphoria” a sbattere contro il muro delle fluttuazioni finanziarie, conducendo alla crisi dei mercati e al ridimensionamento della crescita, con la fine dell’era del denaro a poco, in attesa di un’impennata nei tassi di interesse.

All’interno della stesso staff non mancano i contrasti come in occasione dei dazi promossi da Trump sull’acciaio e l’alluminio senza confrontarsi con i suo consigliere economico, come aveva fatto in precedenza con altri consiglieri sui più disparati ambiti.

Trump è un presidente che si muove senza alcuna remore, creando non solo scompiglio e sconcerto tra gli avversari, ma anche tra alleati e collaboratori.

È probabile che Trump potrà fare “meglio”, nel peggio, del presidente Zuma nel distruggere il miracolo sudafricano e rendere gli Stati uniti soli.

 

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Qualcosa di più:
Trump: un confuso retrogrado
Trump Il commesso viaggiatore tra i sauditi e gli israeliani
Trump: un elefante nella cristalleria del Mondo
Trump: un uomo per un lavoro sporco
Trump: Quando l’improbabile è prevedibile

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Bin Salman e il fantasma del palcoscenico

Bin Salman e il fantasma del palcoscenico

Riconversione dei petrodollari in divertimenti e, a suo dire, in cultura. Così l’erede al trono saudita, Bin Salman, che da oltre un anno sta scuotendo la monarchia del Golfo, cerca di conquistare cuori e casseforti occidentali. Certuni li ha aperti, ad esempio quelli e quelle del miliardario britannico Richard Branson entusiasta del progetto di creare villaggi vacanze extra-lusso in varie isole del Mar Rosso. Il delfino Saud rilancia l’ambizioso programma “Vision 2030” con 64 miliardi di dollari d’investimento nel settore del tempo libero, dunque cinema, teatri, sale concerti dove attirare, sempre a suon d’ingaggi da Mille e una notte, stelle occidentali. C’è chi ha già risposto: Bocelli e Le Circ du Soleil, saranno in tournée come hanno già fatto il rapper Nelly e il cantante di raï Cheb Khaled.

Negli orizzonti del principe che s’occupa di politica nazionale ed estera, di geostrategie ed economia, di diplomazia e costumi non poteva mancare l’occhio alla modernizzazione volta a diversificare il Pil nazionale incentrato sullo ‘Stato redditiero’ a sola produzione energetica. Ma accanto al percorso finanziario, che risulta una mossa realista cui agganciare un modernismo che fa da contrappeso alle keffie della tradizione, dunque: donne al volante e negli stadi, spettatrici di eventi sportivi in cui gli sceicchi sentono odore di nuovi affari, osservatori del mondo arabo vedono solo desiderio di potenza. Tutto sarebbe funzionale al progetto egemonico saudita sul Medio Oriente, nel sempre più aspro confronto-scontro con Iran, Turchia, Pakistan, i contendenti per quella fetta di mondo.

Su cui ovviamente i grandi della terra, imperialisti vecchi e nuovi, continuano a conservare mire per interessi, controllo, alleanze che si misurano a suon di conflitti ufficiali e striscianti. I mirabolanti investimenti, che dovrebbero introdurre mutazioni nelle abitudini e nella vita sociale dell’antica penisola islamica, continueranno a convivere con la conservazione e quel che più inquieta: il fondamentalismo di predicatori wahhabiti per nulla limitati dai piani del principe ‘innovatore’. E il Paese del petrolio, mentre si rifà il trucco e carezza artisti e cultura occidentali, proprio grazie a re e principi di casa continua ad armare guerre come in Yemen, in Siria e finanziare miliziani jihadisti. E’ questo lo spettro che s’aggira sui palchi prossimi-venturi del Golfo.

Enrico Campofreda
Pubblicato il 23 febbraio 2018

Articolo originale
dal blog Incertomondo
nel settimanale Libreriamo

Flat Tax aumenta le disparità: lo dimostra la Russia di Putin

 

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

La flat tax, di cui tanto si parla in questa campagna elettorale, non è la parola magica per la giustizia fiscale del nostro paese. Anche se non è la cattiva parola da demonizzare tout court. I limiti e gli obblighi costituzionali non si possono ignorare. Nel caso, quindi, di una sua eventuale e deprecabile introduzione, sarà necessario individuare meccanismi di deducibilità che rendano effettivo il principio della progressività.

È doveroso prima di ogni decisione valutare quanto è accaduto e accade nei paesi in cui la flat tax è stata introdotta. Il caso emblematico ci sembra quello russo, dove le famiglie povere e quelle indigenti sono fortemente aumentate tanto da spingere le masse delle periferie urbane e i residenti nei territori rurali a chiedere di rivedere il sistema fiscale, introducendo forme di progressività nella tassazione.

In Russia, com’è noto, nel 2001 Putin, al suo primo mandato, introdusse la tassa fissa del 13% per tutti, ricchi e poveri, singoli e imprese, aziende produttive e società dubbie. Egli aveva raccolto un paese in ginocchio, devastato dalla corruzione del periodo di Eltsin, dalla penetrazione della finanza speculativa internazionale, dalla svendita delle ricchezze nazionali alle grandi corporation e dal sostanziale fallimento dello Stato del 1998.

E quel che era più grave, c’era una generale sfiducia. Nessuno aveva fiducia nel rublo, nessuno pagava le tasse, o per corruzione o per indigenza. I cosiddetti oligarchi «spostavano» centinaia di miliardi di dollari a Londra o nei paradisi fiscali. Perciò la tassa del 13% servì anzitutto a riportare un certo ordine e un po’ di razionalità nel sistema economico. Fu il modo per garantire un minimo di stabilità politica e un minimo di entrate fiscali.

Pertanto il vero motore della ripresa russa, più che la flat tax, è stato lo sfruttamento delle risorse energetiche, del petrolio e del gas, le cui riserve, insieme alle altre ricchezze naturali, sono enormi.

Per anni, la Russia ha incassato elevate fatture dalla vendita di crescenti quantità di risorse energetiche. Nel frattempo si è frenata in qualche modo sia la corruzione sia la fuga dei capitali. Si ricordi che in questi anni la differenza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita di petrolio e gas ha garantito entrate davvero eccezionali. Tanto che nel 2008 il classico barile di petrolio ha toccato la vetta di 150 dollari!

L’andamento della diseguaglianza. Il 10 percento della popolazione arriva a detenere il 56 percento degli introiti nazionali per anno in India; in Canada, USA e Russia detiene circa il 45 percento degli introiti annui. Nei Paesi dell’Unione Europea la diseguaglianza è relativamente più contenuta.

Oggi, però, la Russia, come altri paesi, sta vivendo una crescente e pericolosa ineguaglianza economica e sociale. Soprattutto dopo le sanzioni economiche e il crollo del prezzo del petrolio. C’è un recente studio del Credit Suisse in cui si dimostra come la Russia sia uno dei più «disuguali» paesi del mondo: il 10% della popolazione detiene l’87% della ricchezza della nazione. L’1% della popolazione detiene il 46% dei depositi bancari.

Anche la situazione della tanto decantata Ungheria merita un’attenta disamina. Il paese, si ricordi, è entrato nell’Unione europea nel 2004 mantenendo però la sua moneta nazionale, il fiorino.

Con una popolazione di 10 milioni di persone, nel 2008 aveva un pil di 157 miliardi di dollari a prezzi correnti. A seguito della crisi globale, nel 2011 il prodotto interno scese a 140 miliardi e nel 2012 a 125.

Nell’ultimo periodo ci sono stati dei miglioramenti nell’economia magiara, trainata dalla piccola ripresa europea e soprattutto dall’attivismo industriale della vicina Germania.

Non sembra che l’introduzione della flat tax del 16%, avvenuta nell’anno 2001, abbia aiutato la ripresa e le crescita in Ungheria. Ciò che ha invece veramente aiutato Budapest a mantenere una certa stabilità sono stati gli aiuti rilevanti da parte dell’Unione europea e la sua partecipazione al mercato unico europeo.

Gli aiuti sono stati riconfermati anche recentemente: dal 2004 al 2020 l’Ungheria riceverà da Bruxelles sovvenzioni per complessivi 22 miliardi di euro, cioè oltre 3,5 miliardi l’anno. Sono soldi che provengono anche dall’Italia, nonostante la forsennata propaganda magiara anti euro e anti Unione europea.

Si ricordi che l’Italia contribuisce al bilancio dell’Ue con ben 20 miliardi di euro e ne riceve 12. Gli 8 miliardi rappresentano il contributo netto dell’Italia. Se fossimo trattati come l’Ungheria dovremmo ricevere, in proporzione alla popolazione italiana che è 6 volte quella magiara, aiuti da Bruxelles per 22 miliardi di euro ogni anno. Altro che flat tax!

(Questo articolo è pubblicato in Italia Oggi del 16-02-2018)

Pubblicato il 17 febbraio 2018

su Frontiere

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