Da sempre ponte fra due mondi, la città
di İstanbul fu uno snodo centrale per il commercio delle Repubbliche
marinare, le quali proprio qui posero alcuni dei propri centri più
importanti. Menzione d’onore, naturalmente, per Galata, un possedimento
genovese destinato a far la storia di questa città.
Colonia genovese
Come tutte le altre Repubbliche, anche
Genova aveva fondato la propria base commerciale nell’allora
Costantinopoli, in un luogo separato dal resto della città e fino ad
allora chiamato Sykais Peran, alla lettera: Il campo di fichi dall’altra
parte. Sarà la Quarta crociata, però, a trasformare definitivamente in
genovese il quartiere, legando per sempre la sua storia al Bel Paese.
Durante quest’ultima, infatti, i crociati, capeggiati da Venezia, misero
a ferro e fuoco la città, fondando l’Impero latino di Costantinopoli e
creando la spaccatura che tutt’oggi esiste fra cattolici ed ortodossi. I
genovesi, però, aiutarono i bizantini a riprendere il controllo della
città e così, nel 1273, il quartiere di Galata venne donato Michele VIII
Paleologo ai liguri.
İstiklal Caddesi a Galata
La colonia crebbe e prospero,
diventando senza dubbio l’insediamento italiano più storico al di fuori
della Penisola e permettendo ai suoi abitanti incredibili ricchezze e
rotte privilegiate verso la Crimea, all’epoca centro nevralgico per il
commercio di pellicce. Nel 1453, essendo certi della capitolazione della
città, non fecero troppe resistenze alla conquista ottomana,
consegnando, anzi, di propria spontanea volontà le chiavi della celebre
torre di Galata.
Galata
Le fortune del quartiere non finirono,
però, con la conquista turca venendone agevolati in moltissimi aspetti.
L’Impero tenderà infatti a suddividere i popoli per fede, piuttosto che
per etnia, e ciò porterà le anime cattoliche della città a riunirsi
proprio in questa zona, trasformandola in una delle vie principali della
città per il commercio.
İstiklal Caddesi a Galata
La cosiddetta “Nazione latina”, composta
sopratutto da italiani e francesi, godrà di un ruolo privilegiato nel
traffico di mercanzie e nel ruolo di ambasciatori, situazione
ulteriormente favorita dalle “capitolazioni” ottomane. Tramite questi
trattati, i cittadini stranieri residenti nell’Impero venivano giudicati
secondo la propria giurisdizione, cosa che gli permise spesso di
ottenere condizioni agevolate rispetto ai locali. Con le guerre fra
Italia e Sublime Porta, il quartiere venne pian piano svuotato della sua
popolazione italica, che tuttavia risiede ancora oggi nel luogo fondato
dai propri antenati. Un pezzo d’Italia in Turchia. (Non a caso il Galatasaray è tutt’oggi il club calcistico più “europeo” di Turchia)
Piuttosto che concentrarci su un singolo stato, abbiamo pensato che un’introduzione ai luoghi e le culture del Caucaso fosse più interessante. Motivo per cui, dopo avervi mostrato l’Azerbaijan, passiamo all’Armenia.
Figli di Hayk
Gli armeni fanno risalire le proprie
origini ad Hayk, un leggendario guerriero della regione che uccise il
Nimrod, leggendario re mesopotamico. Oltre che a mostrare fin da subito i
nemici naturali di questo popolo, il mito è ancor più interessante se
si guardano alle origini del patriarca armeno. Egli era infatti
discendente di Noè, il quale si fermò con la sua Arca proprio sul monte
Ararat, luogo carico di sentimento e significato per questo popolo.
Erevan
Alle origini mitiche, però, a lungo non
seguì un impero e solo dopo grandi conflitti con gli ittiti nacque il
primo regno locale. Quest’ultimo, però, vivrà assai a lungo un periodo
di disordini politici, passando per le mani di: romani, parti,
bizantini, sassanidi, arabi, mongoli e persiani. Nel 301 divenne il
primo stato cristiano della Storia e dal 884 al 1045, però, il regno
armeno godette di un’incredibile espansione sotto la dinastia dei
Bagratidi, riuscendo in breve tempo a svilupparsi in tutta la regione.
Ani e turchi
Quest’ultimi costruirono la roccaforte di
Ani, immensa città medievale, in grado di contenere fino a 100’000
abitanti. La nuova capitale era tanto ricca da essere paragonata a
Baghdad, Roma o Costantinopoli e venne, anche per questo, soprannominata
la “città dalle 1001 campane”. Le sorti di questa antica metropoli, in
realtà, sono una perfetta metafora di ciò che accadde al resto del
paese. Dopo lunghe guerre, infatti, la città cadde sotto il controllo
dell’Impero ottomano nel 1579, avviando da allora un periodo di costante
declino.
Ricostruzione di Ani
Nel 1878, la regione di Kars cadde sotto
il controllo dell’Impero russo, il quale ne sponsorizzò molto la
rinascita anche in vista di una sempre più forte insofferenza armena
verso i loro precedenti signori. Gli Ottomani avevano infatti donato
loro grande dignità ad Istanbul istituendo il Patriarcato armeno, nel
resto dell’Anatolia, però, la situazione non era sempre la stessa. Ciò
farà sì che durante la Prima guerra mondiale, l’Impero ottomano attuerà
uccisioni e deportazioni di massa, durante il quale moriranno dai
200’000 ai 1’800’000 armeni. Tali atti prenderanno poi il nome di
Genocidio Armeno, uno dei momenti più bui di tutta la storia turca e
caucasica. Con la sconfitta ottomana, vengono restituiti ai discendenti
di Hayk gli antichi domini dell’Armenia storica,che vengono però, in
buona parte, rapidamente riconquistati dai turchi, i quali proveranno
anche ad eliminare definitivamente la fortezza di Ani, riuscendovi solo
in parte.
Sfortunatamente per loro, gli Armeni non rivedranno il proprio stato autonomo fino al crollo dell’URSS, prima del quale saranno posti sotto la giurisdizione della Repubblica Transcaucasica. Da ciò nascerà poi il conflitto del Nagorno Karabakh con l’Azerbaijan.
Le società
“occidentali” sono indirizzate all’aiuto in “sede”, trasformando la solidarietà
in cooperazione e quindi in una occasione di stipulare contratti più con le
comunità che con i governi centrali che hanno dato dimostrazione d’inefficienza
e malafede nel gestire i cospicui fondi che organizzazioni internazionali e
singole nazioni hanno destinato allo sviluppo di certe aree fondamentalmente
ricche di risorse naturali.
Governi
corrotti impegnati ad impoverire le varie popolazioni per arricchire i propri
conti e che l’economista Dambisa Moyo mette sotto accusa, al pari degli stati
“donatori”, nel libro La carità che uccide (2011), sottolineando Come
gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo. Una spietata
analisi per sollecitare le nazioni a non distribuire soldi a pioggia, ma creare
delle partnership modello cinese.
In questo panorama di buone
azioni si inserisce la Cina che, avulsa dai sensi di colpa per decenni di
colonialismo, è ormai stabilmente presente in gran parte degli stati africani,
senza far differenza tra governi autoritari e dittatoriali, con la
realizzazione di infrastrutture ed industrie, raramente ecosostenibili, che con
un piano di investimenti da oltre 60 miliardi di dollari pongono una seria
ipoteca sul futuro sviluppo indipendente dell’Africa.
Un futuro dove la popolazione
si sente consigliata ad imparare il mandarino ed a cedere le loro terre per
coltivazioni gradite ai cinesi, ma senza i basilari diritti per i lavoratori.
Nel periodo
coloniale anglofrancese i nativi dovevano parlare in francese o in inglese e
coltivare cotone, caffè, tabacco, tè e così via, per ottenere la possibilità
d’istruirsi, vedere le prime ferrovie e fare i domestici nei comodi edifici
coloniali.
La Cina si
sta sostituendo all’Occidente nello sfruttamento africano e la differenza sta
nell’aver cancellato il debito ad una trentina di paesi, concedendo prestiti a
lungo termine a tassi bassi, ma in entrambi i colonialismi non si fanno
scrupoli nel procurarsi le materie prime a discapito dei diritti umani, della
rappresentanza sindacale e della difesa dell’ambiente.
Come un
pusher, la Cina, prima ti cancella il debito per poi prospettare altre forme di
collaborazione, allettando i Governi con il fantasmagorico progetto della
“Nuova via della seta” e fornendo infrastrutture in cambio di ricchezze
naturali, aprendo nuovi canali di credito pronti a lievitare e con un futuro
senza possibili di riduzioni.
Una politica
quella cinese, in questo nuovo sfruttamento dell’Africa, che ha aperto la via
ai paesi arabi, all’India e alla Turchia, nella cosiddetta strategia del soft
power, accattivandosi l’amicizia e magari la fiducia, attraverso la vendita di
tecnologie e formazione, illudendo i vari governi nell’astenersi ad
intromettersi nelle politiche dei singoli paesi.
Le trame cinesi si allungano
sul continente con l’adozione di 13 paesi della nuova valuta ‘ancorata’ allo
yuan cinese, decretando la fine del predominio francese con il franco CFA
(attuale acronimo di Comunità Finanziaria Africana), che porterà 350 milioni di
persone ad usarla nel 2020 e farà tanto felice Luigi Di Maio e Alessandro Di
Battista, allontanando il continente dall’Europa.
L’Occidente
continua a perdere e varie strutture private, fondazioni e Ong, sembrano aver
ispirato un nuovo modello di cooperazione allo sviluppo come strumento di
politica estera, magari con la Ue come capofila, con Exco (The International
Cooperation Expo) http://www.exco2019.com/
nel pensare e far conoscere “piccoli” prodotti che aiutano la vita in aree
sfavorite, rivolgendosi alle aziende ed alle istituzioni impegnate nella
ricerca scientifica, nell’innovazione tecnologica e nella formazione.
L’Italia, nel
suo piccolo, è il primo Paese europeo per investimenti, con complessivi 4
miliardi di dollari nel solo 2016 per un totale di 20 progetti, posizionandosi
al quarto posto dopo Cina, Emirati arabi uniti e Marocco.
La
collaborazione tra le diverse organizzazioni nel confrontarsi e mettere a
frutto le singole esperienze non è stata solo un’occasione di business, ma fa
capire che non è necessario varare grandi progetti per stimolare l’economia di
luoghi remoti. Coinvolgere l’infanzia nel rimboschimento o la costruzione di
una scuola è un passo per l’emancipazione delle comunità a costi irrisori.
Far conoscere
i lampioni mobili http://www.eland.org/
ideati da Matteo Ferroni per illuminare la vita delle comunità rurali del Mali,
paese attraversato da un conflitto, l’energia solare per i pannelli al liceo
Lwanga (Ciad) o il progetto Syria Solar, organizzato dall’Union of Medical Care
and Relief Organizations (UOSSM) https://www.uossm.org/who_we_are, per svincolare gli
ospedali siriani da una rete elettrica fatiscente e dall’utilizzo del diesel,
le cucine solari promosse da Magis https://magis.gesuiti.it/progetto/cucine-solari/,
la campagna “Più luce alla vita dei rifugiati” https://www.ikea.com/ms/it_CH/good-cause-campaign/brighter-lives-for-refugees/index.html
di Ikea Foundation e UNHCR per fornire illuminazione sostenibile alle famiglie
nei campi profughi, come anche le tende di ultima generazione http://www.abeerseikaly.com/weavinghome.php,
sono solo alcuni esempi per non lasciare il campo ai mega finanziamenti come
quello per la nave estrazione diamanti in Namibia o quello per il commercio del
gas in Mozambico che non aiutano la popolazione, come dimostra la ricchezza
petrolifera in Nigeria di esclusiva pertinenza di un ristretto gruppo
politico-affarista.
Progetti
ambiziosi come quello legato all’impianto idroelettrico della diga Gibe, sul
fiume Omo, che si è rivelato fallimentare e che doveva anche favorire la
coltivazione intensiva di canna da zucchero, ma che ha per l’ennesima volta
sfavorito le popolazioni indigene, obbligate ad abbandonare le loro terre e
costrette alla fame.
In questo
panorama di esclusione delle popolazioni all’accesso alle ricchezze si
inserisce l’elezione del vice ministro dell’agricoltura e degli affari rurali
cinese alla carica di Direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni
Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao) http://www.fao.org/news/story/it/item/1199205/icode/,
che rafforza a tutti i livelli la presenza cinese, non solo in Africa, per
indirizzare le economie dei paesi in cerca di uno sviluppo autoctono.
L’intervento
della Fao, sino ad ora, si è dimostrato timido e con grandi studi di settore,
ma forse il nuovo direttore sarà attento alle necessità delle comunità, facendo
tesoro dell’esperienza delle piccole realtà nella realizzazione di orti
comunitari e banche dei cereali, svincolando le comunità dai capricci dei
potenti e magari sostenere la formazione di ragazzi e ragazze alla coltivazione
del Pleurotus Ostreatus, un fungo che cresce in Africa occidentale, o nei
progetti di piscicoltura, per renderli economicamente indipendente.
Un direttore
che ha annunciato di far lavorare l’elefantiaca struttura, con la speranza che
scelga di sostenere quelle iniziative che non richiedano impegni
finanziari milionari e di non essere il cavallo di Troia della finanza
internazionale.
Uno sviluppo
che l’Occidente, ancorato al suo senso di colpa, continua a contribuire con
l’elargizione di soldi sino a quando trasformerà le sue “buone
azioni” in una fruttuosa cooperazione per entrambe le parti.
Partnership
difficilmente realizzabili in aree di conflitto come nella R.D. del Congo
sconvolto da scontri etnici, come in Etiopia e nella Repubblica
Centrafricana, come gli scontri separatisti anglo-francofoni in Camerun e in
Sudan con i militari che non mostrano di dare una svolta democratica alla
destituzione di Al Bashir e in Malì e in Burkina Faso dove i jadisti
fanno vivere la popolazione nella paura, come anche in Nigeria con i saccheggi
e i rapimenti di Boko Haram e la presenza di varie missioni militari nei
diversi stati riescono appena a contenere la violenza e sono ben lontani a
stabilizzare la situazione.
Conflitti
che alimentano le fughe e l’Occidente non potrà continuare ad erigere muri,
rinviando una scelta condivisa per attrezzarsi all’accoglienza e renderla una
ricchezza.
L’ha detto recentemente anche Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea:“Nel protezionismo i mercati sembrano vedere molto di più che un danno all’economia. Potrebbero vederci un fenomeno molto più ampio che mette in dubbio l’intero ordine multilaterale raggiunto dopo la seconda guerra mondiale. Le incertezze sui dazi sono aumentate“. Il rischio, poi, è che la guerra dei dazi possa degenerare in guerra delle valute.
Le
altalenanti minacce americane “dazi si-dazi no”, le ritorsioni, le
sospensioni condizionate hanno creato l’instabilità che l’intero sistema
economico mondiale sta pagando. Finora non ci ha guadagnato nessuno,
non gli Usa, non la Cina e tanto meno l’Europa.
L’Europa e, di conseguenza, anche l’Italia ci rimettono più di tutti.
Direttamente,
quando i dazi sono imposti sui settori agroalimentari e dell’auto.
Giustamente la Coldiretti teme che la “black list” americana colpisca
pesantemente i prodotti agroalimentari del made in Italy che sono
esportati fuori dai confini comunitari per ben 4,2 miliardi di euro.
Dopo
i settori dell’acciaio e dell’alluminio, il bersaglio numero uno dei
dazi americani è quello dell’auto, in particolare le imprese
automobilistiche tedesche. La Germania, com’è noto, esporta negli Usa
auto per 42 miliardi di dollari. Il che significa un duro colpo anche
per le imprese italiane della componentistica i cui prodotti sono
esportati in Germania. La Germania, si ricordi, è il primo partner
commerciale mondiale dell’Italia.
Poi
indirettamente, poiché i dazi imposti alla Cina o al Messico colpiscono
soprattutto prodotti altamente tecnologici, di cui molte parti
provengono dall’Europa.
Inoltre,
un’importante area di scontro è quella dell’aviazione civile, tra la
Boeing americana e l’Airbus europea. Washington si lamenta dei sussidi
erogati dall’Unione europea, dimenticandosi che tutti i suoi settori
tecnologicamente importanti, militari e civili, godono da sempre di
sostanziosi sostegni statali. Trump ha avuto l’ardire di portare la
controversia persino davanti all’Organizzazione del Commercio Mondiale,
la stessa istituzione che quotidianamente boicotta.
I
dazi nei confronti della Cina, inizialmente del 10%, poi aumentati al
20%, su 200 miliardi di dollari di prodotti cinesi, potrebbero vedere
una pericolosa escalation, e arrivare al 25% su altri 325 miliardi.
Pechino ha annunciato ritorsioni su 60 miliardi di dollari di prodotti
americani. Per esempio, sulle importazioni di soia, che finora coprivano
il 60% della produzione americana.
Una
delle aree di scontro più pericoloso verte intorno alle tecnologie
informatiche, considerate di rischio per la sicurezza nazionale
americana. Di conseguenza Trump si è mosso per il blocco verso l’azienda
cinese Huawei e altre imprese simili. Come risposta, Pechino ha fatto
subito sapere di voler sfruttare la sua posizione di principale
esportatore mondiale di materiali delle cosiddette “terre rare”
utilizzati per le tecnologie avanzate.
Si tenga inoltre presente che la Cina possiede obbligazioni del Tesoro americano per più di mille miliardi di dollari.
Anche
la minaccia di Trump di applicare il 5% di dazi su tutti i beni
importati dal Messico, per poi alzarli fino al 25%, andrebbe a colpire,
tra l’altro, i settori delle automobili, dei mezzi di locomozione e dei
televisori, dove la componentistica europea è molto rilevante.
Il
Messico è il terzo partner commerciale degli Usa con circa 265 miliardi
di dollari di esportazioni di merci. Negli anni passati molti
produttori americani vi hanno trasferito le loro fabbriche per sfruttare
il basso costo della mano d’opera. Gli effetti dei dazi non
penalizzeranno solo gli esportatori messicani ma anche gli importatori
americani, che, poi, aumenteranno ovviamente i prezzi per i consumatori
finali.
Poiché
la questione è il blocco dei flussi immigratori, la guerra dei dazi
diventa immediatamente una guerra sociale con conseguente
destabilizzazione politica. Trump, però, non può ignorare che la
questione immigrazione ha ragioni economiche e sociali profonde e
dimensioni epocali.
Recentemente
gli Usa hanno tolto anche l’India e la Turchia dalla lista dei partner
commerciali privilegiati, costringendo persino Nuova Delhi, da sempre
amica di Washington, a reagire con delle contromisure commerciali.
In
America, comunque, cresce l’opposizione contro la politica dei dazi e
c’è la campagna “Tariffs hurt the heartland”, sostenuta da 150
organizzazioni di vari settori produttivi, che lamenta come i dazi
colpiscano il cuore del paese e rischino di generare la perdita di 2
milioni di posti di lavoro.
Non
sfugge che l’intento di Trump sia di colpire l’Unione europea. A Londra
ha esplicitamente invitato la Gran Bretagna a uscire dall’Ue e le ha
offerto accordi commerciali superprivilegiati. È un atteggiamento che va ben oltre l’attitudine di Trump!
È
chiaro, tuttavia, che sono in gioco le strategie della grande finanza e
i corposi interessi geopolitici di quel sistema che si chiama, fin dai
tempi del presidente Eisenhower, “il complesso militare industriale
americano”.
Pur mantenendo strette relazioni con gli Usa, il nostro alleato storico, l’Ue dovrebbe sfidare certi disegni dell’unilateralismo di oltre Atlantico. Potrebbe, invece, diventare il perno principale per la creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su un paniere delle monete più importanti e non soltanto sul dollaro. Così potrebbe svolgere un’importante funzione di equilibrio geoeconomico e geopolitico tra gli attuali grandi attori internazionali.
Alla fine non hanno retto neppure Fatih e Üsküdar. Anche quelle
moschee a cielo aperto che sono le strade dei due popolari quartieri che dalle
sponde europea e asiatica amoreggiano sul Bosforo hanno votato a maggioranza
per l’uomo nuovo dell’immensa metropoli turca. 49.51% a Fatih, 54.26% a Üsküdar
contro il 49.37% e il 44.80% presi da Yıldırım. L’Akp regge ampiamente solo in
qualche area (Esenler 61.03%, Arnavutköy 60.22%, Bagcilar 56.62%). Invece dove
pulsa il cuore giovanile, il turismo e le rivendite commerciali (Beşiktaş,
Kadiköy, Bakirköy) le percentuali sono scudisciate taglienti per il partito di
governo, e İmamoğlu trionfa con quote stratosferiche: 83.90%, 82.36% 79.33%.
Brividi sulla schiena del navigato Erdoğan che dovrà – e lo sa – rapportarsi al
nuovo orizzonte. Visto che altre elezioni
non sono previste sino al 2023, per starsene in sella tranquillo sino a
quella scadenza da lui tanto ambìta per via del centenario della Turchia
moderna che lo condurrà nella grande Storia al pari di Atatürk e finanche di
Solimano, dovrebbe ridimensionare le smanie di potere e strapotere. Abbassare i
toni polemici, il clima da guerra civile, le vendette e le divisioni
polarizzanti. Ci riuscirà? In molti casi gli avversari, che diventano nemici,
creano essi ulteriori percorsi di scontro, ma il Sultano direttamente o meno è protagonista di questo
processo.
Per ora ci sono stati i complimenti al nuovo sindaco e i
pronunciamenti di collaborazione di quest’ultimo che da semisconosciuto
s’appresta a lanciare la leadership nazionale nel partito repubblicano.
Ovviamente coi dovuti tempi. Alcuni politologi hanno avvicinato i due proprio
riguardo allo sviluppo di carriera. L’elezione di İmamoğlu somiglia per certi
versi a quella del primo Erdoğan che si prendeva una città dinamica dove la
politica degli anni Novanta non voleva lasciar spazio all’opposizione, in quel
caso islamista. Il desiderio di novità può smuovere quei turchi meno ideologizzati,
che guardano al giorno per giorno e al portafogli da riempire col lavoro e
svuotare con buone prospettive presenti e future. Quelle per un buon tratto
garantite dall’Akp e da almeno un biennio messe in discussione anche dalle
fluttuazioni politiche spregiudicate e personali dell’uomo che vuole essere
tutto. In queste ore, grazie alle buone maniere fra vincitori e sconfitti, i
mercati finanziari hanno offerto un po’ di tregua alla Banca nazionale e alla
malandata lira turca che ultimamente ha perduto l’8% sul dollaro statunitense. Un’incognita
addirittura maggiore di quella dei rapporti cordiali col maggior partito
d’opposizione riguarda ipotetiche scissioni interne all’Akp.
Dividere le forze sarebbe suicida, ma ciò che è accaduto
in questi anni a personaggi di primissimo piano: l’ex premier e presidente Gül,
l’ex ministro degli esteri Davotoğlu, il tecnocrate Babacan, tutti messi da
parte dalla strapotere erdoğaniano, da oggi non dovrebbe essere più possibile.
Per il suo futuro di governo, di partito e anche della sua funzione pubblica
Erdoğan dovrebbe ridimensionare il super Io che lo caratterizza da sempre. Però
una questione vitale è: quali personaggi di spessore può mostrare un partito
nell’ultimo quinquennio letteralmente fagocitato dal personalismo del capo? Pur
dotato di enorme fiuto tattico il Sultano s’è guadagnato l’epiteto proprio per
aver promosso solo ‘yes men’ e fidatissimi politici di clan e in qualche caso
parenti acquisiti. Ora – il gossip che neppure il Mıt riesce a tacitare – racconta
che Berat Albayrak piazzato alle Finanze per presunte competenze e per la
fidelizzazione con cui anni addietro avrebbe condotto operazioni finanziare
favorevoli ai tesoretti speculativi di quello che diventava suo suocero, sembra
essere in rotta col potente papà di sua moglie Esra. Motivo della contesa l’infedeltà
coniugale del genero, che un leader e uomo di mondo “può capire”, ma un padre
della patria islamico deve censurare. Per ora silenziato è da alcuni giorni il chiacchiericcio
del web che commentava le scappatelle erotiche del ministro con una turca
tutt’altro che casa e moschea: l’avvenente modella Özge Ulusoy.
Con un contorno neppure poetico come quello offerto dal celebre triangolo amoroso Kemal-Füsun-Sibel dello splendido “Museo dell’innocenza” di Orhan Pamuk. Ecco, forse nella Turchia che si prospetta per i prossimi mesi dove, per attutire il colpo della perdita di Istanbul il presidente dovrebbe attenuare la polarizzazione, proprio le menti libere degli scrittori finiti nella macina della repressione contro tutto e tutti potranno ricevere il conforto della tolleranza. Forse. I giornalisti molto meno, poiché l’orgoglio del cuore laico di Istanbul difficilmente potrà creare un’enclave nell’attuale ordinamento giuridico che nei tre anni della repressione anti-golpe ha assimilato qualsiasi pensiero diverso da quello di Erdoğan ad attentato alla sicurezza nazionale. Con conseguenti processi e condanne. L’abbraccio festoso fra İmamoğlu e la folla dei suoi elettori è risultato assai scenografico, come il suo ringraziamento: “Voi avete protetto la reputazione della democrazia nel nostro Paese”. Bisognerà vedere cosa potranno fare per la democrazia a livello nazionale i partiti d’opposizione grandi e piccoli. Qualche commentatore turco s’aspetta un rimpasto governativo, soprattutto per tenere botta su politica economica ed estera e non allargare al quadro istituzionale il ko tutt’altro che marginale di ieri.
Magazine di Spunti & Riflessioni sugli accadimenti culturali e sociali per confrontarsi e crescere con gli Altri con delle rubriche dedicate a: Roma che vivi e desideri – Oltre Roma che va verso il Mediterranea e Oltre l’Occidente, nel Mondo LatinoAmericano e informando sui Percorsi Italiani – Altri di Noi – Multimedialità tra Fotografia e Video, Mostre & Musei, Musica e Cinema, Danza e Teatro Scaffale – Bei Gesti