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Neoliberismo Democratico o Democrazia paternalistica

È difficile leggere il nuovo assetto politico di alcuni paesi dell’America Latina, impegnati a confutare il modello economico occidentale, sottoposti prima al colonialismo e sino a qualche anno fa a una sorta d’imperialismo economico.

Un Continente che non accetta di essere ritenuto il cortile statunitense e per decenni trattato con sufficienza, vuol mettere in crisi il neoliberismo democratico.

Per comprendere questi cambiamenti è anzitutto necessario lasciare da parte modelli macroeconomici obsoleti, generati da un’ideologia politica utopistica; utilizzando una metafora artistica in politica e in economia è auspicabile abbandonare una visione surrealista per dirigersi verso lidi iperrealisti!

Per il politologo americano Francis Fukuyama della Stanford University in California, come chiarisce durante un’intervista su L’Espresso di fine giugno 2012, “occorre riportare l’equilibrio fra il mercato e lo Stato, equilibrio turbato dagli ultimi 25 anni di dominio assoluto del neoliberismo…” occorre cioè “..riabilitare l’idea di bene pubblico. Bisogna rendersi conto che non si tratta di un insieme di beni individuali e che la società non ne costituisce la somma, ma che è un concetto collettivo. Abbiamo bisogno di un nuovo progetto riformista, più credibile della socialdemocrazia e del Welfare tradizionali. È necessario reinventare lo Stato”.

Chantal Mouffe, politologa belga in forze all’università di Westminster del Regno Unito, provocatoriamente afferma che “c’è da latinoamericanizzare l’Europa” nell’intervista sul quotidiano argentino Pagina|12.

La Mouffe che ha partecipato a Buenos Aires insieme a Ernesto Laclau ad un intenso ciclo di “Confronti e scontri” con altri politologi intervenuti nel paese sostiene che “in un mondo multipolare, la democrazia non può essere un unico modello esportato dall’Europa e dal Nord America al resto del mondo. C’è da comprendere che si verranno a formare distinte forme di democrazia, che prendono origine nei distinti contesti storici. Non c’è un’unica modernità ma molte traiettorie verso ciò che può essere chiamato modernità e nella misura in cui si possono accettare l’esistenza di differenti modernità alternative, siamo in grado di accettare e di comprendere anche forme multiple di democrazia. Non è legittimo pretendere che questo modello occidentale sia accettato dal resto del mondo. Nell’esperienza delle nuove democrazie del Sudamerica non c’è un rifiuto della tradizione liberale, però c’è un’articolazione distinta tra la tradizione liberale e la democrazia. In Europa l’elemento liberale è diventato assolutamente dominante mentre l’elemento democratico è stato subordinato o in alcuni casi eliminato.”

Viceversa nell’America Latina la democrazia intesa nell’accezione di redistribuzione della ricchezza e della sovranità popolare ha il predominio sulla concezione liberale dell’economia.

E’ chiaro che sono da considerare pericolose, prosegue la Mouffe, le situazioni in cui un progetto paese dipende da una sola figura politica, non per questo però devono essere in assoluto condannate e demonizzate le rielezioni dello stesso presidente nel momento in cui il paese prevede che possa essere rieletto.

“Analizziamo il caso Cileno, dove il presidente ha un solo mandato. Michelle Bachelet è stata un personaggio molto popolare e avrebbe potuto essere rieletta ma la normativa non l’ha permesso: questo si, che è stato un forte ostacolo al potere popolare. Anche la rielezione può essere una maniera di lottare contro il predominio del liberismo sulla democrazia. Chiaramente ciò non vuole dire che si debbano abbandonare in assoluto i limiti liberali”.

Ben diverso è il caso venezuelano con il quarto mandato di Hugo Chávez, riconfermato presidente grazie al referendum del 2009 che ha cancellato i limiti alla rieleggibilità del presidente.

Qual è il punto allora?

Il Clarin denuncia: “De república de leyes a una democracia de emperadores”. L’articolo è una riflessione generale sull’assetto dell’America Latina anche se poi è preso ad esempio il fenomeno Chavez. Termini come “paternalismo smisurato quasi grottesco” o “autoritarismo con personalismo estremo quasi faraonico” se non considerati tendenziosi, certamente interpellano profondamente sulla ricerca di una interpretazione il più possibile veritiera dei fatti.

La soluzione forse è lontana ma una direzione possibile ci è indicata dalla Mouffe:

“In politica esiste sempre un noi e poi gli altri. …Nella società saranno sempre presenti settori opposti. Il conflitto ha sempre a che fare con relazioni di potere e di egemonia. L’obiettivo della democrazia dunque, non è trovare il cammino per mettere tutti d’accordo giacché impossibile, ma quello di trovare il modo per gestire il conflitto. Non è possibile organizzare una società democratica su un piano amico-nemico cioè su un antagonismo nel quale non si riconosce la legittimità dell’opponente per cui non rimane che eliminarlo. Diverso il discorso se la dimensione per affrontare il conflitto si pone in una base agonistica per cui si sviluppa una “relazione” tra avversari. Ci sarà comunque una lotta per l’egemonia, ma che sarà subordinata ad atteggiamenti e procedimenti democratici. Il compito fondamentale della politica democratica è creare istituzioni e procedimenti che possano permettere ai conflitti di manifestarsi in una maniera agonistica e non antagonistica”.

Un’Europa in ordine sparso

Per alcuni l’Europa è una matrigna uscita dalla più orrida delle favole più che una benevola madre. Una benevola madre di 60anni che ha espresso il meglio nei suoi primi anni di crescita mentre i restanti li ha spesi a guardarsi i personali ombelichi. Uno sport ben noto in Italia, rendendo l’Unione europea sempre più simile a un carrozzone non tanto differente a quegli enti italiani istituiti per non far soffrire di disoccupazione una moltitudine di “capaci” burocrati e politici dispersi in un labirinto di commissioni e sotto strutture.

Un’unione divisa nel Consiglio europeo e nella Commissione europea e per questo c’è chi ha meritato il Nobel per la pace con la motivazione per “i progressi nella pace e nella riconciliazione” e per aver garantito “la democrazia e i diritti umani” nel vecchio continente.

È certo che un’Europa annientata da una guerra ha saputo accogliere nelle utopie di Altiero Spinelli una via d’uscita dal confronto distruttivo tra nazioni per una cooperazione di crescita, ma ora che all’Europa è stato assegnato il Nobel per la Pace è comprensibile pensare ad un premio postumo assegnato ai padri fondatori dell’Unione per i primi decenni della sua crescita.

Ripercorrendo ora alcune scelte e alcuni tentennamenti come quelli sulle guerre Balcaniche o sull’immigrazione è difficile giustificare questo Nobel.

Un’umanità che affronta attraversate perigliose, in cerca di un approdo sicuro a tanta violenza e fame, viene poi respinta o rinchiusa in strutture più simili a carceri che a centri di accoglienza.

Un trattamento riservato verso il prossimo e tollerato nei paesi europei del Mediterraneo, ma ben diverse sono le possibilità che gli extracomunitari possono avere se riescono a raggiungere le terre più a nord. Assistenza, semplificazioni burocratiche per le richieste di asilo, ma è soprattutto raro un trattamento equiparato ad quello di un incallito delinquente.

L’istituzione nel 2004 della cosiddetta agenzia europea delle frontiere denominata Frontex è la dimostrazione della coesione dei 27 Stati nel fare “fronte” unico contro le deboli minacce e della divisone quando gli interessi si sovrappongono o si confliggono. Con Frontex l’Unione europea istituisce il suo braccio armato per tenere lontano i migranti in cerca di un luogo lontano dalle guerre e dalla fame. Mentre è difficile realizzare un esercito europeo per intervenire in missioni d’interposizione e protezione della popolazione civile, ne sono un esempio in ambito europeo i conflitti Balcani, è stato invece estremamente semplice dar vita in pochi anni ad una centrale di comando a Varsavia di un gruppo di polizia fornito di aerei, elicotteri, navi e attrezzatura elettronica per il monitoraggio delle frontiere terrestri e marittime, attuando in diversa forma la reclusione e il respingimento.

L’Unione europea è anche detentrice di una contraddizione sul suo rapportarsi con le minoranze culturali per le quali stanzia fondi per l’integrazione e la difesa delle tradizioni. Nel caso dei cosiddetti Zingari – Rom, Sinti e Camminanti (RSC) – finanzia un progetto per superare discriminazione e pregiudizio, dei quali ne sono oggetto, come la Campagna DOSTA! e garantire a tutti i bambini rom di portare a termine il ciclo della scuola primaria e magari alleviare le difficili condizioni in cui spesso vivono.

Il ruolo dell’Europa è debole e gli stati che ne fanno parte sembrano più propensi all’indebolimento del Vecchio Continente nel panorama internazionale che al rafforzamento dell’Istituzione ed è in questo ambito che leader politici come Daniel Cohn-Bendit e Guy Verhofstadt hanno prodotto un libro Per l’Europa! (Mondadori) per sollecitare un comune impegno dimostrando di aver meritato il Nobel e non di essere un altro premio alle buone intenzioni. Un altro e differente punto di vista sull’Europa è dato dal libro di Mario Monti e Sylvie Goulard Della democrazia in Europa (Rizzoli).

Alla fine di ottobre il Parlamento britannico con una votazione chiede al premier David Cameron di opporsi al previsto aumento del 5% del bilancio della UE e limitarsi al tasso d’inflazione del 2%.

Parlamentari Laburisti e Conservatori, europeisti convinti ed euroscettici, hanno inviato un messaggio al Governo, con la richiesta di ridurre le spese nel prossimo bilancio settennale dell’UE (2014-2020) che Cameron ha fatto suo nel vertice di novembre, aprendo un negoziato sull’aumento del bilancio, perché è insostenibile che l’Ue sbandieri il vessillo dell’austerità per i singoli paesi, ma non per Lei, raccogliendo il sostegno di una minoranza dei paesi per ricercare un compromesso.

Milioni di persone, nell’Europa sottoposta a drastici tagli dei servizi soprattutto sanitari, fanno la fila per essere curati dalle Ong come Medici Senza frontiere. Centinaia di farmaci di prima necessità per l’insulina o per il cancro sono introvabili, ma sembra non interessare a nessuno a Strasburgo come a Londra con la sua strana alleanza per un rigore nel bilancio comunitario. Uno dei tanti non comportamenti che rende l’Europa una vera matrigna malefica.

Tra il voler ridurre e aumentare il budget dell’Ue c’è chi è propenso a congelare le spese, cercando di salvare le sovvenzioni ai programmi agricoli e per sostenere lo sviluppo delle nazioni più povere.

L’utilizzo del veto incrociato su l’una o l’altra proposta ha creato una situazione d’impasse e il mancato accordo sul bilancio comunitario metterà a rischio alcuni progetti a lungo termine e tutto perché l’Italia e la Francia, in prima fila, non vogliono rinunciare ai contribuiti all’agricoltura, ma non sarebbe più utile sostenere l’agricoltura con servizi e promozione, più che confidare sulla carità del mandare al macero tonnellate di prodotto per sostenerne la quotazione.

La litigiosità per difendere gli interessi nazionali guiderà l’Europa ad un altro accordo al ribasso, mettendo in secondo piano l’interesse comunitario.

Ma è reale il problema della lievitazione delle spese della burocrazia nell’Unione Europea quanto il disuguale trattamento economico dei parlamentari. Differenti stipendi perché i parlamentari vengono retribuiti direttamente dagli stati di provenienza. Un dettaglio per molti che prima o poi dovrà essere affrontato e posto come un problema di forma che possa rendere un’Unione Europea più coesa e non frammentata dai singoli interessi. Scegliere di stipendiare i vari parlamentari direttamente dall’Unione Europea è un passo verso un’Unione economica più attiva vincolando i parlamentari all’interesse europeo comune per fronteggiare gli attacchi commerciali e finanziari come le furberie scorrettezze cinesi o russe che spesso si sovrappongono al mancato rispetto dei Diritti Umani in vari luoghi della Terra.

L’Unione europea ha fallito in Medio oriente dopo aver procurato un lavoro all’ex premier britannico Blair e non ha saputo cogliere i segni di un precipitare agli eventi come il fallimento dei Balcani.

La Ashton, il cosiddetto ministro degli esteri dell’Unione, continua a dare dimostrazione d’incapacità nel coniugare diplomazia e fermezza per una politica estera comunitaria anche quando gli interessi economici creano attriti tra i paesi europei rispetto alla difesa dei Diritti umani.

Un difesa dei Diritti che rende l’Europa indecisa, divisa in uno stato amletico di quale posizione sia meglio scegliere comunitariamente come nell’appoggiare la richiesta di Abu Mazen e dell’Autorità nazionale palestinese di riconoscere la Palestina come Stato osservatore all’Onu o fare muro con Israele e gli Stati uniti nel tenere fuori dal convitto umano un popolo in cerca di uno Stato.

È da anni che attivismo europeo si limita all’assegnazione annuale del Premio Sakarov per la difesa dei diritti umani. Quest’anno è stato assegnato agli iraniani Jafar Panahi, regista, e Nasrin Sotudeh, avvocato, deludendo per la seconda volta l’opposizione bielorussa per non aver scelto Ales Bialiatski che era nella lista dei “nobélisables”.

Un riconoscimento che poteva rendere ulteriormente difficili i rapporti diplomatici con una dittatura “perfetta” quale è quella instaurata dal presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko già sotto sanzioni.

Anche il gruppo russo Pussy Riot era papabile per il Nobel, ma sembrava rincorrere troppo la moda del momento. Più forte invece poteva essere il gesto di assegnarlo a Malala Yusafzai, la giovane pakistana gravemente ferita dai taleban per aver difeso, attraverso il suo blog, il diritto delle bambine di andare a scuola, ma il mondo arabo aveva già ottenuto dei riconoscimenti con la giornalista Tawakkul Karman, yemenita, e la candidatura di Malala era fuori tempo massimo.

Anche il piccolo Iqbal, venduto a quattro anni dal padre a un commerciante di tappeti per 12 dollari e ucciso per strada nel 1995 a soli 12 anni, si è battuto per i diritti dell’infanzia e contro il lavoro minorile in miniere e nelle fabbriche.

Ora la candidatura di Malala Yusafzai al Nobel è partita dalla Gran Bretagna con la raccolta di firme e sollecitando il primo ministro David Cameron e agli altri rappresentanti del governo britannico ad appoggiare la nomina.

Un’Europa che si preoccupa di non offendere la sensibilità delle altre religioni ha consigliato alla Slovacchia di limitarsi a riprodurre le effigi dei santi Cirillo e Metodio, ma senza contrassegni religiosi sull’Euro. Niente croci e aureole, ma sfugge alla commissione di “vigilanza” che in Slovenia sono stati stampati degli Euro con una rubiconda faccia per festeggiare il centenario della nascita di un alto ufficiale agli ordini del generale Tito, con tanto di stella rossa sulla bustina, che molti in Italia non apprezzano per il suo operato verso gli italiani in Istria e Dalmazia. Un operato che oggi magari potrebbe essere additato come crimine verso l’umanità, ma in quegli anni era una vedetta per i soprusi che i fascisti avevano perpetrato verso la popolazione civile serba, ma non si è pensato alla sensibilità dei nostri connazionali a Lubiana che si trovano a maneggiare come un monito verso la loro condizione di estranei.

L’Unione europea ha dato dell’incoerente, giustamente, all’Italia nell’ambito della salute, ma è tutta l’Europa ad essere incoerente e tre nobel lo mettono in evidenza con un appello al Comitato di Oslo perché non consegni il 10 dicembre i 900 milioni di euro all’Europa che ha deciso di devolvere i soldi del premio a progetti per l’infanzia vittima delle guerre. Un piccolo atto riparatorio per una riconoscenza opaca.

VIAGGIO NELLA FRAGILITÀ

L’iniziativa di Maria Rebecca Ballestra, avviata in gennaio 2012 e che si concluderà nel giugno 2013, è ispirata alla Carta di Arenzano per la Terra e per gli Esseri Umani del poeta Massimo Morasso (2001) ed è presente nel sito Journey into Fragility.

Il Manifesto è composto da dodici istruzioni per reimpostare in modo costruttivo i problemi della crisi ambientale, ed è stato sottoscritto da poeti più famosi del mondo (da Derek Walcott a Seamus Heaney e Adone, da Bei Dao a Mario Luzi, da Yves Bonnefoy ad Andrea Zanzotto e John Ashbery, solo per citarne alcuni).

Le dodici “riflessioni” del Manifesto Arenzano offrono l’opportunità d’intervenire in altrettanti luoghi del Mondo con progetti per la comunità, installazioni, video e realizzazioni site specific, con l’intento di sviluppare un dialogo aperto e costruttivo per l’ambiente e il valore della vita sulla Terra. Ogni intervento coinvolgerà un diverso curatore e partner scientifico, con l’intento di produrre un progetto costruttivo, in grado di portare nuove tecnologie e soluzioni per la salute e benefici della Terra, sia nei paesi ricchi e poveri.

Ciascuno dei dodici progetti artistici saranno registrati in un film documentario, una pagina web, e un reportage fotografico.

La durata del progetto sarà di circa un anno e mezzo, al termine del quale il lungo viaggio si concluderà in un evento espositivo completo, che sarà organizzato in Italia, per documentare tutte le fasi del progetto, per discutere i risultati di attività svolte in diversi paesi, per scoprire i diversi punti di vista sul comune risorsa “Terra”, per discutere e cercare di trovare nuove soluzioni e opportunità per il futuro

La quinta tappa del progetto si è svolta ad agosto in Cina nella provincia dello Zhejiang, dove il paesaggio offre una delle contraddizioni dei paesi industrializzati che vorrebbero coniugare le concentrazione di fabbriche a vaste distese di terre verdi e parchi naturali, dove abbondanza di laghi ha creato l’habitat favorevole alle foreste.

Il Viaggio nel Fragilità della Terra sarà, nella sesta tappa del progetto, a Singapore dal 27 ottobre al 1° novembre e sarà a cura di Fabio Carnaghi. NEWater – società leader in Italia per raccogliere l’acqua piovana e riciclare l’acqua utilizzata – sarà il punto di partenza per riflettere sulla ottava tesi del Manifesto Arenzano: Rispettare le differenze locali e le loro caratteristiche che definiscono sia compatibile con lo sviluppo economico.

 

 

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LA RISCOSSA CHÁVEZ

Il quarto mandato di Hugo Chávez riconfermato presidente in Venezuela, non può non far riflettere sulla costanza del segnale manifestato alcuni paesi dell’America Latina come il Venezuela appunto, la Bolivia, il Brasile o l’Argentina nell’assetto politico ed economico mondiale.

Riflessione che per essere realmente costruttiva deve abbandonare la lente deformante dei preconcetti e delle fonti d’informazione di un’ideologia dominante come quella Europea e Nord Americana. Sforzo arduo, soprattutto per Sud America in quanto il grado di distorsione nel quale ci vengono propinate le notizie è totale. Oliver Stone ha dedicato a questo fenomeno un interessante film documentario: South of the Border premiato nel2009 a Venezia ma sparito troppo velocemente dalle sale.

Parlando d’informazione c’è chi sottolinea che la rielezione di Chavez è avvenuta grazie al 54,2 per cento dei voti favorevoli e cioè con quasi nove punti percentuali in meno rispetto ai voti ottenuti nelle precedenti elezioni (2006) mentre sembra interessare meno il fatto che l’affluenza alle urne sia aumentata del 6% rispetto a quella passata. Fenomeno in controtendenza a ciò che si registra invece nella maggior parte dei paesi Europei.

Il programma di Hugo Chávez segue coerentemente le politiche cominciate all’inizio del suo mandato: la rivoluzione socialista bolivariana.

Come afferma il Vicepresidente Elías Jaua, il Governo Bolivariano stringerà la vite per blindare il modello socialista finanziando con i dollari derivanti dall’esportazione del petrolio la possibilità per tutti i venezuelani di aver accesso all’istruzione, alla salute e a un’abitazione.

Per ottenere questo dovranno essere rinforzati i controlli su elementi strategici come l’energia, gli alimenti, e l’edilizia.

Da quando ha assunto il potere, Chávez ha aumentato l’ingerenza dello Stato sull’economia del paese non solo con le nazionalizzazioni, ma anche con il controllo dei prezzi e del tasso di cambio. Finora ha trascorso 14 anni di mandato ignorando il consenso Nord Americano che infatti appoggiò i suoi avversari nel un golpe del 2002 fallito poi miseramente: Hugo Chávez fu reinsediato pochi giorni dopo per acclamazione popolare.

Con posizioni e percorsi differenti e con continuità variabile Brasile, Bolivia e Argentina stanno anch’essi portando avanti una strategia similare di posizionamento rispetto al dominio Nord Americano e alle politiche economiche neoliberiste, applicando norme per poter riaffermare lo Stato come strumento di sviluppo politico economico.

All’interno di questo panorama la creazione del Mercosur (Mercato comune del Sud America) con la sua radio, ampliato poi nell’UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane) ed il Consiglio di Difesa Sudamericano hanno avuto un ruolo importante, anche nelle contrapposizioni di principio come il concedere da parte dell’Ecuador l’asilo al cofondatore di Wikileaks Julian Assange.

Ma leggendo i giornali è spontaneo chiederci:

«Stiamo parlando di populismo demagogico con l’unico scopo di rafforzare l’autoritarismo del potere o di un nuovo modello di governo coerente con l’evoluzione e l’emancipazione propria di ciascun paese?»

Questo è il dilemma su cui si scontrano detrattori e sostenitori di una via LatinoAmericana all’economia di mercato.

 

PRIMAVERA ARABA UN ANNO DOPO

L’Osservatorioiraq.it, nell’ambito del Salone dell’editoria sociale di Roma (18-21 ottobre 2012), presenta insieme a Un ponte per… il libro Cronache di una controrivoluzione. Il prezzo della libertà ai tempi delle Primavere Arabe (Edizioni dell’asino), per una riflessione sull’autunno del malcontento che potrebbe spazzare via ciò che rimane delle primavere arabe.

Repressione, corruzione e guerra per le risorse, gli attivisti della sponda sud continuano a rischiare la vita, e a denunciare un’Europa che, mentre sigla accordi economici di stampo neo-coloniale, riceve il Nobel per la Pace 2012.

Le Primavere Arabe in chiave controrivoluzionaria per capire perché ancora oggi in Egitto e Bahrein, passando per lo Yemen, migliaia di persone continuano a rischiare la propria vita a mani nude in nome della libertà.

Mentre al Museo di Roma in Trastevere è la rivista Geopolitica, in occasione dell’uscita del suo secondo numero, e l’associazione Me.Dia (Mediterraneo in Dialogo) organizzano il convegno dedicato alla Primavera Araba per discutere sui risultati e le prospettive dei recenti sommovimenti nel mondo arabo.

A partire dalla morte di M. Bouazizi nel dicembre 2010, una serie di rivolte, proteste e rivendicazioni popolari ha investito vari paesi arabi in rapida successione. In Tunisia, Egitto, Yemen e Libia i governi sono stati rovesciati; in Libia e Bahrain le rivolte hanno portato all’intervento armato straniero; in Siria la situazione rasenta la guerra civile ormai da parecchi mesi. Ma nessun paese arabo è rimasto completamente estraneo alla cosiddetta “Primavera”.

 
Salone dell’Editoria Sociale
venerdì 19 ottobre 2012
Roma
Porta Futuro – Sala B
via Galvani 108 (Testaccio)
dalle 12.15 alle 13.45 incontro su:

Economia e politica a un anno dalle rivolte arabe.
 

Convegno
LA PRIMAVERA ARABA:
un anno dopo
alle ore 15.30 del 19 ottobre 2012
Roma
Museo di Roma in Trastevere
piazza Sant’Egidio 1/b

Per prendere parte all’evento è richiesta la registrazione tramite posta elettronica ai seguenti indirizzi: eventi@istituto-geopolitica.eu e segreteriame.dia@gmail.com.