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Giro d’Italia, il buco nero dell’informazione

di Enrico Campofreda –

Tutti a parlar di buche, che in una Roma addomesticata dai peggiori politicanti millantatori di cambiamento e propositori di affarismo, ha visto il chiacchierato Froome primeggiare; i corridori frenare e trasformarsi in cicloturisti per non rischiare, uno squarcio via l’altro, l’osso del collo; il pubblico far finta di godersi uno spettacolo che non è stato tale perché una tappa ciclistica non è la scampagnata che ha in mente l’attuale sindaco dell’ignavia seduto in Campidoglio. Dicono, a ragione, gli organizzatori che il fondo degli 11 spettacolari chilometri, su cui la carovana a due ruota avrebbe dovuto girare dieci volte, doveva essere asfaltato da mesi. Virginia Raggi e il suo personalissimo staff hanno applicato il programma che i romani conoscono ormai da un biennio: il nulla condito, nel caso delle strade, da qualche sputo di cemento e pezzatura di catrame seminati qua e là. Oggi i lettori trovano tanti noti colleghi di testate mainstream, sportive e non, a parlar giustamente delle buche delle vie romane che hanno rallentato i pedalatori professionisti e dei buchi nei piani di politici inadeguati non solo per una buona amministrazione, ma semplicemente per un’ordinaria lista delle urgenze che sui sette colli sono diventate alture insormontabili. Però i media e i loro operatori in questo Giro che doppia il centenario, ed è stato portato nelle prime battute a Gerusalemme, hanno evidenziato il proprio stratosferico buco al compito che gli compete. Un buco nero nel quale s’è persa o viene omessa la finalità primaria del ruolo: informare raccontando quel che accade.

Così nel rievocare le gloriose storie delle due ruote in rosa, visto che si partiva dalla Città Santa non c’è stata alcuna contestualizzazione su chi (Israele) con l’occupazione militare nel 1967 ha violato tale santità, anche della propria religione. Qualcuno obietterà che non c’entra nulla, invece c’entra eccome. Dipende dal senso che si vuol dare alla cronaca. Nell’inquadrare soldati coi mitra spianati s’è detto delle ragioni di sicurezza, tralasciando l’insicurezza e la morte che negli stessi giorni i commilitoni di quei militari spargevano in un altro angolo della Palestina lacerata e umiliata con la creazione dello Stato di Israele. A Gaza morivano più di cento cittadini che manifestavano ricordando il diritto al ritorno sulle proprie terre, mentre i finanziatori del Giro sbarcato nella Palestina storica più i suiveurs che lo stavano narrando, ricordavano il giusto Bartali, salvatore di ebrei perseguitati, ma non spendevano una parola per rammentare ciò che accadeva attorno alle strade riempite dal ticchettìo armonico di cambi e catene. Nel mondo disarmonico di un’informazione non dedita ai fatti, ma schiacciata sugli interessi di editori più politici che imprenditori e di direttori e cronisti asserviti alle due tipologie citate, non c’è spazio neppure per brandelli di racconto per offrire un servizio al lettore, figurarsi per un percorso di verità. Il settorialismo sotterra la cronaca, così chi doveva descrivere le tappe nei Territori occupati parlava esclusivamente di scatti e tempi, senza soffermarsi neppure un attimo sui luoghi e il contorno.

Del resto se già in partenza mancava, e non pensiamo involontariamente, la riflessione del motivo per cui il Giro dovesse sostenere il piano d’Israele di condire con un simile evento internazionale  la celebrazione del 70° anniversario della sua nascita come entità statale, non ci meravigliamo, ma lo denunciamo, che tanti colleghi abbiano taciuto la presenza lungo il percorso della Corsa Rosa rientrata nella penisola, di dimostranti pro palestinesi. Rumorosi con slogan, visibili con bandiere coloratissime, seppure compressi da manipoli di poliziotti in borghese e tenuti lontani dai traguardi dove si concentrano telecamere e obiettivi. Spiace che troppe camere e flash e taccuini si siano disinteressati d’una presenza, ovviamente politica, che parlava di Palestina e dei diritti calpestati di questo popolo. La contestazione della linea criminale spacciata da Israele come autodifesa diventa una conseguenza dei discorsi di tali attivisti. E costoro, possono piacere o no, erano presenti a bordo strada. In gruppi talvolta sparuti, tal altra più numerosi, dicevano la loro, ma sono stati ignorati da un’informazione che non vuole informare e punta a presentare una realtà di comodo, secondo princìpi ben lontani dalla deontologia. Nel termine, rivendicato da chi svolge questo mestiere, il discorso è unito al dovere cui si è tenuti a rispondere. Per coscienza, per morale o semplicemente per coerenza col ruolo prescelto. Un ruolo principalmente di servizio, ancor più se pubblico. Poi, nella neutralità assoluta che non esiste, ogni operatore dell’informazione ha opinioni proprie e magari può esprimerle a commento. Quel che diventa insostenibile è celare la realtà. Tutto ciò nel giornalismo diventato propaganda è un comportamento purtroppo diffuso. E’ quel cancro che trascina in un abissale buco nero non solo l’informazione, ma la stessa esistenza professionale.

Pubblicato lunedì 28 maggio 2018
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Kabul, l’esasperazione della morte

Trappola mortale stamane nella Kabul diventata obiettivo dell’Isis afghano. Un kamikaze s’è fatto esplodere presso l’edificio che ospita la locale Intelligence (Nds) posto nell’area attigua a Shah Rarak Road, una via parallela dell’enorme stradone che conduce all’aeroporto cittadino, peraltro controllatissimi. Si trattava di un’esca. Sul luogo dell’attentato accorrevano, come di consueto, autombulanze e personale sanitario più un manipolo di giornalisti. E naturalmente le forze dell’ordine. Dopo una ventina di minuti nello stesso luogo un secondo kamikaze, mescolato fra le presenze che s’aggiravano fra i rottami, azionava il detonatore della cintura esplosiva nascosta sotto gli abiti provocando una strage peggiore. Fra le vittime, assieme ai passanti colpiti nella prima deflagrazione, si contano soccorritori e nove giornalisti. Un comunicato del ministero della Salute parla di venticinque cadaveri e una cinquantina di feriti, alcuni dei quali in condizioni disperate. I nostri contatti in città riferiscono una situazione scioccante, perché oltre a seminare sangue e lutti, infonde un livello d’insicurezza assoluto, che indurrebbe a restare rinchiusi in casa in una situazione in cui muoversi è indispensabile per la stessa sopravvivenza ordinaria.

L’esasperazione della morte, indirizzata solo parzialmente alla cieca, quando colpisce gli sciagurati che si trovano a transitare nel luogo e nel momento dell’attentato, segue invece un piano che ha una strategia ben congegnata. Seppure le regìe possono essere varie. La prima è attribuibile ai gruppi talebani dissidenti che usano il marchio dello Stato Islamico del Khorasan, che hanno rivendicato la strage. Costoro si rivolgono principalmente contro il governo Ghani e i suoi apparati della sicurezza, e indirettamente contro i talib della Shura di Quetta, e i suoi momentanei alleati del network di Haqqani, sempre passibili quest’ultimi di trasformismi itineranti. I motivi sono: la supremazia sul territorio, con tutti gli interessi economici di contorno, e la palma della resistenza antioccidentale. Nella strategia stragista incidono pure le aperture fra governo afghano, Cia e i talebani disponibili a trattative per entrare nel governo. Un quadro, in ogni caso, instabile e cangiante da mese a mese. Sempre attiva l’altra regìa, attuata da Servizi pakistani, che usano la destabilizzazione afghana, sotto ogni forma, provocata oggi dalla corsa agli attentati, in altre fasi dalla guerra civile, per ottenere una frammentazione del territorio in zone controllate da soggetti diversi (come di fatto sta accadendo negli ultimi anni) per poterne trarre vantaggi geopolitici nel confronto-scontro su quel tratto di Medioriente con Iran e Arabia Saudita.

Non potendo essere costantemente in quei luoghi, come altri colleghi ci serviamo del lavoro coraggiosissimo di corrispondenti locali, raccolti in una rete di collaborazione con testate internazionali come Reuters e Afp. Oggi piangiamo questi cronisti dal fronte, si chiamavano Ghazi Rasooli, Ali Rajabi oppure Shah Marai. Come dicevamo accorsi sul luogo dell’attentato ed esplosi con la seconda bomba. A differenza di sfortunati passanti, loro non erano lì per caso, si trovavano nel luogo dove il reporter va per raccontare eventi spesso tragici dalle logiche perverse. Come perversa sa essere tanta geopolitica. Questi giornalisti non erano propagandisti, raccontavano ciò che vedevano, in molti casi lo facevano da free lance, perché anche grandi agenzie d’informazione come quelle citate, non danno garanzie (non tanto d’una sicurezza fisica che in quelle situazioni non può esistere) ma sulla stessa retribuzione del prodotto di tanto lavoro e rischio, in un mestiere che più gli editori che la tecnologia hanno deregolarizzato. Grazie al certosino impegno di questi reporter il mondo che impazza attorno a progetti di morte viene narrato, filmato, fissato in istantanee. A rischio della vita. A questi comunicatori la terra è lieve già quando ne divulgano i fatti, poiché se le parole e le immagini possono essere pietre, quelle dell’informazione libera da imposizioni editoriali e di regime hanno la speciale virtù dell’impegno finalizzato a una causa.

Pubblicato 30 aprile 2018
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dal blog di Enrico Campofreda

Syria Crisis- Giochi pericolosi

Talune forze, negli Stati Uniti, proprio non accettano le sconfitte e come dei bambini, in preda al peggiore dei capricci, iniziano a scalciare per ripicca ora a destra ora a sinistra. Se non fosse un film già visto ci si dovrebbe veramente preoccupare e vivere queste ultime ore che mancano all’ecatombe planetaria come se fossero gli ultimi istanti della nostra esistenza e quindi facendo tutto ciò che non ci è stato possibile fare fin’ora, ma fortunatamente non siamo ancora all’Armageddon.

Infatti, esattamente un anno fa, Trump, come oggi, era fortemente assediato per il cosiddetto Russiagate e per smorzare i toni in madre patria, verso la sua presunta russofilia, non trovò niente di meglio da fare che attaccare, nella provincia di Homs, alle 03:45 (ora di Damasco) del 07 aprile 2017, con 59 missili “Tomahawks”, la base aerea di Shayrat da cui sarebbe partito, il 04 aprile dello stesso anno, il presunto raid chimico del regime di Assad verso gli inermi civili di Khan Shaykhun. Raid che, è bene ricordarlo, allora come oggi, sarebbe avvenuto in una fase in cui l’Esercito Arabo Siriano era nettamente in vantaggio, perciò, cui prodest? Ai siriani lealisti di sicuro no!

Comunque sia, a fine operazione, gli americani avevano distrutto solo 6 vecchi Mig-23 e causato poco più di dieci vittime. Un attacco, insomma, a bassissima intensità, infatti solo 23 missili, dei 59 “Tomahawks” lanciati, raggiunsero il bersaglio, ma ciò fu sufficiente al Tycoon per avere un po’ d’ossigeno.

Nell’immediato i rapporti tra le due superpotenze sembrarono essere peggiorati di molto tuttavia – dopo che in un sol colpo il Presidente Putin è riuscito a costruire un asse tra la Turchia di Erdogan e l’Iran, chiudendo così positivamente anche la partita in Siria – gli Stati Uniti avevano annunciato, in data 07 aprile 2018, che si sarebbero ritirati dalla Siria a meno che l’Arabia Saudita  (Paese che mal vede più di chiunque altro il proseguo del regime di Assad in quell’area) non si fosse sobbarcata totalmente il costo del mantenimento delle truppe americane in Medio Oriente. In altri termini Washington sembrava aver riconosciuto ed accettato, la vittoria di Mosca e dei suoi alleati, in quella porzione di mondo, ma mentre accadeva ciò altre tegole stavano per cadere sulla testa di Trump:

  • In primis con il cosiddetto “datagate” che vede coinvolti: Steve Bannon, ex Capo stratega della Casa Bianca nonché ex VicePresidente della società Cambridge Analytica; la Cambridge Analytica, società che combina il data mining, l’intermediazione dei dati e l’analisi dei dati con la comunicazione strategica per la campagna elettorale; e Facebook, uno dei maggiori social network mondiali, in quanto responsabili dell’aver influenzato e falsato il risultato delle ultime elezioni presidenziali americane;
  • Secondariamente con il “Sexgate” che vede coinvolti, in un giro di relazioni di fuoco: la pornostar Stormy Daniels; l’ex modella di Playboy Karen McDougal; e l’avvocato Michael Cohen. Quest’ultimo avrebbe provveduto a comprare il silenzio delle due signore pocanzi nominate per conto di Donald Trump.

Ora, questi due eventi, in un America così puritana e russofobica, alle soglie delle elezioni di medio termine, potrebbero seriamente mettere nei guai il Presidente Trump ed allora cosa mai potrebbe fare il Tycoon per distrarre l’opinione pubblica, assecondare le lobby militari ed i nemici interni al Partito Repubblicano, se non organizzare un attacco in grande stile verso i “cattivoni” siriani rei nuovamente di aver usato delle armi di distruzione di massa contro la popolazione inerme?

Detta così potrebbe sembrare anche un’idea geniale, degna di Niccolò Machiavelli, ma, si sa, non è cosa saggia giocare con il fuoco perché, pur non volendo, l’incendio potrebbe pur sempre divampare e, in quel caso, chi potrà mai fermarlo?In fondo, Putin, per quanto sia un uomo dai nervi d’acciaio, è pur sempre un essere umano e, in quanto tale, anche la sua pazienza ha un limite. Pazienza che è già stata fortemente messa alla prova a seguito delle false accuse mosse dal Governo britannico, nei confronti del Cremlino, riguardo l’avvelenamento di Serghej Skripall e di sua figlia Yulia, a Londra, per mano di alcuni agenti russi. 

In questo frangente la risposta di Putin a tanta infamia ed alle espulsioni dei propri diplomatici, fu perfettamente simmetrica e 150 diplomatici occidentali furono costretti ad abbandonare il territorio della Federazione Russa. Se in tal modo a volare furono solo le “Feluche” ora rischiamo concretamente che a librarsi nell’aria siano oggetti ben più pericolosi. E tutto questo potrebbe avvenire solo ed esclusivamente perché il Presidente degli Stati Uniti, chiunque esso sia, è prigioniero:

  • del proprio ruolo;
  • di fortissimi gruppi d’interesse;
  • delle lobby degli armamenti. 

Tutte questioni che, a noi italiani poco interessano o meglio, dalle quali, per la nostra posizione geografica e per la nostra storia, non possiamo che avere solo influssi negativi. Di conseguenza ci conviene continuare ad essere alleati degli Stati Uniti? La risposta, a questo punto, è chiaramente no! E, a tal riguardo, venuto a sapere della domanda del reggente del PD, Maurizio Martina, rivolta al leader del Carroccio in merito al fatto se: << Salvini vuole cambiare le alleanze internazionali del nostro Paese? Se è così, lo dica chiaramente >> mi sento in dovere – pur non essendo il leader della Lega, ne legato a quest’ultimo in nessun modo e ne conoscendo il suo pensiero più recondito – di rispondergli in qualità di puro sovranista con un’altra semplice domanda: << Caro Martina, ma se non ora, quando? … Cosa e quanto, dovremo ancora aspettare per comprendere che continuando a seguire l’Europa, l’Euro e la Nato ben presto ci ritroveremo nel baratro più profondo? >> 

Persino un euro/atlantista convinto come il Senatore forzista Paolo Romani si è reso conto dell’inconsistenza delle accuse americane tanto da dichiarare che: “nel momento in cui i ribelli jihadisti di Duma si stanno per arrendere, immaginare che Assad abbia utilizzato armi chimiche, che avrebbero scatenato di sicuro la reazione internazionale, oltre a essere inutile sarebbe un’idea stupida >> e c’è chi, come Lei, crede ancora a queste fandonie? In tal caso le questioni sono due: o chi sostiene posizioni filoatlantiste è in mala fede o non è in grado di leggere la realtà che lo circonda, e, in entrambi i casi, ciò può denotare solo una cosa: una grave incompatibilità con il ruolo che riveste, ergo non è degno di sedere in Parlamento. 

Pertanto il mio appello – come semplice cittadino, rivolto a tutto l’arco costituzionale – è quello che si uniscano tutte le forze di buona volontà affinché, nell’immediatezza della crisi, l’Italia non partecipi in alcun modo a nessuna azione militare in Siria, ne inviando truppe o mezzi, ne mettendo a disposizione le proprie basi. 

Anzi il nostro Paese, anche attraverso l’ausilio della diplomazia vaticana, dovrebbe farsi carico di una Conferenza di Pace per tentare di risolvere la Guerra Civile Siriana.

12 aprile 2018
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su Frontiere

 

Elezioni turche, la corsa contro il tempo di Erdoğan

di Enrico Campofreda

Per capitalizzare gli effetti delle ultime mosse sul terreno siriano e la conquista di Afrin Erdoğan in patria gioca d’anticipo sulle elezioni politiche, unendole alle presidenziali previste fra oltre un anno. Forza la mano sull’alleato di comodo Bahçeli che suggeriva il 26 agosto e lancia un’election day per il 24 giugno. Ovviamente si prende la scena commentando che il passo diventa necessario perché la Turchia riesca a superare le incertezze che si stagliano per le situazioni di Siria e Iraq. Ma lascia annunciare il tutto alla figura che, secondo il progetto di Repubblica  presidenziale approvato col referendum un anno fa, verrà soppressa quella del premier. E’ stato, dunque, il primo ministro Yıldırım, ridotto a gran visir di second’ordine, a ufficializzare che il processo elettorale prenderà il via immediatamente. Una commissione sta già lavorando per avviare il dibattito in Parlamento. L’azione presidenziale tende a incamerare elettoralmente quanto più è possibile dai passi compiuti in politica estera, dove l’azzardo che lui ha trasformato in regola ha tempi dettati dall’andamento di vicende che, come dimostra il sipario siriano, sono comunque cangianti e non definite.

In più c’è la non favorevole contingenza di sondaggi che mostrano consensi in calo per l’alleanza fra Akp e Mhp, dati che parlano di diversi punti sotto il 50%. L’accoppiata islamo-nazionalista spera che anticipo elettorale possa sottrarre voti all’opposizione del partito repubblicano, rimasto bloccato dal superattivismo in politica estera del presidente che ha molto puntato sulla carta dell’orgoglio nazionale contro cui il Chp non s’è sentito di muovere foglia, specie dopo il repulisti seguito al tentato golpe gülenista. Mentre il Partito democratico dei popoli vive l’oggettiva difficoltà di riorganizzarsi a seguito delle ripetute azioni repressive avviate contro l’etnìa kurda dall’estate del 2015. Comunque i sondaggi considerano le due formazioni in grado di ribadire le percentuali degli ultimi tempi: 25% i repubblicani e il conseguimento della soglia del 10% per entrare in parlamento da parte del gruppo di Demirtaş. Il problema sarebbe conservare i deputati nel Meclis, visto che più della metà degli  onorevoli Hdp eletti nel novembre 2015 sono stati incriminati per “terrorismo”. Se non un terrore, certamente un brivido d’incertezza all’alleanza Akp-Mhp lo induce l’Iyi Party, fondato nell’autunno 2016 dalla frondista Meral Akşener, lanciata a testa bassa contro la dirigenza di Bahçeli che s’asserviva a Erdoğan.

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Akşener è a suo modo una “lupa grigia” ben addentro ai gangli del sistema, perlomeno quello kemalista, in cui ha ricoperto incarichi nel dicastero più amato dalla destra eversiva turca: quello degli Interni. La lupa ha poi tre assi nella manica che intende giocarsi per incrinare il consenso elettorale del sultano. E’ una fedele musulmana e fa leva sulle donne islamiche, gran bacino elettorale erdoğaniano, sostenendo ciò che l’ex premier e ora presidente ha poco concesso: spazio politico di genere. Poi vuol erodere la prerogativa presidenziale della lotta al terrorismo identificato con l’etnìa kurda. Lei sostiene che i diritti delle minoranze semplicemente non hanno diritto di concessioni. Eppure è capace di giri di walzer degni del presidente, perché sul fronte dell’informazione (forse perché massicciamente controllata dal gruppo di potere dell’Akp) Akşener parla a favore della libertà dei media che “non devono essere sotto pressione”. Insomma appare sulla scena l’incognita d’una politica a tutto tondo e senza scrupoli. Per questo l’anticipo delle elezioni potrebbe diventare un sotterfugio per provare a escludere dalla corsa con cavilli burocratici il neo partito, pericoloso perché capace di rubar voti alla coalizione che guida la Turchia. Ma i commentatori economici sostengono che il pericolo maggiore per Erdoğan è un’economia interna in cui l’inflazione sale, la disoccupazione pure mentre la lira turca precipita.

Pubblicato
giovedì 19 aprile 2018

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dal blog di Enrico Campofreda

 

Siria: Sette Anni di cinismo

Nel 2013 Obama aveva minacciato di intervenire in Siria dopo che i governativi di Damasco avevano fatto uso di armi chimiche, ma papa Francesco era riuscito a dissuaderlo. Quattro anni dopo Trump ordinava di colpire la base aerea di Shayrat, come rappresaglia per l’uso da parte dei governativi siriani di agenti chimici. Ora Trump si ripete triplicando gli obbiettivi a poche ore dalla sua esternazione di voler disimpegnare i 2mila militari in Siria, ma questa volta con l’appoggio dei britannici e dei francesi.

Il presunto attacco chimico ha portato gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna a scendere in campo con i propri mezzi non limitandosi a dei reparti speciali o ad armare i curdi e le varie milizie. Trump schiera unità navali armate di missili “belli ed intelligenti”, fiancheggiato dai britannici e con i francesi impegnati a fare da comparsa. Un raid giustificato da Macron, davanti al Parlamento europeo con un laconico “sono intervenuti per difendere l’onore della comunità internazionale” e profetizzando per l’Europa una guerra civile.

Una dimostrazione di forza indirizzata a Damasco, ma che per interposta persona è la Russia il destinatario e ancor di più l’Iran, che è nel mirino di Trump e dell’israeliano Netanyahu, come dimostra il raid aereo di Israele del 9 aprile che, a differenza degli statunitensi, ha colpito senza avvertire nessuno e facendo vittime anche tra militari iraniani.

La fievole voce dell’Onu, per una via diplomatica, è rimasta inascoltata, anche quando l’OPAC (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) si era messa a disposizione per indagare sulla presenza di agenti chimici e le discussioni in seno della Lega araba non hanno avuto alcun effetto.

Sarà cinismo, ma si ha l’impressione che della popolazione siriana, vittima da sette anni di sofferenze, a nessuno dei contendenti interessa. Certamente non ai russi ed agli iraniani chiamati da Assad a difendere il suo potere più che il suo dominio. I Turchi, più che a spodestare Assad, sono impegnati nella caccia ai curdi, gli statunitensi cercano di addestrare ed armare i curdi ed alcune formazioni antigovernative, mentre i sauditi, con i paesi del Golfo, finanziano il variegato schieramento islamico. Sopra tutti – letteralmente – i raid aerei, di ogni schieramento, impegnati a scaricare bombe e bidoni chimici su scuole ed ospedali, oltre che su case e moschee.

Erdogan, dopo Afrin, esorta gli Stati Uniti a riprendere le armi date ai curdi e promette di restare a lungo in Siria minacciando di togliere ai curdi anche Kobane. In questa vera e propria caccia al curdo c’è l’indignazione dell’artista grafico Zerocalcare, che a Kobane ha dedicato una graphic novel, nel trovare l’Occidente “distratto” dopo aver festeggiato i curdi come eroi nella guerra ai fanatici daesh ed ora vengono abbandonati al loro destino.

I turchi sembrano impegnati ad occupare il nord della Siria, forse non è che un primo passo per un nuovo impero ottomano, i russi vogliono tenersi stretti la base navale Tartus sul mediterraneo e quella aerea di Hmeimim, mentre gli iraniani, con gli hezbollah, si sono insediati, minacciando Israele, sulle alture del Golan.

Un recente rapporto di Save the Children sulla Siria  è già obsoleto con  vittime su vittime e profughi su profughi che continuano ad allungare l’elenco dopo Ghuta ed ora con Douma, i massacri continuano.

Il conflitto siriano si muove anche nell’ambito della propaganda ed ecco che si discute a chi può convenire impiegare o fomentare voci sull’uso di agenti chimici sulla popolazione, mentre si minacciano, dopo una risposta “adeguata”, altre azioni militari non finalizzate a deporre Assad, ma solo ad impedire l’uso di agenti chimici ed ignorare il rapporto delle Nazioni Uniti dedicato alle brutalità commesse dal regime di Damasco.

I governativi stanno riconquistando le macerie della Siria senza lasciare spazio a tregue “umanitarie” ed all’apertura di corridoi per l’evacuazione, colpendo indiscriminatamente civili ed armati.

Una riconquista fatta di cannoneggiamenti e bombardamenti concepiti per radere al suolo ogni possibile rifugio, trasformando città prospere in spianate e gran parte del territorio siriano in un cumulo di rovine, come Aleppo.

Un campo di battaglia dove si fronteggiano, con eserciti ed armando milizie, i sostenitori di Damasco e di chi vuol spodestare al Assad. Un conflitto mondiale che rischia di non rimanere circoscritto, coinvolgendo oltre al debole Libano anche tutto il medio oriente in una nuova spartizione delle aree di competenza, come avvenne nel 1916 tra il diplomatico francese François Georges-Picot e il britannico Mark Sykes, dando luogo all’accordo Sykes-Picot, per le rispettive sfere di influenza in seguito alla sconfitta dell’impero ottomano nella prima guerra mondiale.

Un trattato, quello franco britannico, redatto con righello e squadra, senza tener conto dei popoli oltre che di fiumi e montagne, ma che ha garantito per 150 anni un minimo di stabilità dell’area.

Era apparso sul The Guardian, in prossimità della rappresaglia, la riflessione di Simon Jenkins sulla possibilità che solo una vittoria di Assad metterebbe fine alla guerra civile in Siria – Only Assad’s victory will end Syria’s civil war. The west can do nothing  – e con l’intervento militare occidentale si prolungherebbe la sofferenza della Siria.

Al quotidiano britannico si era aggiunto il suggerimento di Caroline Galactéros (colonnello nella riserva, direttore della società di intelligence strategica Planeting, direttore del gruppo di esperti GeoPragma) su Le Figaro con Pourquoi la France ne doit pas s’associer aux frappes en Syrie (Perché la Francia non deve aderire agli attacchi in Siria) per una posizione “pragmatica” dell’Occidente.

Dopo oltre sette anni di sofferenze per i siriani e di sperimentazioni diplomatico-militari si arriva alla conclusione che è meglio lasciare i siriani al loro destino?

Ma i venti di guerra sul Mediterraneo non può farci dimenticare della tragedia del popolo yemenita, vittima del conflitto iraniano saudita.

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