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Una piccola avventura

Roma. Città antica di inenarrabili glorie. Archi di trionfo, teatri, circhi, templi. E poi lo scorrere dei secoli nell’alternarsi di novità e rinnovamenti: paleocristiano, romanico, gotico, bizantino e poi il succedersi luminoso della Rinascita, e il Manierismo, i tormenti del Barocco, il Seicento, il Settecento, fino ai rifacimenti dell’ altro ieri, dal Liberty al Razionalismo. E ogni volta l’antica e nobile Signora a rifarsi il trucco, accogliere generosa le nuove rivoluzioni, e di buon grado rifarle sue e farsene ornamento. Questa città non è certo la più antica del mondo ma è certo la più ricca in sé di stili, motivi, gusti, tendenze, in cui tutte le civiltà o mistiche o guerriere o barbare o raffinate, han portato i ricchi doni delle loro tradizioni, ogni volta accettate e fatte proprie dall’universale metropoli. Stile antico che si rifà ai tempi dell’Impero in cui razze, tradizioni, fedi, si inurbavano comodamente nell’esaltazione cosmopolita dell’Alma Mater. Ma forse più commuove e affascina, lasciati i trionfi e le glorie scoprire nei vicoli nascosti, nelle dimenticate penombre, nelle pieghe trascurate dal rumoroso e superficiale turista, i frammenti, le tracce che chi ama questa città va amorosamente indagando.

Porticine misteriose murate e quasi invisibili nel corpo delle maestose mura Aureliane, o fontanelle ormai mute, sorelle minori delle pompose scenografie acquatiche, o teste di sconosciuti senatori o condottieri ridotti a far da silenziosi custodi negli angoli bùi, come a mendicare perdute nobiltà. Così chi si allontana per un tratto dalla trafficatissima Porta Pinciana e si dirige, seguendo all’interno le mura verso piazza Fiume, s’imbatte tra anditi e architravi inglobati nel laterizio, nella discreta fontanella detta “Fons Ludovisia” come detta l’inciso della pietra: tre rustiche lesene a far da corona allo sgocciolare della semplice cannella e una rudimentale vaschetta in cui s’accoglie la nobile Acqua Marcia. Essa fu posta là a decorare uno dei primi squarci del tratto murario, necessità della nuova città e del nuovo traffico, ma prima ancora, addossata alla cinta Aureliana, faceva parte scenografica della vasta e perduta villa Ludovisi, oggi scomparsa o ridotta e arretrata fino al limite di via Boncompagni. Alcuni frammenti marmorei la decorano modestamente se non fosse per l’architrave quasi pomposo addossato alla nicchia più antica. Quasi non vista, come discreta, muta testimone di un tempo remoto, di piccole glorie nell’accavallarsi senza tregua di innumerevoli stagioni, essa rimane a parlarci di questa straordinaria città in cui tutto si perde e si ritrova, in cui i fasti marmorei s’accompagnano al rude laterizio e al frammento sconosciuto. Più in là, in un nicchione, campeggia un busto enorme in stile alessandrino cioè somigliante all’iconografia del mitico condottiero macedone, o forse di un dimenticato generale romano (Ezio? Belisario?), anch’esso una volta a far da fondale glorioso della perduta villa Ludovisi.

Una piccola avventura, una affettuosa indagine, per chi ama cercar piccoli tesori nell’ esplorare l’infinita ricchezza che a tutti dispensa la Città delle Città

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L’edificio concepito da Cesare e realizzato da Augusto

I teatri romani, pur ricalcando nelle grandi linee i teatri greci, se ne distinsero per alcuni caratteri come l’ubicazione – principalmente nei centri urbani o immediatamente fuori le mura costituendo una funzione di raccordo nello spazio urbanizzato – ma anche per la necessità di essere progettati fin dall’inizio sia sotto l’aspetto architettonico sia tecnico-strutturale.

Il teatro romano si qualifica come un’architettura caratterizzata, dunque, sia da un’immagine di spazio interno spesso molto racchiuso in sé, sia da un’immagine esterna che è partecipe della scena urbana; la veste architettonica copre di conseguenza un ruolo di notevole importanza e la fastosità della decorazione diventa un modo per commisurarsi al prestigio della città. Si utilizzano marmi pregiati e graniti per i rivestimenti, si realizzano decine di statue per abbellire atri e deambulatori, si completano gli spazi esterni con giardini, fontane e portici; sulla scena si creano architetture bellissime, ricche di movimento e giochi di luce.

Per la ripartizione del pubblico si progettano una serie di percorsi, ambulacri e scale ricavati nello spazio sottostante la cavea e coordinati con la trama strutturale dell’edificio; questi percorsi fanno capo ai vomitoria (ingressi secondari) che davano accesso alla cavea stessa, oppure in alto a un portico anulare con colonne, costruito sulla sommità della cavea come elemento formale di conclusione dell’architettura.

Solitamente,per la distribuzione del pubblico, si realizzava anche un corridoio anulare a metà cavea unitamente a una serie di scale radiali che definivano i vari settori di posti.

La costruzione del Teatro di Marcello, iniziata nel 46 a.C. da Giulio Cesare, fu portata a termine dall’Imperatore Augusto che volle dedicare l’edificio al nipote Marco Claudio Marcello, figlio di Gaio Claudio Marcello e di Ottavia sorella di Augusto.

Nato nel 42 a.C. e sposo di Giulia figlia di Augusto nel 25 a.C., Marcello, che era nipote e genero dell’Imperatore e nel quale erano riposte le speranze della dinastia giulio-claudia, a soli 19 anni nel 21 a.C. muore in circostanze misteriose a Baia. Una statua d’oro fu posta nel teatro durante la fastosa cerimonia d’inaugurazione svoltasi secondo alcuni autori nel 13 a.C., secondo altri nell’11 a.C.. Restaurato sia da Vespasiano, sotto il quale fu completamente rifatta la scena che da Alessandro Severo, era probabilmente ancora in funzione nel V sec. d.C.

La ricostruzione planimetrica dell’edificio teatrale, del quale è ignoto il nome dell’architetto progettista, si completa con alcuni frammenti della Pianta Marmorea Severiana su uno dei quali – il frammento relativo al settore post scaenam – sono rappresentati 4 edifici di piccole dimensioni e d’incerta interpretazione per i quali si è proposta l’identificazione con il tempio della Pietà e il tempio di Diana, preceduti dalle rispettive are, che le fonti letterarie localizzano in questa zona, e che probabilmente furono demoliti da Giulio Cesare per recuperare lo spazio necessario alla costruzione del teatro.

La scelta del luogo non fu casuale perché l’edificio si eleva proprio nell’area che la tradizione secolare aveva consacrato alle rappresentazioni sceniche dove si trovava il Theatrum et proscenium ad Apollinem, la più antica cavea teatrale collocata in asse con il Tempio di Apollo Medico. Il Teatro di Marcello fu costruito nella zona che, secondo il riordinamento urbanistico di Roma operato dall’Imperatore Augusto, fu la regione IX, all’estremità orientale del Circo Flaminio tra il Campidoglio e il Tevere, oggi compreso tra Via del Teatro di Marcello, Piazza di Monte Savello, Via del Portico di Ottavia e Piazza Montanara. Sugli interventi edilizi che Augusto predispose nel settore meridionale del Campo Marzio siamo ampiamente documentati dalle fonti letterarie, le quali ricordano il restauro delle opere architettoniche esistenti e la costruzione di nuovi complessi monumentali. Va comunque rilevato che, durante il principato di Augusto (30 a.C. -14.C.), al di là dei programmi pianificati per la pianura tiberina,ci furono delle calamità naturali: si ricordano, di fatto, otto inondazioni del Tevere e nove incendi, nel periodo compreso tra il 31 a.C. e il 15 d.C., che resero necessario il finanziamento per vaste operazioni di restauro.

Nella programmazione topografica e urbanistica di quest’area si ritrovano i temi più diffusi della politica urbanistica augustea, le architetture per lo spettacolo: precisamente, nell’arco cronologico compreso tra il 29 a.C. e l’11 d.C., furono costruiti l’Anfiteatro di Statilio Tauro, il Teatro di Marcello e il Teatro di Balbo, monumenti con una forte incidenza sull’opinione delle masse cittadine, essendo promotori di vita sociale e urbana più controllabile in queste strutture accentrate.

Esempio grandioso di architettura romana per la perfezione delle forme e l’armonica composizione degli spazi, il Teatro di Marcello campeggia tra le moderne costruzioni dell’attuale situazione urbana circondata da un’area archeologica dove si possono osservare, in deposito sul prato, pregevoli gruppi lapidei che rievocano i fasti dell’epoca: sono resti di fregi che, a dispetto delle mutilazioni e dell’estraneità al contesto in cui sono collocati e dell’impossibilità a ricollocarli nella giusta posizione, si ammirano egualmente nella loro antica bellezza.

Dei tre teatri stabili del Campo Marzio meridionale, il Teatro di Marcello è il meglio conservato e l’unico ancora leggibile nella sua unità; innalzato su una grande platea di calcestruzzo sotto la quale una palificata di rovere comprimeva il terreno argilloso, fu costruito su tre ordini architettonici: dorico, ionico e corinzio.

Costituito da ambulacri semicircolari ai quali accedeva il pubblico attraverso gli ingressi, fu concepito come edificio a sé stante e realizzato secondo i dettami vitruviani con una cavea semicircolare divisa in settori, orchestra semicircolare, portico in alto a chiudere la cavea, la scena con le tre porte e fondali o trigoni. Si è calcolata una capienza di circa quattordicimila spettatori, un diametro di circa m. 150 e un’altezza probabile di m. 32.

La facciata esterna della cavea, realizzata in travertino, conserva parte del primo ordine dorico, con un ambulacro coperto da una volta a botte anulare, e parte del secondo ordine ionico con un ambulacro coperto da una serie di volte radiali.

Del terzo ordine non rimane nulla e incerta è la sua ricostruzione anche se, per il Fidenzoni, l’edificio teatrale doveva terminare con un attico chiuso decorato da paraste corinzie delle quali si sono ritrovate alcune parti. La scena era fiancheggiata da due sale, riconoscibili sulla planimetria Severiana: di quella disposta ad est sono ancora visibili un pilastro e una colonna.

Il deambulatorio interno e i muri radiali del teatro sono in opera quadrata di tufo per i primi dieci metri, mentre nella parte più interna fino all’unghia della cavea i muri radiali sono in opera cementizia con un rivestimento in reticolato di tufo; le parti interne degli ambulacri sono in laterizio e le volte sono realizzate in opera cementizia. Nel vano terminale del corridoio radiale di centro, l’intradosso della volta conserva ancora parte della decorazione figurata con stucchi bianchi ripartiti in tondi e ottagoni, inquadrabili cronologicamente all’età antonina; questa decorazione ha fatto pensare che potesse trattarsi o di un sacello dedicato ad una divinità fluviale o infera, oppure di un sacrario dedicato agli Dei Mani di Marcello.

Gli unici elementi decorativi della facciata erano delle maschere teatrali scolpite a tutto tondo  di enormi dimensioni, in marmo bianco prevalentemente lunense, recuperate in frammenti durante gli scavi degli anni Trenta. Esse riproducono in proporzioni molto maggiori del vero le maschere che gli attori indossavano durante le rappresentazioni sceniche, caratterizzate da tratti fortemente accentuati ed espressivi oltre che da una bocca smisurata che è il tratto più notevole della fisionomia della maschera antica.

Originariamente fissate alla chiave d’arco del primo e del secondo ordine dei fornici, mediante perni di ferro alcuni dei quali ancora in situ, dovevano essere ottantadue. L’esame e la ricomposizione dei frammenti consentono il riconoscimento di tre tipi scenici:

tragico, satiresco e comico; alcune di queste bellissime maschere monumentali dopo il restauro sono state collocate in esposizione permanente presso il secondo piano del Teatro Argentina, dove continuano a svolgere la loro funzione metaforica e decorativa, ma soprattutto ad affascinare.

Il significato simbolico e magico che la maschera comporta, allo stesso tempo agli occhi di chi l’indossa e di coloro che è destinata a impressionare, ne fa un oggetto essenzialmente adatto a tradurre (ma all’inizio a provocare) il sentimento di malessere e di commozione che risulta dalla manifestazione del soprannaturale e dall’ambiguità inerente a queste manifestazioni, tenuto conto che per gli Antichi il soprannaturale non è estraneo ed esteriore alla natura, ma la penetra intimamente” (Henri Jeanmaire).

La documentazione archeologica, i frammenti della Pianta Marmorea Severiana e alcuni disegni rinascimentali contribuiscono a ricostruire la pianta del Teatro di Marcello della quale vi sono due diverse ipotesi limitatamente al post scaenam: la maggior parte degli studiosi, sulla base di un frammento della planimetria Severiana ritiene che lo spazio posteriore alla scena fosse delimitato da un grande muro a esedra che proteggeva il retroscena dalle frequenti inondazioni del Tevere. Diversa  la ricostruzione planimetrica proposta dal Fidenzoni, per il quale il retroscena era chiuso a sud da un semplice muro.

Il Teatro di Marcello presenta una struttura chiara nella parte utilizzata fin dal X/XI secolo come fondamenta della roccaforte delle famiglie che si avvicendarono al dominio della zona circostante.

Secoli di abbandono sono quelli dell’età medievale: intorno all’anno 1000 la famiglia dei Pierleoni stabilì la propria dimora-castello sulle rovine del teatro e, nel XIV secolo, un esponente dei  Savelli subentrato ai Pierleoni eseguì i primi lavori di restauro che si concretizzarono, come ancora oggi si può vedere, con la trasformazione nel XVI secolo dell’antica dimora in palazzo residenziale a opera di Baldassarre Peruzzi che rispettò pienamente le strutture antiche.

Alla morte del principe Giulio Savelli, ultimo discendente della famiglia, il palazzo fu acquistato dalla famiglia Orsini che lo ampliò e restaurò. Negli anni Trenta il teatro, divenuto proprietà del Comune di Roma, che aveva acquistato dalla duchessa di Sermoneta la parte del piano terreno adibita a carbonaie e magazzini, fu liberato dalle costruzioni adiacenti e ne furono messe in luce le antiche strutture degli ambulacri, consentendo una buona lettura dell’edificio.

Contestualmente furono eseguiti il restauro ed il consolidamento delle strutture, risarcendo le murature antiche per lo più con lo stesso paramento in sottosquadro.

Le parti di stucco cadute furono ricollocate sulle volte, si ripristinarono i gradini dove erano conservate le impronte e le ricostruzioni di strutture di una certa mole con funzione portante furono eseguite in mattoni.

La Commissione Storia ed Arte Antica responsabile dei lavori di restauro e consolidamento del Teatro di Marcello aveva autorizzato la costruzione di tutte le murature necessarie, come le pareti, i pilastri e i sottarchi,approvando anche la realizzazione degli speroni, indispensabili per dare solidità al complesso del monumento e del Palazzo Orsini, ma il problema si pose per il grande contrafforte occidentale del teatro, composto di archi e pilastri e sul quale i componenti della Commissione di Storia ed Arte Antica erano in disaccordo. Fu approvato comunque il progetto dell’ingegnere Giovenale di utilizzare la pietra sperone di Montecompatri che rispondeva alle esigenze fondamentali  di stabilità più che al senso estetico, in quanto si utilizzava una pietra di colore scuro con sfumature giallo-verdastre del tutto estranea ai numerosi materiali utilizzati nel teatro e nei monumenti adiacenti.

 01 Teatro di Marcello Maschera decorativa 01 Teatro di Marcello

Un restauro di qualità

In Piazza del Popolo, capolavoro neoclassico del Valadier, a fianco dell’inizio di via del Corso sono presenti due chiese all’apparenza identiche ma in realtà con differenze all’interno e all’esterno. Ambedue sono state costruite, a pochissima distanza di anni, nella seconda metà del ‘600 originariamente su progetto di Carlo Rainaldi ma poi con intervento di altri architetti tra cui Bernini che lavorò nell’interno e nella cupola di Santa Maria in Montesanto mentre l’altra, Santa Maria dei Miracoli, è attribuita al Rainaldi e Carlo Fontana.

La chiesa di Santa Maria in Montesanto, più nota come Chiesa degli Artisti per gli eventi, per lo più funerali, che riguardano esponenti del mondo dell’arte, fu iniziata nel 1662, fu oggetto dell’intervento del Bernini nel 1671 e terminata nel 1679. Ebbe il nome di Montesanto da quello di una chiesetta preesistente officiata dai Carmelitani.

Esternamente mostra un pronao con quattro colonne, un timpano ed una balconata con otto statue di santi in travertino, la cupola è dodecagonale, l’interno è ellittico, nelle nicchie della cupola si trovano quattro statue di santi in stucco, le cappelle sono decorate con quadri e affreschi di vari artisti. Particolarmente interessante la Cappella Monthioni con una pala con Vergine, Bambino e Santi di Carlo Maratta, sui lati un’Apparizione della Vergine di Luigi Garzi e la Carità di San Giacomo di Staier, la volta è affrescata da Giuseppe Chiari; attiguo un piccolo locale decorato dal Baciccio.

Il tempo, la falda freatica e le inondazioni del Tevere nel corso dei secoli hanno provocato seri danni all’edificio riparati più volte e non sempre con perizia; recenti restauri sono stati effettuati e sono ancora in corso.

A spese della Fondazione Sordi è stata ripristinata la sagrestia della Cappella Monthioni che ospita affreschi del Baciccio e un dipinto del Garzi, anche il pavimento in marmi colorati è stato riportato all’originale.

A cura della Bonduelle Italia, titolare della linea di verdure confezionate chiamate Gli Orti per l’Arte, è stato già completato il restauro della cupola, della sua cromia, degli intonaci, degli stucchi e ripulite le statue poste nelle nicchie; è in corso il ripristino del locale antistante la sacrestia di discreta altezza e con la volta contenente una grande Gloria di Angeli con strumenti della Passione attribuito, in maniera molto controversa, al Baciccio. Non è un affresco ma un dipinto a tempera particolarmente delicato e molto danneggiato da umidità e cedimenti; anche il pavimento attualmente ricoperto da un cotto lucido di almeno quaranta anni fa sarà ripristinato in stile con formelle marmoree. I vari restauri, effettuati e in corso, sono opera della ditta Pantone che annovera un’esperienza pluriennale nel campo.

L’intervento sulla chiesa è un ottimo esempio di una sinergia tra il pubblico e il privato, il primo coordina e dirige, il secondo, in una giustificabile ottica di promozione, finanzia.

La Bonduelle è stata coinvolta attraverso Fondaco, associazione che individua le opere d’arte bisognose d’intervento e interessa varie aziende invogliandole all’intervento; finora sono stati effettuati 45 restauri per opera di 43 aziende.

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Basilica di Santa Maria in Montesanto

Chiesa degli Artisti

Roma

Via del Babuino, 198

Tel. 06/3610594

Sito web

Visita virtuale

01 Roma Restauro S.M. Miracoli Veduta della Piazza del Popolo, Incisione di G.B. Piranesi, 1750 circa

01 Roma Restauro S.M. Miracoli 002 Assunzione della Vergine, Giuseppe Chiari 01 Roma Restauro S.M. Miracoli 003 01 Roma Restauro S.M. Miracoli interno 005

Un navigatore in Campidoglio

Thomas Fleming Day (1861-1927) è un navigatore nato inglese naturalizzato americano, assai popolare negli Stati Uniti quanto ignoto in Italia. Nel Maine, dove ha vissuto e operato, la sua figura è così nota da essere celebrata ogni anno con una regata, appunto il Thomas Fleming Day Trophy. Alcune sue imbarcazioni, come la Seabird, hanno costituito per anni il modello per una classe di imbarcazioni a vela, le ultime delle quali varate negli anni ’60 del secolo scorso. Infatti T.F. Day è stato navigatore, progettista navale, scrittore ed editore di una rivista all’epoca assai popolare: The Rudder, (il timone), che fonda nel 1890 e dirige fino al 1916, portando avanti l’idea che alla nautica d’altura si potessero dedicare anche i comuni mortali e non solo i ricchi armatori e gli industriali. La rivista si stampava ancora nei primi anni ’60 ed è ora consultabile in rete (1).

Si dirà: ma che c’entra Thomas Fleming Day con Roma? Ebbene, nel 1911 il nostro navigatore insieme ad altri due velisti, Frederick B. Thurber e Theodore R. Goodwin traversa l’Atlantico con una jolla di otto metri progettata da Day stesso, la Seabird, di cui abbiamo parlato. Pochi sanno che la barca, una volta toccata Napoli, ad agosto fece prua a nord per risalire il Tevere e arrivare a Roma, dove Day ritirò all’inizio di settembre due premi, uno offerto dal Re, l’altro dal Touring Club di Roma per il Prix de Rome, la regata velica Venezia – Napoli – Roma. Un avvenimento del genere ha lasciato traccia anche nei giornali italiani (sappiamo che parte del viaggio fu seguita dal Corriere della sera) e una ricerca d’archivio offrirebbe una nuova immagine dei rapporti tra yacht club italiani e americani ai primi del Novecento. Dal diario di bordo sappiamo che Day era latore di un saluto solenne del governatore del Maine al sindaco di Roma, Ernesto Nathan, e che fu ricevuto in Campidoglio con tutti gli onori; festeggiamenti che continuarono nei circoli nautici romani. Ringrazio anzi la Lega Navale per avermi messo a disposizione un articolo coevo, La crociera del Sea Bird, dove sono spiegati al lettore italiano i dettagli dell’impresa, analizzata con competenza dal corrispondente Cesare Santoro (2)

A un secolo di distanza, ci auguriamo che Roma si ricordi di Thomas Fleming Day intitolandogli una strada. A promuovere l’iniziativa potrebbero essere proprio i circoli nautici che all’epoca lo accolsero da campione.

Note:

(1)                                   http://archive.org/details/rudder01unkngoog

(2)                                   Lega navale: organo ufficiale della Lega navale italiana, annata 1911

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Cent’anni di Aviazione Navale

Quest’anno ricorre il centenario della costituzione dell’Aviazione Navale anche se questa non ha operato per tutto un secolo ma per una decina d’anni all’inizio e per i quasi ultimi trenta. All’alba del XX secolo si ebbero i primi tentavi di volo e ben presto il Regio Esercito e la Regia Marina organizzarono le prime attività sia con aerei che con dirigibili. Furono acquistati all’estero o costruiti in Italia i primi aeromobili e addestrati i primi piloti. Il 1913 è considerato l’anno di nascita in quanto fu costituito il “Servizio Aeronautico della Regia Marina” anche se già da alcuni anni il T.V. Mario Calderara aveva conseguito il brevetto di pilotaggio. In seguito la Regia Marina cominciò anche a studiare la possibilità di una pur primitiva portaerei e più tardi i suoi aeromobili ebbero il battesimo del fuoco nella guerra di Libia nel 1911. Successivamente la Regia Marina si dotò di dirigibili, idrovolanti ed aerei con i quali affrontò la I° Guerra Mondiale ampliando nel corso del conflitto le sue dotazioni con le quali si batté contro gli Austriaci con  numerose perdite in uomini e mezzi che valsero al Servizio Aereo della Regia Marina la concessione di una Medaglia d’Argento al Valore Militare. Nonostante la crisi economica e sociale del dopoguerra la Regia continuò nello studio di portaerei costruendo la “Giuseppe Miraglia” primo esempio di porta idrovolanti ma il 28 marzo 1923 fu costituita la Regia Aeronautica come Forza Armata autonoma a somiglianza della RAF, e nel 1947 della U.S. Air Force; ma queste due aviazioni ebbero una destinazione strategica mentre la Royal Navy e la U.S. Navy mantennero una quota di aerei da caccia, da ricognizione, trasporto, cacciabombardieri, aerosiluranti. Invece i vari responsabili della Regia Aeronautica, specie Balbo, riuscirono a far passare il concetto che “tutto ciò che vola è dell’Aeronautica” salvo riservare un certo numero di aerei alle Aviazioni per l’Esercito e per la Marina. Gli aeromobili pur con personale aeronautico erano posti a disposizione delle altre Forze Armate; si trattava di mezzi scadenti e di uso limitato, per lo più per ricognizione e soccorso; su di essi e sugli aerosiluranti trovavano spesso posto Ufficiali di Marina in qualità di Osservatori. Durante la II° Guerra Mondiale apparve molto grave la mancanza di portaerei, si tentò di adattare due piroscafi ma i lavori non giunsero a buon fine. Nel dopoguerra la Marina cominciò cautamente ad organizzare una sua Forza Aerea anche se una legge del 1956 stabilì che tutti gli aeromobili ad ala fissa di peso superiore a 1500 chilogrammi dovessero essere gestiti dall’Aeronautica. Fu accettata una situazione di compromesso per gli aerei antisommergibili costituendo reparti facenti parte organicamente dell’Aeronautica ma in uso operativo alla Marina e con equipaggi misti. Nello stesso tempo la Marina approfittava della legge sopra citata per dotarsi di una forza aerea ad ala rotante su vari tipi di elicotteri per diverse esigenze, basati in parte a terra in parte su navi di nuova costruzione con ponti adatti all’involo. Soltanto nel 1985 con l’entrata in vigore della porta aeromobili Garibaldi la Marina cominciò ad insistere per imbarcare aerei ad ala fissa riuscendo infine a disporre di aerei Harrier che possono operare anche con decollo e appontaggio verticale sistemandone alcuni a bordo della nuova portaerei Cavour, ammiraglia della Flotta, assicurando alla componente imbarcata, aerei ed elicotteri, una elevata capacità di impiego in differenti situazioni operative. Nonostante le ristrettezze di bilancio l’Aviazione Navale dovrebbe nei prossimi anni disporre di alcuni JSF 35 nella versione F 35 B a decollo corto e appontaggio verticale con cui migliorare la potenza della Flotta. Anche i nuovi elicotteri SH 90 A sostituiranno la linea di volo basata su AB 212 piuttosto datati. Sempre più ridotta quantitativamente in uomini e mezzi anche se sempre più efficienti la Marina continua ad operare al servizio dell’Italia come ha sempre fatto dal 1861 e con lei la di poco più giovane ma centenaria Aviazione Navale.

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