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L’Egitto sull’orlo dell’irreparabile

Nessuno in Egitto sembra intenzionato alla riconciliazione, anzi sono in molti a soffiare sulla brace perché possa divampare un devastante incendio sull’esempio siriano.

L’Esercito come i Fratelli musulmani si sono accodati e insinuati nello scontento popolare che portò alla destituzione di Mubārak, strumentalizzandolo per fine opposti. I Generali per mantenere il potere con tutti gli optional, mentre la Fratellanza per collocare l’Egitto nell’alleanza islamica.

I militari continuano a detenere dietro le quinte il potere, mentre i Fratelli si sono impegnati a piegare la democrazia ai loro piani islamistici mentre l’inettitudine di Morsi è riuscita ad aggravare la crisi economica nella quale versa l’Egitto degli ultimi anni di Mubarak.

Un anno di governo islamico ha evidenziato tutta la debolezza di una vittoria elettorale ottenuta con un aritmetico 26% degli aventi diritto che si trasforma in un 51% di quelli che sono andati effettivamente a votare.

Un Morsi divenuto presidente grazie ad un’astensione trionfante per uno schieramento laico e liberale diviso.

Una rivoluzione che, se mai si può così definire, due anni fa si mosse dai giovani da piazza Tharir per coinvolgere ogni strato sociale scontento della mancanza di pane e di benzina, ma da allora nulla è cambiato se non l’incarcerazione di una famiglia per essere sostituita da un’altra. Un nepotismo islamico che è riuscito ad aggravare la crisi con le tasse su vari generi compresi gli alcolici.

I giovani manifestano a piazza Tharir e malvolentieri l’Esercito si schiera al loro fianco, l’Islam esce vincitore dalle elezioni per dimostrare tutta l’inettitudine politica e tutta l’ambiguità democratica di Morsi nel soddisfare le richieste dei suoi Fratelli. È nuovamente da piazza Tharir che sale lo scontento per un islamismo poco moderato e i giovani manifestanti di 21 Aprile hanno trovato nel movimento Tamarod la forza di ribellarsi ed ora è ancora una volta l’Esercito ad intervenire come salvatore.

I Militari si dimostrano alleati della piazza laica, lasciando alla polizia il lavoro sporco di sparare sui manifestanti islamici, sollecitando lo scontro tra i pro e gli anti Morsi, ma tenendo pronti i blindati nelle strade e gli elicotteri nel cielo.

Non sono solo degli osservatori e garanti della volontà popolare, i Militari operano anche dietro le quinte, strumentalizzano lo scontento e le nefandezze degli squadroni paramilitari per poi arrivare, dopo centinaia di morti, come i pacificatori in armi.

La “rivoluzione” rimane incompiuta, rischiando di trovarsi tradita per tornare ad un ancien regime.

La Primavera parte seconda è ormai alla quarta fase e si sta addentrando nel buio più profondo di una notte modello siriano. Una riconciliazione resta impossibile dalla crescente ira, come presagio per un conflitto in tutto il nord Africa tra islamismo e laicismo.

La sperimentazione di ogni di alleanze variabili sembra giunta a termine, rimangono i Militari nel ruolo di ago della bilancia.

Così i militari assurgono nuovamente ad ago della bilancia dei cambiamenti egiziani, per non perdere la loro influenza in una rivoluzione di un ancien regime che può definirsi colpo di stato applaudito dalle folle, ma per l’opposizione, con la sua ritrovata unità, è la Primavera parte seconda.

È stata la politica di Morsi ha trasformare i milioni di astenuti delle ultime elezioni in sostenitori dei militari, ritenendo che siano meglio loro della piovra islamica, come tende a giustificare il fotografo e scrittore Ahmed Mourad, autore del giallo Polvere di diamante (Marsilio).

Continuano le vittime e i feriti degli scontri tra le due fazioni in un Egitto che si affida alla tutela dei militari, usando le maniere forti per non permettere che il paese si rompa irreparabilmente sotto la rabbia islamista.

Nelle prossime settimane i militanti del movimento Tamarod potrebbero scoprire che i cambiamenti in Egitto non saranno ad una svolta, ma seguendo il copione della destituzione di Mubarak, scopriranno di essere stati usati per la seconda volta dalla vecchia nomenclatura per rimanere al potere.

L’esercito invita allo scontro tra opposti schieramenti anti e pro Morsi, per poi intervenire come pacificatori in armi, strumentalizzatori dello scontento per giustificare le maniere forti.

06 OlO Egitto sull'orlo del burrone Dessin de Haddad, Liban 16-06-Egypte-dossier-illustr-normale-HADDAD_2012-02-13-3962Qualcosa di più:

L’Egitto si è rotto

Egitto: laicità islamica

Nuovi equilibri per tutelare la democrazia in Egitto

Egitto: democrazia sotto tutela

Estive cautele d’Occidente

Una Primavera di libertà congelata dall’inverno

Turchia: Autocrazia Ottomana

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L’Egitto si è rotto

 

È passato appena un anno da quando era diventato presidente Morsi, un opaco esponente dei Fratelli musulmani, ricevendo l’appoggio di una parte degli egiziani che l’hanno considerato il male minore nello sceglierlo al ballottaggio ad Ahmed Shafiq, candidato indipendente legato ai militari e ultimo Primo ministro di Mubārak.

 

Una vittoria che non poco è stata influenzata dai numerosi egiziani, la metà degli aventi diritto al voto, che hanno scelto di astenersi per non schierarsi, dopo che l’opposizione si è trovata sconfitta nell’essersi presentata divisa con i suoi tre candidati, vedendo la vittoria di uno dei due candidati una rivoluzione incompiuta se non addirittura tradita.

 

Ora, con il passare dei mesi, il signor Morsi-Nessuno ha dimostrato tutta la sua ambiguità democratica e inadeguatezza nel gestire la crisi economica, traducendo un’elezione con un aritmetico 26% degli aventi diritto che si trasforma in un 51% di quelli che sono andati effettivamente a votare, come la gestione del potere di una parte dell’Egitto sull’altra.

 

 

Gli astenuti del 2012 si sono trovati insieme ai delusi dal metodo autocratico di Morsi nel movimento Tamarod (Ribelle), per raccogliere milioni di firme, ne hanno dichiarate 22milioni, per chiederne le dimissioni.

 

 

Milioni di firme che si trasformano in una folla oceanica che riprende possesso non solo di piazza Tahrir, ma in ogni strada del Cairo e di Alessandria, a Luxor come in altre città egiziane, lanciando l’ultimatum a Morsi.

 

 

Dopo il prolungarsi di scontri tra oppositori e sostenitori di Morsi, con decine di morti che diventano centinaia e incalcolabili e il numero dei feriti, sono le Forze armate, come nel febbraio del 2011 con la destituzione di Mubarak, a prendere in pugno la situazione, portando nelle strade blindati ed elicotteri nel cielo.

 

 

L’ultimatum di Tamarod diventa l’ultimatum dei militari e, dopo un iniziale timido tentativo di trattare, Morsi viene preso in “custodia” preventiva con i suoi collaboratori e i vertici dei Fratelli musulmani, altri esponenti del governo vengono invitati a rimanere nei loro appartamenti.

 

 

Così i militari assurgono nuovamente ad ago della bilancia dei cambiamenti egiziani, per non perdere la loro influenza nella rivoluzione di un ancien regime che può definirsi colpo di stato applaudito dalle folle, ma per l’opposizione, con la sua ritrova un’unità, è la Primavera parte seconda.

 

 

È la politica di Morsi che ha trasformato i milioni di astenuti delle ultime elezioni in sostenitori dei militari, ritenendo che siano meglio loro della piovra islamica.

 

 

Un’immagine quella di paragonare la Fratellanza ad una mafia condivisa da molti intellettuali come il fotografo e scrittore Ahmed Mourad, ultimo libro pubblicato il giallo Polvere di diamante per Marsilio, che il potere egiziano l’ha visto da vicino essendo stato il fotografo di Mubarak, Morsi e ora di Mansour, raffrontando la figura di Mubarak con quella di Morsi nel definire il primo un uomo che si era allontanato dal popolo e il secondo un organizzazione nelle mani dei Fratelli musulmani. Altrettanto severo è il giudizio dello scrittore Ala Al Aswani che equipara il loro comportamento come quello dei fascisti.

 

 

L’estromissione dei Fratelli musulmani dal potere egiziano riceve i consensi dell’Arabia saudita e l’applauso del siriano Bashar al-Assad che fa sospettare un accartocciamento dei cambiamenti nel Mondo arabo con ritorno agli antichi equilibri.

 

 

Un segnale di questa ricerca di antichi equilibri potrebbe essere la casualità che vuole il Presidente della Corte costituzionale egiziana, il giudice Adly Mansour nominato da Mubarak e promosso all’attuale carica da Mohammed Morsi, a essere designato dai militari come presidente ad interim fino a nuove elezioni.

 

 

Le prime mosse del presidente pro tempore Mansour hanno portato allo scioglimento della Camera alta, di nomina governativa, ha nominato il nuovo capo dell’intelligence e deve affrontare le violente proteste dei sostenitori di Morsi.

 

 

Continuano le vittime e i feriti degli scontri tra le due fazioni in un Egitto che si affida alla tutela dei militari, usando le maniere forti per non permettere che il paese si rompa irreparabilmente sotto la rabbia islamista.

 

 

In Egitto sono i militari a detenere il vero potere, anche dopo le numerose e raffazzonate riforme di Morsi nel limitarne la loro intromissione, ma senza poter fare a meno del finanziamento annuo statunitense di 1,3 miliardi di dollari.

 

 

L’Egitto ha sperimentato un socialismo nasseriano caratterizzato da una forte impronta nazionalistica panaraba che non ammetteva opposizioni, con Sadat il paese doveva superare Nasser per essere traghettato nel capitalismo che Mubarak lo portò a trionfare. Con i Fratelli musulmani è l’islam ad essere la soluzione e Morsi si accingeva a far vivere gli egiziani sotto tale precetto.

 

 

È uno scatto di orgoglio nazionalista che ha coinvolto così tante persone nel chiedere di non dover dipendere dall’elemosina dei paesi più ricchi, soprattutto dagli Stati uniti.

 

 

Quello che non piace a Tamarod di Morsi è il non essere riuscito a migliorare la sicurezza, a trovare delle soluzioni alla crescente povertà, al far sopravvivere l’economia egiziana con gli aiuti internazionali e soprattutto il non essere riuscito ad affrancarsi dalle decisioni statunitensi.

 

 

Il problema non è l’islam, l’Egitto è un paese musulmano, ma la politica messa in pratica dal movimento islamista dei Fratelli musulmani che ha portato a dividere il paese, ha evidenziato una polarizzazione della società egiziana, iniziata alla fine del 2012 con il decreto che permetteva a Morsi di raccogliere nelle sue mani gran parte dei poteri.

 

 

Nonostante i cospicui finanziamenti provenienti dal Mondo arabo e dall’Occidente, l’Egitto vive una crisi economica che si è aggravata con le incertezze di stabilità e riducendo a un lumicino l’industria turistica, escludendo la zona di Sharm el Sheikh e alle gite di un giorno a Luxor.

 

Il turismo ha subito un duro colpo, nonostante la disponibilità dei Fratelli musulmani a rendere duttili le direttive islamiche in favore del pragmatismo economico sui divieti nell’uso di alcolici e nell’utilizzo del bikini.

 

 

Il continuo veto posto dagli islamisti ad ogni laicità governativa evidenzia la mancanza di dialogo tra schieramenti. Alla mancata candidatura di El Baradei a primo ministro è seguita quella di altre personalità accusate di essere laici e troppo vicini agli Usa. Un’intransigenza della fratellanza musulmana ben comprensibile dopo aver visto esautorato il loro presidente Morsi e la maggioranza elettorale che non ha permesso nessun compromesso mentre la democrazia sotto tutela militare ha partorito un governo laicista di 34 ministri con 3 donne, di cui una cristiana, e nessun islamico. Questo il governo di transizione guidato dall’economista Hazem El-Beblawi, con Mohamed El Baradei suo vice, scelto dal presidente ad interim Adly Mansour e avallato dai militari che sono presenti con il generale Abdel Fattah al-Sisi, capo delle Forze armate e “ispiratore della destituzione di Mohamed Morsi, alla difesa.

 

Un governo ritenuto illegittimo dai Fratelli musulmani che continuano a manifestare sempre più rumorosamente anche in concomitanza con le visite del vice segretario di stato americano, William Burns, e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Catherine Ashton, in Egitto per due volte nello spazio di due settimane.

 

 

Il presidente statunitense, per uscire dall’imbarazzo di non aver compreso nuovamente la forza della piazza, afferma che la democrazia va oltre le elezioni. Altrettanto laconici sono i commenti di altri leader occidentali, evitando di stigmatizzare la destituzione di Morsi come un golpe, ma è al massimo la conseguenza di una forte pressione popolare assecondata dai militari.

 

 

Il paese è in fiamme e l’esercito usa le armi, l’Unione africana ha sospeso temporaneamente l’Egitto dal suo seggio, ritenendo “irregolare” la deposizione del presidente Morsi, sino a quando non saranno ripristinati i diritti costituzionali.

 

 

Nelle prossime settimane i militanti del movimento Tamarod potrebbero scoprire che i cambiamenti in Egitto non saranno ad una svolta, ma seguendo il copione della destituzione di Mubarak, scopriranno di essere stati usati per la seconda volta dalla vecchia nomenclatura per rimanere al potere.

 

 

La “nuova” dirigenza egiziana, con le frequenti incursioni armate nel Sinai, ha ritenuto indispensabile comunicare al governo di Tel Aviv, nel rispetto del trattato del 1979, la necessità di aumentare la presenza di militari egiziani nella penisola per far fronte ai diversi gruppi terroristici, tra i quali l’esordiente gruppo pro Morsi Ansar al-Shariah, che si infiltrano attraverso la striscia di Gaza.

 

 

Una decisione che ha portato il blocco dei diversi tunnel lungo il confine di Gaza mentre il valico di Rafah è stato chiuso. Di fatto i palestinesi di Gaza sono bloccati in quella che si ritiene “la più grande prigione a cielo aperto”, pagando di fatto il sostegno che Hamas ha dato e ricevuto dalla Fratellanza. La caduta del regime di Morsi ha reso la popolazione di Gaza una vittima collaterale, strangolando ulteriormente, se mai fosse possibile, l’economia di una zona tra le più disagiate del Pianeta. Una pressione su Hamas perché possa vigilare con maggior fermezza sui confini.

 

 

A Gaza nessun palestinese entra o esce ed ogni intervento medico urgente non potrà essere fornito, mentre i palestinesi Ramallah confidano nell’attività diplomatica del segretario di stato statunitense, John Kerry, nella ripresa dei colloqui di pace tra il governo israeliano e l’Autorità palestinese.

 

 

L’Occidente, interessato a mettere in sicurezza le forniture degli idrocarburi, si augura che l’Egitto possa presto tornare alla normalità costituzionale, per non cadere in una tragedia modello siriano, magari dopo la revisione che i dieci “saggi” dovrebbero effettuare sulla Costituzione, già emendata in senso islamico da Morsi e contestata da liberali e cristiani che ne denunciano i limiti di libertà e diritti umani.

 

La situazione siriana non sembra sortire alcun effetto come ammonimento, anzi l’esortazione a scendere in piazza del generale e Ministro della difesa El-Sisi sembra voler far eco agli incitamenti dei Fratelli musulmani allo scontro, mentre le famiglie egiziane continuano a soffrire la fame, come dimostra la fornitura di 240.000 tonnellate di grano provenienti dalla Romania, Ucraina e Russia per la produzione di pane sovvenzionato.

 

 

L’esercito invita allo scontro tra opposti schieramenti anti e pro Morsi, per poi intervenire come pacificatori in armi, strumentalizzatori dello scontento per giustificare le maniere forti.

 

 

 

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 OlO Egitto Rotto Il Faraone caprone Tamarod Campagna Rebel Ribellarsi

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 Turchia: Autocrazia Ottomana

Autocrazia Ottomana

I recenti avvenimenti turchi stanno avallando i dubbi avanzati da alcuni osservatori sulla democrazia d’impronta islamica perpetrata dal governo di Recep Tayyip Erdoğan all’indomani delle elezioni del 2002.

Erdoğan ha silenziosamente guidato la Turchia verso un’islamizzazione strisciante, limitando la laicità promossa da Moustafah Kemal Ataturk nel fondare la Turchia moderna e per una democrazia autoritaria. Una visione personalistica della democrazia molto simile a quella di Putin con l’addomesticamento della Turchia con ogni mezzo compreso l’arresto in massa di chi manifesta e di chi li difende davanti alla Legge.

Un indirizzo che non era evidente per tutti, ma le restrizioni sulla vendita degli alcolici o l’incoraggiare l’uso del velo in ogni luogo hanno ampliato lo scontento che la cementificazione di uno spazio verde di Istanbul non ha fatto che dare il segno a una protesta diffusa.

A far scendere per le strade la protesta è stata anche la scelta del governo di continuare a cementificare Istanbul con un nuovo centro commerciale, cancellando Gezi Park, uno degli ultimi luoghi verdi della città, per un progresso forzato da perseguire attraverso la strana idea occidentale che può essere realizzata con l’edificazione forzennata.

Alle porte di Istanbul la modernizzazione ha le fattezze del Teknopark, un complesso stile Silicon Valley che dal prossimo agosto, dopo oltre vent’anni d’intenzioni e lavori, ospiterà un migliaio di aziende di tecnologia avanzata.

Sembra indicato, nel caso di Gezi Park, citare il primo verso della canzone di Joni Mitchell, Big yellow taxi, (Ladies of the Canyon, 1970), anche se la folk singer si riferiva ad una cementificazione alle Hawaii “Hanno pavimentato il paradiso / e ci hanno messo su un parcheggio / con un hotel rosa, una boutique / ed un riflettore che ondeggia. […]”

La rabbia turca ormai non è solo ambientalista, ma soprattutto contro un governo che vuol sorvegliare troppo da vicino il comportamento dei singoli mettendo in discussione l’identità turca che non può essere quella araba.

La minaccia di abbattere 600 alberi è riuscita a coagulare le anime più diverse per gridare all’unisono lo scontento accumulato in anni di svolta autoritaria del governo Erdoğan che potrebbe coincidere con la crisi diplomatica con Israele e il voler assurgere a ruolo di tutore della riscossa del mondo islamico. Un’ambizione stimolata dalla nostalgia di un impero e dei suoi pascià che il progetto del complesso commerciale, con annessa ricostruzione di una caserma ottomana e una moschea, rendono Erdoğan un euroscettico per le continue richieste dell’Ue di europeizzare la Turchia e affiliarla all’Europa o la riluttanza di alcuni paesi della comunità di accettare nel proprio club uno stato islamico.

Una nostalgia per un’epoca che non era proprio di grande esempio per un musulmano con l’opulenza e le numerose deroghe alle regole all’Islam.

È più probabile che il governo Erdoğan non abbia mai avuto l’intenzione di dare seguito alla richiesta della maggioranza che lo aveva preceduto nell’aderire al Ue, ma preferire degli interlocutori commerciali più autoritari come la Cina e la Russia.

Il premier Recep Tayyip Erdoğan al suo terzo mandato, con il 52% di preferenza ben lontano dai risultati plebiscitari del 2002, ha ritenuto doveroso presentarsi poco dialogante, contraddicendo il suo schierarsi con le “Primavere” arabe e rivelandosi incapace di ascoltare le istanze dei suoi connazionali.

Una posizione muscolare quella di Erdoğan che ha sfoggiato nel gridare contro i social media e accusando la protesta di piazza di infiltrazioni straniere non ben identificate nelle proteste calandosi nella paranoia di un governante in cerca di nemici esterni per coagulare su di se il consenso, potendo contare sui suoi fan coattivi di 2.041.503 “Mi Piace” su Facebook e 2.823.762 Follower su Twitter.

Il porsi come un primo ministro autoritario gli permette di creare degli interlocutori come i capi della protesta e pensare a una consultazione referendaria sulla quale ci dovrà essere il futuro del Parco, ma gli permette anche di trovare nuove forme di censura come quella di multare le televisioni che trasmettono immagini della protesta ritenendo antieducativi i filmati.

Tutto questo mentre il movimento di protesta elegge Bella Ciao a sua colonna sonora e la ragazza in rosso che sfida il getto di gas lacrimogeni e degli idranti come suo simbolo.

Una posizione intransigente quella del primo ministro Erdoğan criticata anche dal presidente Abdullah Gül, anche lui islamico, portando in superficie i pacati contrasti tra le due alte cariche turche, marcando i contrasti all’interno della stessa compagine governativa e ponendo gli scontri non tanto tra islamismo e laicità, ma piuttosto tra una parte dello Stato e la maggioranza dei cittadini.

Erdoğan non ha alcuna intenzione di cedere alle proteste di piazza e vuol proseguire nei suoi progetti e appuntamenti come Giochi del Mediterraneo 2013 a Mersin o farsi intimidire dalle minacce di sospendere i negoziati di adesione della Turchia all’Ue.

Nessun rimprovero europeo o statunitense, sul comportamento dalla polizia nel contrapporsi alle proteste, fa recedere Erdoğan dalle sue posizioni e i 600 alberi che potrebbero diventare la fine di una democrazia autoritaria come la foresta lo fu per lo shakespeariano Macbeth.

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Un Nobel in conflitto d’affari

Mai un riconoscimento come quello del Nobel, per l’impegno a favore della Pace, è stato tanto spudoratamente disatteso come sta avvenendo con il comportamento dell’Unione europea per la sua non decisione sull’embargo di armamenti verso la Siria. Qualche dubbio sull’opportunità di conferire quel riconoscimento all’Ue, motivato per il contribuito che aveva dato alla riconciliazione, alla democrazia e ai diritti umani in Europa, era stato comunque in precedenza sollevato, vista l’incapacità di fermare prontamente il massacro nei Balcani e l’aver ripetutamente taciuto sulle tragedie del Mediterraneo, oltre ad operare con una forza militare quale è Frontex per dissuadere l’umanità disperata di trovare in Europa un luogo dove vivere.

E’ con questi precedenti che la Ue ha dunque affrontato lo scorso 27 maggio a Bruxelles il nodo siriano, con i ministri degli esteri dei diversi stati, e ha pensato di risolverlo togliendo l’embargo sulle armi alla Siria. In prima fila a sollecitare le forniture militari all’Opposizione siriana ci sono la Gran Bretagna e la Francia che, constatando l’incapacità dell’Occidente a fermare il quotidiano massacro di civili che dura da due anni, hanno pensato di trarne profitto – come sta facendo la Russia – smerciando armi proprio ora che si entra nel vivo della preparazione per la Conferenza di Pace di metà giugno a Ginevra, l’appuntamento sembra slittare a luglio. Nel frattempo l’Opposizione siriana continua a discutere in riunioni interminabili, l’ultima delle quali si è protratta a Istanbul per giorni e giorni senza alcun risultato, per marcare la divisione tra posizioni laiche e islamiste.

Si continua a parlare di pace, ma tutti sembrano soffiare sul fuoco, trasformando la Siria autoritaria, con un’economia turistica stabile e una posizione geopolitica di garanzia nell’area mediorientale, in terreno di scontro tra sunniti e sciiti, tra Russia ed Europa, tra Cina e Stati uniti, tra laicità musulmana e islamismo. Creando sodalizi pericolosi come tra Iran e Iraq in una sorta di alleanza sciita per emarginare le altre componenti dell’Islam.

Per ora il campo di battaglia tra le due componenti islamiche si svolge cruentamente nel territorio siriano, con mercenari e fanatici che arricchiscono uno scenario circoscritto, ma la situazione ribolle in Iraq con la silenziosa mattanza quotidiana e nell’attiguo Libano con una complesso alternarsi di alleanze variabili. In più, combattenti stranieri in ambo gli schieramenti, fondamentalisti con Bashar al-Assad e con chi gli si oppone, mercenari e idealisti che si fronteggiano. In occasioni simili mai è risultato saggio affidarsi a mercenari per conservare il potere. Ma il fronteggiarsi di sunniti e sciiti (difficilmente comprensibile fuori dell’Islam) pervade gran parte del mondo islamico. In Iraq, al tempo di Saddam Hussein, era la minoranza sunnita a detenere il potere, ora i ruoli sono invertiti, con i sunniti a trovarsi limitati nei diritti e organizzare attentati. Nel Bahrein la minoranza sunnita controlla invece con autorità gli sciiti. E in Pakistan sono frequenti gli attentati nei confronti della comunità sciita.

Più semplicemente la Russia gongola, guardando la Ue che si divide, ambendo ad essere egemone nell’emisfero settentrionale, mentre la Cina scansa gli Stati uniti da quello meridionale. E dopo che il regime di Bashar al-Assad è stato continuamente foraggiato in armamenti da Russia e Iran, ora è la volta che l’Europa procuri armamenti adeguati a rendere più equilibrato lo scontro e accrescere le file di vedove e orfani. I contrasti religiosi e culturali sono un lucroso affare per i mercanti d’armi e un modo per risollevare dalla crisi l’Occidente che detiene la maggioranza della produzione bellica.

L’Europa nel suo non decidere unitariamente si dimostra incapace di mostrarsi come degli stati con un unico futuro. Non è la zona euro a essere in crisi, è l’idea complessiva dell’Europa, con rappresentanti succubi dei governi nazionali e una leadership opaca.

Siria OsservatoriInternazionaliSiria_500 Vignetta l’Onu gioca a nascondino in SiriaSiria STEPHFF_syria Vignetta

Maggie liberalista culturale

Prima di Margaret Thatcher la Gran Bretagna era un paese con un’industria fiorente e delle miniere. Dopo il suo passaggio rimase un’economia basata sulla finanza. Una donna che ha smantellato il prodotto fisico per sostituirlo con i Commodity Futures, trasformando la Londra dickensiana in quella dell’alta finanza araba, prima, e quella odierna dei russi.

Maggie è morta e c’è chi stappa bottiglie di spumante e ha grida: Evviva!

Negli anni ’80 avviò il risanamento della malsana ex zona portuale del Tamigi, l’ampio quartiere dei Dock, creando un asse di espansione della City, facilitando l’insediamento di banche e agenzie finanziarie, ma anche per la produzione televisiva.

Un intervento che trasformò la zona degradata in quartiere residenziale dei Docklands – Canary Wharf.

La Thatcher avrà distrutto un’economia basata sulle miniere, e dopo trent’anni i minatori hanno continuato a odiarla, ma ha limitato l’inquinamento atmosferico. Paradossalmente è grazie alla Lady di Ferro utilizzata come fonte d’ispirazione che l’industria cinematografica britannica è risorta e il rock è rinato.

Margaret Thatcher è stata la fortuna della cultura britannica, ha incanalato su di se la rabbia ispiratrice anche degli scrittori, rendendo, come afferma Ian McEwan sul The Guardian di martedì 9 aprile, migliore la loro scrittura. Alla fine degli anni ’80, ad una conferenza internazionale di Lisbona, gli scrittori italiani come Antonio Tabucchi non riuscivano a capire perché Salman Rushdie, Martin Amis, Malcolm Bradbury e lo stesso Ian McEwan erano tanto ossessionati dalla Lady di Ferro, perché secondo loro la letteratura non ha niente a che fare con la politica.

Ma per Ian McEwan e gli altri la Thatcher era un inesauribile fonte di ispirazione con il loro non amarla e il piacere di provarlo.

Bastò qualche anno perché quegli scrittori italiani si dovettero ricredere con la scesa in campo di Silvio Berlusconi.

In Italia non è stata necessaria la presenza di una figura forte come la Thatcher per fare di meglio nello smantellamento dell’istruzione e della cultura e anche con l’industria siamo a buon punto.

Il neorealismo italiano si affermò in un periodo difficile per l’Italia e osteggiato dalla politica che denuncia un’immagine “avvilente” della società.

Con Ken Loach i suoi Riff Raff (1991) e Piovono pietre (1993), Peter Cattaneo con Full Monty (1997), Stephen Daldry con Billy Elliot (2000) si ha un panorama del proletariato in era thatcheriana, sino al The Iron Lady con Meryl Streep per avere una sintesi di cosa è stata la Thatcher per il Regno unito.

Non solo la politica economica della Thatcher, ma anche le scelte politiche e l’inutile fermezza nel gestire il caso di Bobby Sands, l’esponente dell’Ira lasciato morire di fame in prigione, raccontata da Terry George con Some Mother’s Son (Una scelta d’amore, 1997), con The Falklands Play viene affrontata la crisi del Regno Uniti con le Isole Falkland per la Bbc.

Una visione forse un po’ faziosa, ma nulla a che vedere con la rabbia gridata in canzoni come Margaret on the guillotine di Morrissey, dove l’ex leader degli Smiths immagina la morte del primo ministro britannico come un “sogno meraviglioso”. Pink Floyd di The fletcher memorial home (1983), Elvis Costello con Tramp the dirt down (1989), Sinead Oconnor con Black boys on mopeds (1990) sono tutte delle proteste contro la politica ultraliberista e le privatizzazioni selvagge della lady di ferro.

Il gruppo The Clash risponde al divieto della Thatcher dell’uso della parola “sandinista”, riferita ai guerriglieri del Nicaragua intitolando il loro quarto album Sandinista!.

Quale altro politico può fregiarsi di aver ridotto le cause d’inquinamento dovute all’industria e al carbone, oltre ad essere stata la promotrice di una nuova filmografia e fare la fortuna del rock, sino a rendere la narrativa britannica migliore? Inoltre il Labour Party la deve ringraziare per Tony Blair e il nuovo corso liberalista del partito.

 “dal letame nascono i fiori dai diamanti non nasce nulla

 Margaret Thatcher