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Il naufragio di una speranza

 

È passato quasi un anno da quello che doveva essere il trionfo del buon senso nell’amministrare una città dalle ambizioni di metropoli e il Sindaco non ha ancora brillato per capacità uditiva sulle ragioni di buon governo, ma ha invece immediatamente deluso nel cambiamento per la gestione di un’oculata visione nell’impiego delle professionalità interne e non umiliarle con decine di consulenze esterne.

 

 

Una discontinuità sbandierata da Marino in contraddizione con le scelte organizzative del bene comune che doveva essere indirizzato al risparmio come politica monolitica della Giunta e non in ordine sparso per far felice pochi a discapito di molti.

 

 

Da una parte umilia i dipendenti dell’amministrazione capitolina con proposte di taglio degli stipendi, intaccando i salari accessori di una busta paga ferma da 5 anni, dall’altra foraggia i numerosi membri di staff e commissioni con conteggi magnanimi di ore di straordinario, si diletta con gli effetti speciali dell’augusteo Piero Angela e regala una “copertina” ad uno dei più tristi siti istituzionali presenti sulla Rete.

 

 

Saranno in pochi a poter “godere”, visto l’asticella posta così in basso, gli 80 euro di Renzi, probabilmente le fasce basse che hanno straordinari alloggi di servizio e casette in campagna per la vendemmia e la raccolta delle olive, certamente non gli insegnanti e le fasce medie del pubblico impiego.

 

 

Delude anche negli spettacolari annunci di pedonalizzazione di un’area centrale e caotica della città, ottenendo una minima riduzione del traffico per esaltare il patrimonio artistico, ma impoverendo di strumenti di valorizzazione i tecnici, trasformando la cultura in una pratica amministrativa.

 

 

La meta del 20% di traffico privato in meno sembra ben lontano dall’essere raggiunto se non nelle giornate di blocco dei veicoli più inquinanti.

 

 

I Fori Imperiali, da piazza Venezia al Colosseo, potranno godere della tanto agognata pedonalizzazione dal 18 aprile fino alle 19 del 4 maggio, grazie alla concomitanza di una serie di eventi: la Pasqua il 20, il Natale di Roma il 21, l’anniversario della Liberazione il 25 e soprattutto ai pellegrini che affluiranno nella città eterna per assistere alla canonizzazione di ben due Papi – Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II -, decisamente importanti per l’economia della nostra città, che punta al turismo religioso, culturale e congressuale”.

 

 

Implementare l’uso delle biciclette da parte del Sindaco di Roma è ammirevole, ma dovrebbe concentrarsi di più sul potenziamento del trasporto pubblico e della sua pulizia, sulle umiliazioni subite dagli ammalati parcheggiati su miseri lettini in attesa per giorni di essere ricoverati magari solo per degli accertamenti.

 

 

Non è certo la nuova ripavimentazione di una piazza come quella di Mastai che può definire l’impegno di un’amministrazione per la vivibilità, ma potrebbe essere un primo passo per continuare. Piazza Mastai vive una presenza marginale nella città, nonostante la sua collocazione centrale, come le persone che vi trovano rifugio dagli sguardi indiscreti dell’umanità di viale Trastevere. Passare da una pavimentazione a sanpietrini a una di lastroni che subito hanno espresso tutta la loro fragilità e instabilità, per poi optare per la recente pavimentazione mista è solo una dimostrazione della fragilità degli interventi in una città da vivere con più accoglienza. Un’accoglienza che a piazza san Cosimato non sembra conoscere da anni. Da quando si è scelto di intervenire con una colata di cemento che ha trasformato la piazza di un unico piano a una di vari livelli e superfici inclinate, con una pavimentazione in perenne manutenzione.

 

 

La stessa sorte è toccata a viale dei Colli Portuensi che già con le precedenti Amministrazioni doveva diventare un boulevard, ma la nuova pavimentazione, in sostituzione dell’asfalto sui marciapiedi con del lastricato, già mostra i sui limiti di una messa in opera frettolosa e distratta, offrendo la visione di un piano di calpestio sconnesso, senza portare alcun miglioramento nella viabilità.

 

 

Viale dei Colli Portuensi rimane intasato da parcheggi selvaggi in doppia fila, davanti ai passaggi pedonali e occludendo gli spazi riservati alla fruizione del trasporto pubblico.

 

 

Non serve spendere tanti euro se poi non vi è una manutenzione come dimostra l’abbandono in via dei Quattro Venti degli “angoli” di sosta per i pedoni, perennemente assediati da motorini e rifiuti.

 

 

Lo spettacolare assetto dell’area alle pendici dell’Aventino con la sistemazione del percorso pensile di Raffaele de Vico permette di ricollegare la sommità del Colle con il Lungotevere, ripercorrendo la storia di Roma antica, con le testimonianze delle mura Serviane, le fortificazioni medioevali e i resti dei mulini e dei magazzini lungo il Tevere, per scendere e salire dal Giardino degli Aranci e poi trovarsi in un’isola nel marasma del traffico.

 

 

Una mosca bianca rimane anche la fluida passerella che collega con un elegante salto sul Tevere la riva di viale Marconi con quella dell’Ostiense che aspetta le necessarie infrastrutture per un accesso diretto sulla via che oltre a collegare porta san Paolo con la Piramide alla basilica di san Paolo accoglie ilMuseo Montemartini, gli ex Mercati Generali in attesa del loro recupero e l’università Roma Tre.

 

 

Anche l’area di Porta Portese attende un vigoroso restyling, promesso da tempo, ma per ora si è liberata solo dagli orpelli murari la struttura del capannone dell’Autoparco del Corpo di Polizia Municipale dell’ex autoparcoper il suo recupero e rifunzionalizzazione in Centro culturale multifunzionale per essere gestito dal Rialto Sant’Ambrogio. Mentre nell’area dell’ex Arsenale pontificio sono timidamente iniziati i lavori di recupero del primo edificio a ridosso all’omonima porta, probabilmente destinato ad ospitare la donazione dell’archivio Zeffirelli.

 

 

Un recupero quello di Porta Portese che potrebbe avere un’immediata e visibile realizzazione con lo spostamento del fetido parcheggio dell’Ama e del poco decoroso chiosco bar addossati alle Mura.

 

 

Sembra che ogni Amministrazione viva nella cecità dell’ovvio come per esempio programmare un intervento senza prevedere gli interventi successivi o realizzare piccole operazioni con minimi impegni finanziari che migliorerebbero non solo la qualità della vita della cittadinanza, ma soprattutto migliorerebbe l’immagine di Roma ai turisti.

 

 

Non solo opere urbanistiche, ma anche di decoro per restituire a Roma quella dignità persa da tempo e offrire a chi vi abita e a chi vi soggiorna momentaneamente le informazioni utili per vivere anche culturalmente la città. Una miriade di realtà museali che vengono ignorate dai turisti e dagli stessi romani per una scarsa se non inesistente informazione sul patrimonio dei grandi come dei piccoli musei. Non basta classificare il museo secondo quello che espone, ma anche ciò che propone per una lettura delle opere nel contesto della città.

 

 

Non sempre impegnare considerevoli somme di euro garantisce la buona riuscita di un progetto, come ingaggiare consulenti esterni lautamente ricompensati per guidare strutture amministrative e tecniche assicurando una maggior efficienza del servizio.

 

 

Sindaco non tergiversi! Non disattenda le promesse fatte durante la campagna elettorale, risparmi sui compensi dei consulenti esterni e dia una definitiva strutturazione a quei servizi preposti alla conservazione e promozione del patrimonio capitolino.

 

 

Non è sufficiente bonificare l’area del mercato del Testaccio per essere convertito in spazio ricreativo attrezzato.

 

 

Paolo Conti, con il suo recente libro, viene in aiuto al sindaco con alcuni suggerimenti, 101 suggerimenti, per rendere la città da vivere e non da subire.

 

 

Mancano gli spazi per vivere, come dimostrano le oltre 60 occupazioni di ex fabbriche e residence, e ancor di più per la creatività, cosa che sembra superata a Milano con il Bando per gestire uno spazio a via Novara 75 come una Factory creativa. Un’iniziativa che cerca di colmare il vuoto legislativo nell’applicazione del Decreto Valore Cultura, nell’ambito delle grandi proposte per l’assegnazione a artisti di immobili pubblici inutilizzati. Un luogo dedicato alle varie arti visive, non solo pittura o scultura, ma musica, teatro, cinema, danza, moda, design.

 

 

Nove milanesi su dieci, il decimo è un leghista con un pensiero poco influente, appena arrivati a Roma esaltano il clima e il cielo azzurro, ma il giorno dopo inveiscono sul trasporto pubblico anarchico come anarchico è il parcheggio praticato. Per migliorare la città e la qualità della vita è anche necessario intervenire sul parcheggio che deturpa l’area del Gianicolo, pur esistendo un ampio e accogliente parcheggio sotterraneo realizzato per il Giubileo del 2000.

 

Lo storico Tomaso Montanari in un recente scritto ricordava che “Nel 1309 la costituzione di Siena diceva che il compito dei governanti è quello di proteggere «massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini». Negli stessi anni, Dante scriveva che accanto alla lingua delle parole, in Italia ce n’è un’altra: quella di Cimabue e Giotto. Oggi gli storici dell’arte hanno un disperato bisogno di riscoprire questa dimensione comune, civile, politica nel senso più alto di una disciplina che ha finito per identificarsi con il lusso, l’evasione leggera e il ‘tempo libero’”.

 

 

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1977: il tramonto di un’epoca fra movimenti e violenza

Questo articolo vuole introdurre la necessità, sia nella comunità degli storici, sia nell’azione formativa ed informativa verso l’esterno (soprattutto le nuove generazione), di rafforzare la ricerca sullo spaccato di storia italiana contemporanea che nella seconda metà degli anni Settanta del Novecento fu caratterizzato dalla dissoluzione dei “Gruppi della Nuova Sinistra” (Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia, ecc.) e dall’emergere del fenomeno di nuova contestazione sociale meglio noto come il Movimento del ’77.

Quest’ultimo si sviluppò in un quadro caratterizzato dalla grave crisi economica interna ed internazionale esplosa con lo shock petrolifero del 1973 e dai durissimi provvedimenti dell’allora governo Andreotti, in particolare quelli che tagliavano i punti di contingenza (Scala Mobile) e bloccavano la contrattazione articolata fra sindacati e aziende. A questi si aggiunsero il decreto Stammati sui tagli alla pubblica amministrazione e la contestatissima circolare Malfatti sull’Università. Anche il travagliato dibattito sulla legge in materia di aborto contribuì, come i provvedimenti succitati, ad alimentare una situazione di forte malcontento, aggravata dalle pesanti ristrutturazioni, in termini di tagli occupazionali, che avvenivano nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro (come si vede, tutti temi che non sono per niente usciti dall’agenda della politica italiana).

Il malcontento crebbe anche a causa delle scelte del Partito Comunista Italiano e del Sindacato: il primo, attraverso la politica delle astensioni rispetto ai provvedimenti governativi, inaugurò la stagione del compromesso storico con la Democrazia Cristiana; il secondo inaugurò la stagione dei sacrifici e della moderazione salariale e rivendicativa.

Far riemergere la memoria su quel periodo significa quindi analizzare tutta la parte dedicata al rapporto fra i movimenti di contestazione che esplosero nel 1977 ed i gruppi della nuova sinistra che si stavano frantumando. In effetti, la storia di Lotta Continua, così come quella di Potere Operaio è stata in una certa misura analizzata, anche se c’è ancora molto lavoro da fare, mentre più ridotta è la produzione sulle altre organizzazioni extraparlamentari. Manca invece un’analisi puntuale proprio sulla fase di dissoluzione di queste esperienze, nonostante l’estesissima quantità di fonti di ricerca sui movimenti e le organizzazioni extraparlamentari degli anni ’70. Generalmente le ricerche si sono occupate di investigare sulle cause e sui processi che hanno portato all’esaurirsi delle esperienze della nuova sinistra, interrogandosi se sia stata la crisi del “partito rivoluzionario” a provocare l’esplosione dei nuovi movimenti o viceversa.

Su quello che la storica Maria Luisa Boccia[1] ha chiamato «movimento degli invisibili» l’interesse storiografico è ancora sostanzialmente agli inizi. Alcuni storici (per esempio Guido Crainz e Marco Grispigni[2])evitano di schiacciare il fenomeno sulla pratica della lotta armata (alla quale è comunque intrecciato), ne sottolineano la nuova composizione sociale (studenti-lavoratori, precari sia della piccola industria, sia del terziario, donne), e culturale, le differenze/divergenze interne (soprattutto fra l’area dell’Autonomia ed il resto del movimento in merito alla questione sull’uso della violenza), il ruolo dello Stato come protagonista della militarizzazione del conflitto sociale in quel periodo, la totale chiusura istituzionale, ed in particolar modo del Partito Comunista, al dialogo col movimento. Alcuni vanno oltre: il ’77 non fu solo l’epilogo del decennio dell’azione politica collettiva aperto dal ’68, ma al tempo stesso fu l’anticipatore di un processo che, anche attraverso profonde innovazioni culturali e di linguaggio (si pensi per esempio agli indiani metropolitani) svelò l’obsolescenza e l’inutilità degli strumenti della politica dei partiti e di quest’ultimi denunciò l’occupazione non solo e non tanto delle istituzioni, quanto della società. Una tesi condivisa anche dalla Boccia, che parla di «canto del cigno» della politica, esemplificato proprio dallo scontro fra il movimento del Settantasette e le organizzazioni politiche e sindacali della sinistra. Quindi, proprio perché questo movimento non fu tanto e solo l’espressione di figure sociali determinate, ma anche portatore di un modo di rappresentare la storia e la società italiana, fenomeni come la centralità data dal movimento al soddisfacimento dei bisogni e desideri delle persone, così come la ricerca della felicità, non vanno intese esclusivamente come provocazioni anti-politiche (si pensi al “diritto al lusso”), ma soprattutto come il tentativo di affermare una politica altra, dentro la quale ridefinire sia il rapporto fra individuo e collettività, sia un nuovo concetto di militanza. Su questo diventa estremamente interessante analizzare il comportamento della redazione del quotidiano “Lotta Continua”, che per il biennio successivo allo scioglimento ricoprì la funzione di organizzatore collettivo delle residue energie individuali che non volevano completamente “sciogliersi” nel movimento. Se in una prima fase il giornale sostenne ed alimentò allo stesso tempo sia la rottura, anche violenta, con la sinistra istituzionale (tanto da essere accusata di essere vicina alle posizioni dell’Autonomia), sia la creatività irridente del movimento, proprio con il crescere della violenza di piazza, e poi con l’escalation terroristica, pian piano si orienta  su un repentino dietro-front, non senza forti lacerazioni al suo interno (in particolare fra la corrente legata ai Circoli e quella legata a Enrico Deaglio e alla redazione di Roma).

L’approfondimento di questa ricerca, per esempio, ci potrebbe permettere di chiarire meglio la complessità del rapporto della sinistra extraparlamentare con la violenza e la lotta armata, un altro nodo “scoperto” della storiografia, superando quella facile e superficiale dicotomia fra chi nega qualsiasi continuità fra la dissoluzione di Lotta Continua e il terrorismo, e chi invece ne afferma la strettissima dipendenza, quasi che ci fosse stato un travaso automatico di adesioni dall’una all’altro. In realtà la situazione è, come al solito, molto più fluida e più complessa, e meriterebbe un maggiore studio ed approfondimento. Lo storico Marco Revelli[3] nega un’ininterrotta continuità fra movimento studentesco, sinistra rivoluzionaria e terrorismo. Egli periodizza in tre parti la storia del rapporto fra movimenti e violenza: una prima parte, durata fino alla strage di Piazza Fontana, in cui la violenza aveva una dimensione “espressiva” (parafrasando De Andrè, ci si limitava all’invettiva); una seconda, a partire proprio dall’attentato del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura, in cui, a causa dell’innalzamento delle azioni da parte dei fascisti e della militarizzazione delle piazze da parte della polizia, si teorizza una violenza “difensiva” e si strutturano i servizi d’ordine; una terza fase, in cui il riflusso del movimento lascia campo libero alle organizzazioni armate. Ma se, come scrive Anna Bravo[4], la definizione di anni ’70 come “anni di piombo” può dare conto del dolore e degli spargimenti di sangue, essa «ignora altre facce del movimento del ’77 e quel che rappresentano: sangue risparmiato – le radio libere, l’ala creativa dell’autonomia, il valore dato al gioco, le imprese degli indiani metropolitani, le comunità che si ricreano dopo il disfacimento di quella sessantottina, sono lavoro per la vita. Il che non rende la distruttività e l’eroina meno sopportabili, ma racconta una storia più vera». Ammettere che il ’77 sia stato un acceleratore del cosiddetto “terrorismo movimentista”, riconoscere l’internità e la contiguità dei e delle militanti di gruppi armati come Prima Linea nel movimento non può significare l’esistenza di un rapporto di continuità diretta fra movimento e lotta armata o lo schiacciamento su quest’ultima di esperienze vastissime e complesse come quella dell’Autonomia, e in parte della stessa area politica legata alla rivista Senza Tregua. Alla comprensione del tramonto di un’epoca e del sentire di un’intera generazione corrono in soccorso forse le parole di Luca Rastello[5]: «Avevamo così forte nelle viscere il malessere del mondo agonizzante che se ci fossimo armati di esattezza forse ne avremmo deciso noi le sorti. Ma ci bastava il linguaggio contorto e oscuro delle nostre emozioni».



[1]      M. L. Boccia, Il patriarca, la donna, il giovane. La stagione dei movimenti nella crisi italiana, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, II, Culture, nuovi soggetti, identità, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2003, pp. 253-282.

[2]      Cfr. G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli editore, Roma, 2005, pp. 566-577 e M. Grispigni, 1977, manifesto libri, Roma, 2006.

[3]      Cfr. M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, II, Einaudi, Torino, 1995.

[4]      Cfr. A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Editori Laterza, Bari, 2008, pp. 246-248.

[5]      Cfr. L. Rastello, Piove all’insù, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, pag. 155.


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Il Falerno: Il vino imperiale della Campania Felix

Le fonti letterarie e gli studi archeologici testimoniano la grande fortuna che la vite e il vino ebbero nel mondo antico attestando una profonda conoscenza sia di questa coltura che della vinificazione, ossia di quell’insieme di operazioni che prendendo il via dalla vendemmia, determinano la trasformazione dell’uva in vino. Fu sicuramente grazie al vino che la coltivazione della vite ebbe così grande successo e così grande espansione nel mondo, fin dai tempi più antichi questa pianta fu ritenuta un dono del cielo, ed il vino per le sue qualità straordinarie, per l’ebbrezza che procura, attribuito alle potenze superiori. Il vino divenne la bevanda collegata al culto degli dei ed alla celebrazione di eroi, poeti e artisti e gli uomini l’offrivano in omaggio alla divinità.

La vite fu consacrata a Dioniso o Bacco, dio della fertilità e della vegetazione, divinità che nei suoi culti più arcaici era il dio delle linfe “il sangue delle piante” che ad ogni primavera saliva dalla terra e resuscitava gli alberi. Anche il suo abituale colore rosso è stato associato al sangue e, di conseguenza, direttamente legato alla vita. E poiché la vita eterna era privilegio degli dei immortali, si è creduto che bere vino permettesse di diventare simili a loro.

In epoca romana e per lungo tempo i vini campani tra i quali l’insigne Falerno, furono lodati dai poeti e avidamente ricercati e consumati in tutte le regioni dell’Impero; da Ateneo a San Paolo si conveniva sulla necessità di bere moderatamente e sempre miscelato con acqua l’inebriante liquido che per i Cristiani poi divenne il sangue di Cristo nell’Eucarestia, assumendo un ruolo importantissimo nei banchetti cristiani.

Nei territori della Campania settentrionale in epoca romana si producevano molti vini pregiati ma il più celebre fu il vino Falerno, questo “frutto di Bacco” nasceva da una terra fertilissima da cui traeva il nome, l’ager Falernus, il campo Falerno, territorio al margine settentrionale della Campania antica, compreso tra il fiume Garigliano a nord e il fiume Volturno a sud, un territorio di grandissima importanza strategica per la posizione geografica di cerniera tra Lazio e Campania, caratterizzato da un litorale suggestivo e incantevole, con estese spiagge ricche di sabbia fine e dorata. Una terra straordinariamente fertile, con un clima favorevole e un terreno molto fecondo al punto che gli antichi la definirono Campania Felix, cioè felice, fortunata, ferace, per la produzione cerealicola e in particolar modo per la coltura delle famose viti, che secondo le fonti antiche furono introdotte dai popoli greci, gli Aminei della Tessaglia.

La pregevole qualità del vino Falerno era dovuta per di più alle particolari caratteristiche dei suoli di quest’area della Campania settentrionale, terreni asciutti e ben drenati, composti da calcari inframmezzati con terreni tufacei di origine vulcanica e alla esistenza di aree pedemontane il cui suolo è riscaldato dalla presenza di fanghi caldi e vene sotterranee di acque termominerali e solfuree dovute alla presenza del vicino complesso vulcanico di Roccamonfina.

L’agro Falerno si configurò come entità a sé nel 340 a.C. con la battaglia decisiva a Trifanum, località nella piana di Sessa Aurunca, vinta da Roma contro i Latini ed i Campani, diventando così ager publicus populi Romani e nella seconda metà del IV secolo se ne avviò il processo di romanizzazione con la deduzione di colonie e con la creazione delle tribù Oufentina e Falerna, la costruzione della via Appia nel 312 a.C. e in particolare con la fondazione della colonia marittima di Sinuessa nel 296 a.C.

Questo territorio in età romana fu celebrato per la produzione dei suoi vini ampiamente esportati con le navi sui mercati italici e mediterranei nei caratteristici contenitori anforici, le anfore Dressel, prodotte in grande quantità nelle fornaci ancora attestate nella zona, soprattutto tra la fine del I sec. a.C. ed il I sec. d.C. .

L’anfora, il contenitore a due anse, nel mondo antico è il recipiente più diffuso per il trasporto marittimo delle derrate liquide o semiliquide che venivano commercializzate, in particolare il vino, l’olio, il miele, la salsa da pesce: il celebrato garum.

La Campania negli scrittori antichi fu celebrata come la regione più fertile d’Italia, ad esempio da Cicerone (I sec. d.C.) acquisiamo: I campani sono sempre pieni di superbia per la fertilità dei campi e l’abbondanza dei prodotti, per la salubrità, la disposizione e la bellezza delle loro città. E’ da questa abbondanza, da questa profusione di beni d’ogni genere che deriva anzitutto quella presunzione che spinse Capua a chiedere ai nostri antenati che uno dei due consoli fosse campano (Cic. l. agr. 2,95).

In età romana i veri intenditori del vino Falerno erano in grado di distinguere ben tre varietà: la più rinomata era il Faustianun, prodotto sulla media collina; quello di alta collina, il Caucinum; mentre il vino di pianura aveva semplicemente l’appellativo generico di Falerno così come apprendiamo dallo storico e naturalista Plinio il Vecchio che ne identifica tre specie: austerum, dulce, tenue, lamentando pure che ai suoi tempi (I sec. d.C.) i coltivatori guardavano più alla quantità che alla qualità (Plin., N.H., XIV 6).

Al tempo di Plinio il Vecchio il mondo romano conosceva 185 tipologie diverse di vino, con prevalenza di vini rossi, ai quali di frequente venivano aggiunte anche sostanze aromatizzanti (resine ed erbe) o dolcificanti (miele); i più famosi erano quelli liquorosi ottenuti da uve sovra mature o appassite.

E’ molto probabile che i Greci abbiano introdotto nell’Italia meridionale tecniche specialistiche di coltivazione della vite, anche se con l’arrivo dei romani nel IV secolo a.C. ci furono le condizioni generali perché tale produzione, accompagnata da ottime infrastrutture, potesse essere commercializzata in Italia e in tutto l’Impero.

Come vino pregiato, il Falerno si è affermato nella tarda età repubblicana e sicuramente già agli inizi del I secolo a.C. era un ottimo vino se Plinio (N.H. XIV, 95) ci tiene a precisare che “ … i vini d’oltremare mantennero il proprio prestigio e questo fino al tempo dei nostri nonni, persino quando il Falerno era già stato scoperto …”. Marziale insiste sul colore nero e lo definisce immortale, il vino che invecchia, ma non muore mai; altri autori ne accentuano l’amarezza e l’asprezza del sapore.

Della qualità e della fama da esso raggiunta ne è prova anche il costo elevatissimo; la grande importanza economica del Falerno ben si coglie dalla viva testimonianza di alcuni graffiti pompeiani, su uno dei quali si legge:

Edone fa sapere: qui si beve per 1 asse; se ne paghi 2, berrai un vino migliore; con 4, avrai vino Falerno” (CIL IV 1679).

Il mondo romano conobbe un gran numero di forme vascolari destinate al vino: in terracotta, metallo e in vetro, legate alle varie operazioni come il contenere e l’attingere; questi contenitori furono esportati in tutto l’impero e spesso firmati dai bronzisti che li realizzavano per garantire la perizia tecnica delle officine romane, soprattutto italiche, tra le quali famose erano secondo Plinio quelle di Capua.

Il vasellame per il banchetto era spesso realizzato con materiali preziosi e veniva quindi ostentato come manifestazione di ricchezza del proprietario che li esponeva su credenze e tavoli.

Nei terreni collinari, asciutti e permeabili della provincia di Caserta nei moderni comuni di Cellole, Sessa Aurunca, Mondragone, Falciano del Massico e Carinola si produce ancora oggi questo vino dalle origini mitiche che è di grande interesse rievocare. Il mito racconta infatti che il dio Bacco proprio sulle falde del monte Massico, comparve sotto simulate spoglie ad un vecchio agricoltore di nome Falerno, il quale, nonostante la sua umile condizione lo accolse offrendogli tutto quanto aveva, latte, miele e frutta. Bacco, commosso, lo premiò trasformando quel latte in vino che Falerno bevve addormentandosi subito dopo. Fu allora che Bacco trasformò tutto il declivio del monte Massico in un florido vigneto.

In tempi recentissimi si è sviluppata tra i produttori vinicoli della zona una sensibilità rilevante nei confronti di questa memoria culturale che ha portato ad un deciso miglioramento qualitativo del vino, e poi al giusto ottenimento della Doc.

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Sulle tracce di una Repubblica dimenticata

 

 

Il bel museo delle memorie repubblicane inaugurato da un paio d’anni all’interno di porta San Pancrazio, corredato dalla cronistoria degli eventi dell’assedio francese del 1849, era il necessario promemoria per chi pur romano di nascita (ahimè!) ignora o trascura uno degli episodi più straordinari del nostro ormai negletto e declassato Risorgimento. Nei fatidici giorni del Giugno 1849 invece si consumò il sacrificio bello e inutile (se mai poi è inutile il sacrificio di chi muore per la libertà) di centinaia di giovanissimi volontari venuti da ogni parte d’Italia e d’Europa agli ordini di Garibaldi per difendere la bella utopia di una giovane Repubblica moderna e democratica.

Molti nostri concittadini che tra “footing” e “picnic” godono la bella villa Pamphili poco sanno di quei giorni gloriosi e dei fatti d’armi che proprio lì si svolsero. Proviamo allora a rifar quattro passi sulle tracce di quei giorni lontani, una doverosa archeologia patriottica consumata in poche centinaia di metri. Entrando a villa Pamphili dall’ingresso principale vediamo troneggiare subito sul colmo della collina il mastodontico arco dell’architetto Busiri—Vici: pochi sanno che esso fu eretto sulle rovine del cosiddetto Casino dei Quattro Venti, una specie di forte Alamo perduto, ripreso e riperduto dai volontari repubblicani assaliti dai battaglioni francesi del generale Oudinot (accorsi a ripristinare il potere temporale di Pio IX intanto fuggito a Gaeta). Esiste una rarissima foto dell’epoca dove si vede l’antica palazzina ridotta tra fori di proiettili e cannonate a una specie di ragnatela muraria. Si deve dire che l’assalto notturno di sorpresa dei francesi si attuò penetrando da una breccia nel muro di cinta della villa più o meno all’altezza dell’odierno largo Grigioni, poco prima della piazzetta del Bel Respiro. Così pochi sanno che l’attuale porta di San Pancrazio, restaurata a suo tempo dal pontefice rientrato sulla sua Cattedra, è risorta sulle rovine della porta letteralmente crollata a forza di cannoneggiamenti sulla testa dei volontari garibaldini. Poco distante, sulla destra della porta d’ingresso, più o meno dove oggi è l’Accademia americana, era un terrapieno detto della Montagnola dove era acquartierata una batteria d’artiglieria che prendeva di mira i francesi che da villa Pamphili assalivano la porta, principale punto di forza delle mura gianicolensi. Gli artiglieri della Montagnola, si narra, si sacrificarono fino all’ultimo uomo quando furono aggrediti alle spalle dai francesi che nel frattempo erano penetrati da un’altra breccia (ancora oggi visibile dal tracciato dei mattoncini bianchi nel muro di cinta ricostruito) nell’attigua villa Sciarra. Poi sempre lì, in quei pochi metri, tra porta San Pancrazio e villa Pamphili, oggi residenza del Grande Oriente massonico,i resti della famosa villa del Vascello, eroico avamposto dei bersaglieri di Giacomo Medici, spina nel fianco all’irrompere dei francesi. Difficile immaginare l’impeto di quei giorni memorabili lungo quella strada oggi intasata dal traffico e dalle costruzioni di Monteverde laddove era solo, fuori dalle mura, campagna e vegetazione. Non bastano come muto promemoria i bianchi e cadaverici busti degli eroi disseminati sul Gianicolo o qualche palla di cannone rimasta incastrata qua e là.

Oggi forse si dovrebbe soccorrere la memoria di eventi così clamorosamente eroici eppur dimenticati con l’ausilio di spettacolari illustrazioni magari filmiche, un pò sulla traccia di queste improbabili rievocazioni pseudo storiche oggi in voga molto criticabili ma che con la pratica digitale dilatano ed eccitano l’immaginazione delle nostre platee. E qualcosa di simile è stata fatta, in piccolo, sulle pareti del rinnovato Museo della Repubblica Romana, a San Pancrazio, dove appaiono e si succedono personaggi ed eventi di quei giorni indimenticabili. Infine, promemoria lapidaria e preziosa, il testo integrale della Costituzione Repubblicana che lucidamente precorreva in quei tempi di repressione una società invece democratica e tollerante, è letteralmente inciso sul parapetto della passeggiata del Gianicolo, poco distante dall’enorme statua equestre di Garibaldi. Testo che varrebbe la pena di rileggere per intero per capire per cosa e per chi allora si lottava e si moriva: una specie di magnifico sogno, che di sogni spesso vive la migliore umanità, sogni poi che qualche magnifico pazzo realizzerà!

01 Roma da Conoscere Sulle tracce di una Repubblica dimenticata Arco dei Quattro Venti Il 3 giugno del 1849 garibaldini e francesi si contesero il possesso di villa Corsini01 Roma da Conoscere Sulle tracce di una Repubblica dimenticata Arco dei Quattro Venti villa1001 Roma da Conoscere Sulle tracce di una Repubblica dimenticata Porta san Pancrazio Porta_San_Pancrazio_Rome