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L’Egitto e la Laicità

Il secondo anniversario della rivoluzione che ha deposto Hosni Mubarak è stato segnato da una protesta dilagante contro i Fratelli musulmani e il loro presidente.

OlO Egitto Prove di laicità Egitto mohamed_morsi_egittoDue anni dopo, le tende sono ancora in piazza Tahrir. Alla rivolta dell’opposizione contro la deriva islamista Morsi ha risposto ordinando di cancellare i murales “critici” e mettere sotto inchiesta la satira, se non basta far intervenire l’esercito.

Una rivoluzione spontanea senza una leadership, caratterizzata dall’utilizzo dei social network come Facebook e Twitter. I siti web varia informazione come quello The National Council for Women dedicato alle donne che manifestano o Join 18 Days In Egypt che si rivolge a chi ha vissuto i giorni di piazza Tahrir per raccogliere ogni testimonianza dei giorni della protesta. In un twitter si affermava che L’Egitto viene trasformato in inferno da gente che pensa di andare in Paradiso.Egitto Donne sidi-henesh-047-001 La violenza sui manifestanti si trasforma in vere aggressioni sessuali nei confronti delle donne che si sono organizzate realizzando il sito Harassmap per segnalare episodi di molestie sessuali via SMS in forma anonima o i gruppi di difesa delle donne denominati Tahrir Bodyguard anche su Twitter che non si limitano ad una presenza sul web, ma girano con caschetto e pettorina fosforescente, per garantire il diritto delle donne a manifestare e contro i predicatori impegnati ad addossare ogni responsabilità delle aggressioni sessuali alle vittime. Secondo gli islamismi sono le stesse donne ad essere responsabili dei loro stupri se si mescolano con gli uomini per partecipare a raduni.

A queste deliranti affermazioni si contrappone la campagna contro le molestie sessuali anche attraverso i disegni sul blog che è un omaggio alle donne.

Egitto Donne mohamed-mahmoud-mural-008-001Una domanda che molti si pongono è se Morsi, il signor nessuno sino al momento della sua elezione a presidente dell’Egitto post Mubarak, a tenere le redini della nazione o sono i suoi Fratelli Musulmani a suggerirne la sua condotta? Di certo c’è che l’Egitto non può fare a meno degli investimenti esteri come i 20miliardi di dollari del Qatar o il discusso ponte sul Mar Rosso promosso dall’Arabia Saudita e che allarma gli ambientalisti. All’Egitto necessita anche il prestito dai 3,2 ai 4,8 miliardi dollari dal FMI (Fondo Monetario Internazionale), richiesto dal governo egiziano per affrontare la crisi finanziaria e il deficit di bilancio, tanto più ora che il turismo sembra un ricordo, nonostante l’impegno del presidente di garantire la sicurezza dei turisti, e Morsi si esibisce nel rincaro di tasse sulle sigarette, birra, bevande analcoliche, elettricità, oltre che su una serie di licenze, sulla pubblicità e nel settore immobiliare.

Nel panorama di precarietà finanziaria l’Egitto conta sul prestito della Banca per lo sviluppo africano (AfDB), per sostenere l’economia nazionale e finanziare progetti di sviluppo specifici, e sul rinnovo degli impegni stipulati dagli Stati uniti, non solo a livello militare, con il precedente governo.

La crisi economica rappresenta in Egitto un argine contro la pressante imposizione di una religiosità sfrenata nella struttura statale. Morsi deve rendere conto alle varie organizzazioni e ai singoli stati dei prestiti e debiti contratti con l’Occidente e il Mondo arabo.

Gran parte degli egiziani sentono che due anni di cambiamenti sono serviti a tradire la rivoluzione e percepire Morsi schiacciato tra gli accordi internazionali e la fratellanza musulmana.

I Fratelli musulmani sono nati come una società di mutuo soccorso, ma in questa fase politica sembrano presi solamente dalla gestione del potere, mettendo in secondo piano le quotidiane necessità dell’egiziano mussulmano o copto che sia.OlO Egitto Prove di laicità Egitto Cibo Divide breadboy

Le famiglie egiziane sono diventate più vulnerabili non hanno abbastanza soldi per comprare cibo, vestiti e riparo. Questa è la conclusione dell’ultima indagine dell’Egyptian Food Observatory’s.

L’Egitto non riesce a risollevare il turismo e dare sicurezza al turista, con i ciclici scontri tra sostenitori e oppositori di una vita laica e gruppi islamisti armati che vagano nel deserto pronti ad intervenire.

Solitamente le crisi economiche sono foriere d’instabilità politica, ma per l’Egitto può diventare l’unica possibilità di uno status quo tra i fautori di un’islamizzazione della vita quotidiana e chi non vuol rinunciare alla laicità dello Stato, anzi vorrebbe accrescere i diritti dei singoli.

In Egitto la laicità della vita pubblica non appartiene al contesto filosofico, ma semplicemente finanziario: non eccedete nell’introduzione di esternazioni religiose nella quotidianità pubblica e vi mancherà il sostennio anche finanziario dell’Occidente. Niente discriminazione verso chi non porta alcun tipo di velo o di abbigliamenti riconosciuti rispettosi dell’islam.

Le agenzie di rating continuano a declassare i titoli egiziani e la disoccupazione aumenta. Si aumentano i prezzi di alcuni generi per poi recedere su alcuni. Una continua acrobazia per confondere la popolazione e far sembrare i governanti sensibili alle necessità della popolazione.

Un apparente status quo, perché Morsi e i suoi sponsor continuano ha prendersi ampi spazi di potere, attraverso le vie istituzionali e con sotterfugi, per poi restituire un po’ del maltolto dopo le furiose manifestazioni di piazza e le proteste nel web.

Un web che si è mostrato utile per far crescere l’indignazione con la messa in Rete del video che pare documenti il trattamento riservato a un uomo nudo dalla polizia.

Se ci si domanda se Morsi o la Fratellanza Musulmana è a tenere le redini del potere in Egitto è ancor più enigmatico il ruolo delle forze armate che sempre più spesso svolgono attività di polizia e di barriera in difesa delle sedi istituzionali minacciate dai manifestanti.

Il Governo si affida all’esercito, scegliendo di schierarlo a difesa dei principali edifici pubblici, oltre che dei commissariati, ma le forze armate hanno metabolizzato le epurazioni che le hanno colpite o stanno attendendo che l’esasperazione della popolazione renda “necessario” il loro intervento.

OlO Egitto Prove di laicità Limes Egitto 0113_cover_250x313Intanto il presidente Morsi riunisce il Consiglio di Difesa per far fronte al caos in cui sta precipitando il Paese e tende la mano all’opposizione laica che continua ad presentarsi in ordine sparso, provando a formare un governo di unità nazionale.

Una rivoluzione tradita è il titolo che dal 2011 rimbalza e ricorre periodicamente sulle testate giornalistiche di vari paesi.

Il periodico Limes, nel suo ventesimo compleanno, dedica a “L’Egitto e i suoi Fratelli” gran parte del numero di febbraio per ripercorrere i due anni che hanno scandito le speranze degli egiziani e avere qualche informazione di più se la “Primavera” araba non si stia trasformando in un inverno islamico.

Festival sul Niger

Questa nona edizione sarà speciale. Non sarà solo un programma di musica, danza, teatro, arti visive del contemporaneo e il loro confrontarsi con la tradizione, ma soprattutto un’occasione di discussione per il processo di pacificazione nazionale. Un Festival per la Pace in un paese ricco di risorse naturali e tormentato da spinte indipendentiste e forzature islamistiche, da una precaria situazione politica e dalla corruzione.

Una Pace che appare vicina ora che le truppe maliano e francesi stanno spingendo sempre più a nord gli jihadisti che hanno minacciato la cultura del Mali e il patrimonio della biblioteca di Timbuctù. Un conflitto che ha esiliato il Festival au Desert e pone nuove incognite.

I jihadisti sembrano dissoltisi nel deserto, verso nord, in Algeria e in Mauritania.

 

Mali un festival per la pace poster_fsn_janvierFESTIVAL SUL NIGER

Dal 12 al 17 febbraio 2013

Mali

Regione di Segou

 

 

 

Festival sul Niger
http://www.festivalsegou.org/

Nel castello di Dracula

I Paesi del Golfo tentano di imporsi come fautori di un nuovo Mondo, ospitando e promuovendo conferenze sui vari temi e questioni di coinvolgimento internazionale.

A novembre Doha (Qatar) ha dato ospitalità alle diverse anime del variegato panorama dell’opposizione siriana e dopo una settimana d’intense discussioni sono riusciti a presentarsi come una forza unita che ha superato le differenti vedute, eleggendo l’islamista indipendente Munzer al-Khatib (Ahmed Moaz Al-Khatib) a capo della nuova “Coalizione Nazionale siriana”.

Gran parte dell’opposizione siriana ha trovato nel Qatar l’unità con l’islamista al-Khatib e il riconoscimento di “legittimo rappresentante” del popolo con la dichiarazione congiunta dei 27 ministri degli Esteri dell’UE, mentre nell’emirato non si ammette alcuna critica alla classe dirigente.

Al diritto di contestare hanno fatto seguito due estenuanti settimane di difficili negoziati per giungere a un nulla di fatto sui cambiamenti climatici. Ed ecco il Qatar, uno dei produttori di petrolio, interessato non solo del diritto di contestare un governo che non sia il suo, ma anche di ambiente, ospitando il summit COP 18, promosso dall’Onu, con 17mila delegati, un vero impatto climatico, in rappresentanza di 194 paesi. Un vero tripudio di lingue e culture per ridurre le emissioni delle tonnellate di gas serra e arginare il surriscaldamento del pianeta.

Un Pianeta sottoposto a dei cambiamenti climatici palesati con l’intensificare degli uragani, le sempre più irruenti inondazioni e le minacciose previsioni sull’aumento del livello del mare imputato allo scioglimento dei ghiacciai, ma che non ha la stessa priorità in ogni luogo del pianeta. L’Unione europea cerca di far sopravvivere il protocollo di Kyoto, mentre altri paesi industrializzati come gli Usa, nonostante l’attuale presidenza propagandi uno sviluppo ambientalista, si trovano accomunati, insieme al Canada e al Giappone, a quelli emergenti (Russia, Nuova Zelanda, Cina, India, Brasile, Messico e Sud Africa) nel club dei grandi inquinatori che non intendono recedere dalle loro performance inquinanti.

Differenti vedute sull’ambiente hanno preceduto quelle sulle comunicazioni del WCIT-12 (Conferenza Mondiale sulle Comunicazioni Internazionali), voluta dall’Unione internazionale delle telecomunicazioni (ITU) dell’Onu, ma ospitata a Dubai dovein quanto a libertà d’informazione l’emiro è molto attivo nei confronti di altri paesi, più che praticarla nel suo regno.

Un appuntamento dell’ITU fortemente contestato dalle società attive su Internet e non ufficialmente presenti all’interno dell’agenzia delle Nazioni unite che non temono solo delle limitazioni al libero accesso alla Rete per rendere marginale il peso delle aziende private nella sua gestione, ma un controllo sul business etereo.

La governance di Internet coinvolge non solo la finanza, ma la geopolitica e le rivendicazioni dei Diritti umani. Un ambito poco gradito alla Cina e alla Russia, con i loro alleati dalle democrazie autoritarie, nel non rinunciare ad un ferreo controllo dell’informazione come viene formulato nel documento russo-cinese nel quale ribadisce che “gli stati membri devono poter assicurare che le amministrazioni e le agenzie operative cooperino nell’assicurare l’integrità, la sicurezza e la affidabilità del segmento Internet nazionale”.

Una posizione ribadita recentemente con un’ulteriore stretta all’utilizzo della Rete con l’intenzione di Pechino a richiedere agli utenti i dati identificativi. Niente nickname o alias per accedere ad Internet, ma un prosieguo delle opere di filtraggio e censura del governo cinese. Una vera schedatura di 500 milioni di internauti cinesi, già sottoposti a forti limitazioni della libertà sulla Rete, una misura giustificata per prevenire frodi informatiche.

Mentre la posizione statunitense è per una deregulation dei servizi a banda larga, mettendo in secondo piano il diritto alla libertà di opinione e di espressione attraverso ogni mezzo e senza frontiere, una visione ribadita da Hamadoun Touré, Segretario Generale ITU, cercando di raffigurare che la conferenza non ostacolerà la libertà di espressione e il diritto alla privacy.

Le problematiche sul clima o le comunicazioni discusse in ambienti un po’ allergici a tali temi, è umoristico quanto ospitare una banca del sangue nel Castello di Dracula!

Appare come una contraddizione in termini tenere la conferenza delle Nazioni Unite per giungere ad un nuovo accordo mondiale per governare il clima del futuro a Doha, capitale del Qatar, ma anche gli emiri del petrolio guardano alle energie non prodotte da combustibili fossili, alle fonti rinnovabili per la prosperità dei vari Paesi

È come indire una conferenza sui Diritti Umani a casa di un autoritario presidente o l’Onu che affida la presidenza di un commissione umanitaria ad un familiare di un dittatore.

Quella è fantapolitica, ma questa è la realtà con summit sul “governare” il futuro dei cambiamenti climatici e dell’informazione che si tengono in luoghi dai governi non proprio specchiati su tali argomenti.

Un Festival in Esilio

L’imperante presenza degli islamisti e l’instaurazione della sharia nel nord del Mali ha rischiato di far saltare l’edizione del 2013 del Festival au Désert. Un festival che aveva trovato, dopo le prime 3 edizioni itineranti, nella località di Essakane, a 65 chilometri da Timbuctu, il luogo ideale dove festeggiare internazionalmente la musica, le danze e i giochi legati alla tradizione tuareg.

Fin dalla sua nascita nel 2001 il Festival au Désert si è distinto per lo spirito di tolleranza e apertura verso tutte le tradizioni delle popolazione del Mali.

Fondata sulla festa tradizionale Tuareg – Tamashek -, quando i clan nomadi si incontravano nella stagione più fresca, per celebrare la loro cultura, la loro musica e le loro storie di peregrinazioni.

Quest’anno il Festival torna al suo spirito nomade. Manny Ansar, il direttore del festival, ha scelto per questa tredicesima edizione un luogo lontano dalle intolleranze delle bande islamiste che occupano Timbuktu e dalla loro avversità verso la musica e per i monumenti dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità.

Una carovana di pace – “carovana di artisti per la pace e l’unità nazionale in Mali” viaggiando dalla Mauritania al Mali e nei campi profughi tuareg in Burkina Faso.

Un viaggio attraverso il Sahara con partenza 20 gennaio per arrivare il 7 febbraio a Ziniaré, nel Burkina Faso, per essere vicino alle persone che sono in esilio.

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Festival au Désert in Exilé

Dall’8 febbraio al 6 marzo 2013

http://www.festival-au-desert.org/

 

Un’Europa in ordine sparso

Per alcuni l’Europa è una matrigna uscita dalla più orrida delle favole più che una benevola madre. Una benevola madre di 60anni che ha espresso il meglio nei suoi primi anni di crescita mentre i restanti li ha spesi a guardarsi i personali ombelichi. Uno sport ben noto in Italia, rendendo l’Unione europea sempre più simile a un carrozzone non tanto differente a quegli enti italiani istituiti per non far soffrire di disoccupazione una moltitudine di “capaci” burocrati e politici dispersi in un labirinto di commissioni e sotto strutture.

Un’unione divisa nel Consiglio europeo e nella Commissione europea e per questo c’è chi ha meritato il Nobel per la pace con la motivazione per “i progressi nella pace e nella riconciliazione” e per aver garantito “la democrazia e i diritti umani” nel vecchio continente.

È certo che un’Europa annientata da una guerra ha saputo accogliere nelle utopie di Altiero Spinelli una via d’uscita dal confronto distruttivo tra nazioni per una cooperazione di crescita, ma ora che all’Europa è stato assegnato il Nobel per la Pace è comprensibile pensare ad un premio postumo assegnato ai padri fondatori dell’Unione per i primi decenni della sua crescita.

Ripercorrendo ora alcune scelte e alcuni tentennamenti come quelli sulle guerre Balcaniche o sull’immigrazione è difficile giustificare questo Nobel.

Un’umanità che affronta attraversate perigliose, in cerca di un approdo sicuro a tanta violenza e fame, viene poi respinta o rinchiusa in strutture più simili a carceri che a centri di accoglienza.

Un trattamento riservato verso il prossimo e tollerato nei paesi europei del Mediterraneo, ma ben diverse sono le possibilità che gli extracomunitari possono avere se riescono a raggiungere le terre più a nord. Assistenza, semplificazioni burocratiche per le richieste di asilo, ma è soprattutto raro un trattamento equiparato ad quello di un incallito delinquente.

L’istituzione nel 2004 della cosiddetta agenzia europea delle frontiere denominata Frontex è la dimostrazione della coesione dei 27 Stati nel fare “fronte” unico contro le deboli minacce e della divisone quando gli interessi si sovrappongono o si confliggono. Con Frontex l’Unione europea istituisce il suo braccio armato per tenere lontano i migranti in cerca di un luogo lontano dalle guerre e dalla fame. Mentre è difficile realizzare un esercito europeo per intervenire in missioni d’interposizione e protezione della popolazione civile, ne sono un esempio in ambito europeo i conflitti Balcani, è stato invece estremamente semplice dar vita in pochi anni ad una centrale di comando a Varsavia di un gruppo di polizia fornito di aerei, elicotteri, navi e attrezzatura elettronica per il monitoraggio delle frontiere terrestri e marittime, attuando in diversa forma la reclusione e il respingimento.

L’Unione europea è anche detentrice di una contraddizione sul suo rapportarsi con le minoranze culturali per le quali stanzia fondi per l’integrazione e la difesa delle tradizioni. Nel caso dei cosiddetti Zingari – Rom, Sinti e Camminanti (RSC) – finanzia un progetto per superare discriminazione e pregiudizio, dei quali ne sono oggetto, come la Campagna DOSTA! e garantire a tutti i bambini rom di portare a termine il ciclo della scuola primaria e magari alleviare le difficili condizioni in cui spesso vivono.

Il ruolo dell’Europa è debole e gli stati che ne fanno parte sembrano più propensi all’indebolimento del Vecchio Continente nel panorama internazionale che al rafforzamento dell’Istituzione ed è in questo ambito che leader politici come Daniel Cohn-Bendit e Guy Verhofstadt hanno prodotto un libro Per l’Europa! (Mondadori) per sollecitare un comune impegno dimostrando di aver meritato il Nobel e non di essere un altro premio alle buone intenzioni. Un altro e differente punto di vista sull’Europa è dato dal libro di Mario Monti e Sylvie Goulard Della democrazia in Europa (Rizzoli).

Alla fine di ottobre il Parlamento britannico con una votazione chiede al premier David Cameron di opporsi al previsto aumento del 5% del bilancio della UE e limitarsi al tasso d’inflazione del 2%.

Parlamentari Laburisti e Conservatori, europeisti convinti ed euroscettici, hanno inviato un messaggio al Governo, con la richiesta di ridurre le spese nel prossimo bilancio settennale dell’UE (2014-2020) che Cameron ha fatto suo nel vertice di novembre, aprendo un negoziato sull’aumento del bilancio, perché è insostenibile che l’Ue sbandieri il vessillo dell’austerità per i singoli paesi, ma non per Lei, raccogliendo il sostegno di una minoranza dei paesi per ricercare un compromesso.

Milioni di persone, nell’Europa sottoposta a drastici tagli dei servizi soprattutto sanitari, fanno la fila per essere curati dalle Ong come Medici Senza frontiere. Centinaia di farmaci di prima necessità per l’insulina o per il cancro sono introvabili, ma sembra non interessare a nessuno a Strasburgo come a Londra con la sua strana alleanza per un rigore nel bilancio comunitario. Uno dei tanti non comportamenti che rende l’Europa una vera matrigna malefica.

Tra il voler ridurre e aumentare il budget dell’Ue c’è chi è propenso a congelare le spese, cercando di salvare le sovvenzioni ai programmi agricoli e per sostenere lo sviluppo delle nazioni più povere.

L’utilizzo del veto incrociato su l’una o l’altra proposta ha creato una situazione d’impasse e il mancato accordo sul bilancio comunitario metterà a rischio alcuni progetti a lungo termine e tutto perché l’Italia e la Francia, in prima fila, non vogliono rinunciare ai contribuiti all’agricoltura, ma non sarebbe più utile sostenere l’agricoltura con servizi e promozione, più che confidare sulla carità del mandare al macero tonnellate di prodotto per sostenerne la quotazione.

La litigiosità per difendere gli interessi nazionali guiderà l’Europa ad un altro accordo al ribasso, mettendo in secondo piano l’interesse comunitario.

Ma è reale il problema della lievitazione delle spese della burocrazia nell’Unione Europea quanto il disuguale trattamento economico dei parlamentari. Differenti stipendi perché i parlamentari vengono retribuiti direttamente dagli stati di provenienza. Un dettaglio per molti che prima o poi dovrà essere affrontato e posto come un problema di forma che possa rendere un’Unione Europea più coesa e non frammentata dai singoli interessi. Scegliere di stipendiare i vari parlamentari direttamente dall’Unione Europea è un passo verso un’Unione economica più attiva vincolando i parlamentari all’interesse europeo comune per fronteggiare gli attacchi commerciali e finanziari come le furberie scorrettezze cinesi o russe che spesso si sovrappongono al mancato rispetto dei Diritti Umani in vari luoghi della Terra.

L’Unione europea ha fallito in Medio oriente dopo aver procurato un lavoro all’ex premier britannico Blair e non ha saputo cogliere i segni di un precipitare agli eventi come il fallimento dei Balcani.

La Ashton, il cosiddetto ministro degli esteri dell’Unione, continua a dare dimostrazione d’incapacità nel coniugare diplomazia e fermezza per una politica estera comunitaria anche quando gli interessi economici creano attriti tra i paesi europei rispetto alla difesa dei Diritti umani.

Un difesa dei Diritti che rende l’Europa indecisa, divisa in uno stato amletico di quale posizione sia meglio scegliere comunitariamente come nell’appoggiare la richiesta di Abu Mazen e dell’Autorità nazionale palestinese di riconoscere la Palestina come Stato osservatore all’Onu o fare muro con Israele e gli Stati uniti nel tenere fuori dal convitto umano un popolo in cerca di uno Stato.

È da anni che attivismo europeo si limita all’assegnazione annuale del Premio Sakarov per la difesa dei diritti umani. Quest’anno è stato assegnato agli iraniani Jafar Panahi, regista, e Nasrin Sotudeh, avvocato, deludendo per la seconda volta l’opposizione bielorussa per non aver scelto Ales Bialiatski che era nella lista dei “nobélisables”.

Un riconoscimento che poteva rendere ulteriormente difficili i rapporti diplomatici con una dittatura “perfetta” quale è quella instaurata dal presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko già sotto sanzioni.

Anche il gruppo russo Pussy Riot era papabile per il Nobel, ma sembrava rincorrere troppo la moda del momento. Più forte invece poteva essere il gesto di assegnarlo a Malala Yusafzai, la giovane pakistana gravemente ferita dai taleban per aver difeso, attraverso il suo blog, il diritto delle bambine di andare a scuola, ma il mondo arabo aveva già ottenuto dei riconoscimenti con la giornalista Tawakkul Karman, yemenita, e la candidatura di Malala era fuori tempo massimo.

Anche il piccolo Iqbal, venduto a quattro anni dal padre a un commerciante di tappeti per 12 dollari e ucciso per strada nel 1995 a soli 12 anni, si è battuto per i diritti dell’infanzia e contro il lavoro minorile in miniere e nelle fabbriche.

Ora la candidatura di Malala Yusafzai al Nobel è partita dalla Gran Bretagna con la raccolta di firme e sollecitando il primo ministro David Cameron e agli altri rappresentanti del governo britannico ad appoggiare la nomina.

Un’Europa che si preoccupa di non offendere la sensibilità delle altre religioni ha consigliato alla Slovacchia di limitarsi a riprodurre le effigi dei santi Cirillo e Metodio, ma senza contrassegni religiosi sull’Euro. Niente croci e aureole, ma sfugge alla commissione di “vigilanza” che in Slovenia sono stati stampati degli Euro con una rubiconda faccia per festeggiare il centenario della nascita di un alto ufficiale agli ordini del generale Tito, con tanto di stella rossa sulla bustina, che molti in Italia non apprezzano per il suo operato verso gli italiani in Istria e Dalmazia. Un operato che oggi magari potrebbe essere additato come crimine verso l’umanità, ma in quegli anni era una vedetta per i soprusi che i fascisti avevano perpetrato verso la popolazione civile serba, ma non si è pensato alla sensibilità dei nostri connazionali a Lubiana che si trovano a maneggiare come un monito verso la loro condizione di estranei.

L’Unione europea ha dato dell’incoerente, giustamente, all’Italia nell’ambito della salute, ma è tutta l’Europa ad essere incoerente e tre nobel lo mettono in evidenza con un appello al Comitato di Oslo perché non consegni il 10 dicembre i 900 milioni di euro all’Europa che ha deciso di devolvere i soldi del premio a progetti per l’infanzia vittima delle guerre. Un piccolo atto riparatorio per una riconoscenza opaca.