- di Galliano Maria Speri –
Verso la metà del 2015 il giovane e brillante ricercatore Robin Carhart-Harris realizza un esperimento in cui dimostra che l’Lsd, una delle più note sostanze allucinogene, riesce ad attivare nel cervello umano connessioni del tutto inedite e questo schiude nuove possibilità alle neuroscienze e alla neurofarmacologia.
Questo potente strumento ci permetterà di indagare, da un punto di vista mai tentato prima, il funzionamento e le potenzialità del cervello ma anche di iniziare un percorso rivoluzionario nelle cure psichiatriche. Non si può però sottovalutare il rischio terribile che una sostanza così potente possa essere usata politicamente per il controllo sociale. L’argomento è riproposto da un libro di recente pubblicazione, “LSD. Da Albert Hoffmann a Steve Jobs, da Timothy Leary a Robin Carhart-Harris: storia di una sostanza stupefacente“, di Agnese Codignola.
L’Lsd, un allucinogeno che tutti conoscono o pensano di conoscere, viene sintetizzato per la prima volta il 16 novembre 1938 da Albert Hoffman, un chimico svizzero che lavorava alla Sandoz di Basilea. Cinque anni dopo, Hoffman ingerisce la nuova sostanza, la dietilammide dell’acido lisergico, e gli effetti complessivi sono così impressionanti da indurlo a una serie di accurate sperimentazioni su di sé e sui suoi collaboratori. Il chimico svizzero ritiene che la sua creatura sia uno strumento utilissimo, non solo per mettere a punto terapie farmacologiche da usare in psichiatria, ma anche per promuovere una nuova empatia tra gli esseri umani. Sfortunatamente, le cose sono andate in modo molto diverso, l’Lsd è uscito presto dai laboratori ed è finito sulle strade, imprimendo il suo marchio su un’intera epoca, tra progetti utopistici e sogni deliranti che finiranno con la messa fuori legge della sostanza e la fine delle sperimentazioni scientifiche. Negli ultimi anni, seppure con difficoltà, molti ricercatori hanno ripreso gli studi raggiungendo risultati estremamente interessanti nel campo della lotta alla depressione e all’alcolismo. Il “bambino difficile”, come Hoffman definì la sua creazione, passato da farmaco a droga, ha iniziato il percorso contrario, tanto che si comincia a parlare di “Rinascimento psichedelico”. Questo è l’argomento di un libro avvincente e ben documentato scritto dalla giornalista scientifica Agnese Codignola.
Clare Boothe Luce e l’Lsd
Quando si parla di Lsd di solito vengono evocate immagini di “figli dei fiori”, di comunità alternative che rifiutano il capitalismo e la società dei consumi, di guru che esplorano i recessi più insondabili della mente umana. Non si pensa certamente a una signora di mezza età, appartenente all’alta borghesia cattolica americana e con un ruolo importante nella guerra fredda come ambasciatrice USA in Italia, il Paese con il più grande partito comunista dell’Occidente. Eppure, Clare Boothe, è di lei che stiamo parlando, ha avuto un ruolo cruciale per la diffusione dell’Lsd negli Stati Uniti. Sia lei che suo marito Henry Luce, il potente editore di Life e Time, colgono ogni occasione per propagandare l’Lsd e cercare nuovi proseliti. È proprio un articolo di Time del 1954, intitolato Dream Stuff (La sostanza dei sogni), che apre la campagna in favore dell’Lsd, seguito da innumerevoli altri articoli che ospitano racconti di divi cinematografici e persone famose che lo avevano sperimentato. Il 10 giugno 1957 Life pubblica un lungo reportage di quindici pagine intitolato Cercando i funghi magici e firmato da Robert Gordon Wasson che ha viaggiato lungamente con sua moglie in Messico dove ha approfondito la conoscenza dei funghi magici usati dagli stregoni locali nelle loro cerimonie religiose per entrare in contatto con la divinità.
Nel descrivere gli effetti dei funghi, Wasson parla di “eliminazione delle barriere tra sé e il mondo” e di “fissione dello spirito”, ma non si limita soltanto a questo perché vuole capire la natura delle sostanze che provocano le visioni e quindi riporta negli Stati Uniti diverse varietà di funghi che vengono analizzati da esperti micologi. Il risultato è una spedizione scientifica in Messico che identifica diverse specie di funghi appartenenti alla famiglia delle Strophariacae e, in particolare, al genere Psilocybe. Poco dopo, proprio da questi funghi, verrà isolata la psilocibina, un allucinogeno con una struttura molto simile a quella dell’Lsd. Si rimane sorpresi dall’apprendere che Wasson non è un avventuroso giornalista con la passione per i viaggi e le scoperte, ma un banchiere anzi, è il vicepresidente della potente banca d’affari JP Morgan, sposato a una pediatra russa con una passione contagiosa per l’etnobotanica e i funghi in particolare. Un ulteriore contributo alla popolarità della nuova sostanza con effetti mirabolanti viene poi dato da famosi personaggi di Hollywood, notoriamente affetti da vari problemi psicologici e in cura da psichiatri e psicoanalisti. Il caso più eclatante è quello del popolare attore Cary Grant che non perderà occasione per lodare gli effetti benefici dell’allucinogeno che lo ha aiutato a conquistare una nuova e più equilibrata personalità. Nel 1966, il senatore Robert Kennedy difende di fronte alla Food and Drug Administration (l’ente americano che si occupa del controllo su medicinali e cibi) l’uso terapeutico dell’Lsd a cui sua moglie Ethel si sta sottoponendo ma, ormai, l’allucinogeno ha invaso università e città, causando diverse morti per cui l’allarme sociale ha raggiunto un punto tale che la sostanza verrà bandita negli USA l’anno successivo e, progressivamente, in tutto il mondo.
Il programma MKUltra della CIA
Quando gli americani entrano nel campo di concentramento di Dachau nel 1945 scoprono che i medici nazisti avevano somministrato mescalina a trenta prigionieri e ne acquisiscono la documentazione. Il responsabile degli studi sulla mescalina e l’Lsd nel campo era Hubertus Strughold, riuscito a fuggire negli USA dove era entrato nel programma spaziale statunitense e si era fatto apprezzare talmente tanto dalla NASA da essere definito “padre della medicina spaziale”. Qualche anno dopo, però, il suo nome compare nella lista dei criminali di guerra nazisti riusciti a fuggire negli Stati Uniti messa a punto dal Dipartimento per l’immigrazione. La neonata CIA capisce subito le enormi potenzialità delle droghe psicoattive e inizia immediatamente a studiarne l’uso. Il caso più sinistro è quello del carcere di Lexington, nel Kentucky, dove nel 1959 il dott. Harris Isbell sperimenta sui detenuti oltre ottocento droghe diverse, incluso Lsd, ecstasy e allucinogeni vari. In un esperimento, ai “volontari”, tutti neri, vengono somministrate per settantacinque giorni consecutivi dosi di Lsd con l’ordine preciso di “raddoppiare, triplicare e quadruplicare le dosi”. La CIA mette a punto anche un altro progetto per il controllo della mente denominato inizialmente Bluebird, poi Artichoke e, infine, MKUltra. Tra il 1954 e il 1963 l’Agenzia distribuisce Lsd a migliaia di cittadini scelti a caso, inserendolo in alimenti e bevande. Il progetto verrà chiuso nel 1967, dopo un ridimensionamento nel 1964, alcuni anni dopo la morte di Frank Olson, un ricercatore della CIA a cui era stato somministrato Lsd a sua insaputa e che, sconvolto dagli effetti, si era gettato dal decimo piano di un edificio. L’utilizzo dell’Lsd è stato oggetto di programmi specifici anche da parte del MI6, il servizio segreto britannico.
La “ego dissolution”
Secondo molti studi riportati dal libro, l’Lsd si è rivelato efficace nel trattamento dei malati terminali di cancro ed è stato sperimentato da molti specialisti in diversi periodi e contesti culturali perché consente a pazienti, che hanno pochi mesi o poche settimane di vita, di avere una esperienza così profonda da riorientare completamente le proprie emozioni. Un caso importante verso la fine degli anni ’60 è quello di Gloria, membro del gruppo di ricerca del dott. Stanislav Grof, che scopre di avere un tumore metastatico al seno e cade in uno stato di ansia e depressione molto gravi. Gloria accetta di essere sottoposta a un protocollo che prevede alcune sessioni di psicoterapia seguite dalla somministrazione di 200 microgrammi di Lsd, la stessa dose che viene utilizzata in pazienti psichiatrici. I risultati sono stupefacenti perché dopo una sola seduta nella paziente “paura, ansia e depressione sembrano dissolte, sostituite da un sentimento di empatia e di amore verso ciò che è stata tutta la sua vita e verso i suoi affetti più cari; la morte a quel punto, le appare come un passaggio a uno stato diverso, e come tale accettata”.
Risultati analoghi vengono ottenuti molti anni più tardi dal dott. Peter Gasser in Svizzera nel 2007, per cui un nutrito gruppo di psichiatri di fama lancia un appello per eliminare il bando contro l’Lsd e consentire la ripresa della ricerca sugli usi di questa sostanza in tutti i settori medici in cui si è rivelata utile. Usato in modo rigoroso e sotto controllo medico, l’Lsd riesce ad attivare aree prima inutilizzate del cervello che si mettono in comunicazione tra di loro, aprendo prospettive inimmaginabili che distruggono la vecchia identità e creano una “mente bambina” che guarda il mondo con occhi totalmente nuovi in un processo che è stato definito “ego dissolution”.
Distruggere l’attaccamento alla bottiglia dell’alcolista e aprirgli le porte di un mondo nuovo, come pure placare le ansie terribili dei malati terminali, è certamente uno splendido risultato ma, proprio sulla base dell’esperienza degli anni ’60, ci dovrebbe essere un’attenzione rigorosa e minuziosa affinché sostanze così potenti vengano usate in modo rigorosamente controllato per gli scopi medici per cui sono state create.
Se è vero che Steve Jobs ha dichiarato che l’uso dell’Lsd è stata una delle esperienze fondamentali della sua vita (ma affermazioni simili sono state fatte anche da scienziati e premi Nobel), questo non significa che chiunque provi gli allucinogeni diventi ipso facto un nuovo Steve Jobs o uno scienziato da premio Nobel.
Il libro di Agnese Codignola è molto ottimista sulle nuove prospettive che l’Lsd e le sostanze simili possono dischiudere alla mente umana e alle cure psichiatriche, ma trascura il pericolo molto concreto di un uso manipolativo degli allucinogeni, come avviene nel romanzo Il mondo nuovo di Aldous Huxley dove una droga ottimale e senza effetti collaterali chiamata soma placa problemi personali e rivolte politiche, lasciando tranquilli al potere i governanti del mondo
A proposito, Huxley non è uno “scrittore statunitense”, come viene definito a pagina 35, ma una delle colonne portanti dell’establishment britannico, nipote del grande biologo Thomas Huxley e pronipote, per parte di madre, di Matthew Arnold, uno dei principali poeti e critici letterari del periodo vittoriano.
Agnese Codignola
LSD Da Albert Hoffman a Steve Jobs, da Timothy Leary a Robin Carhart-Harris: storia di una sostanza stupefacente
(UTET pag. 270 € 19,00)
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Pubblicato il 10 luglio 2018
su Frontiere
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Il culto della personalità nel Novecento
Scrivere di comunismo e di culto della personalità oggi, quando si celebra l’apoteosi del modello unico neocapitalista (in equilibrio fra neoliberismo e sovranismo) può sembrare un lavoro scomodo. Eppure, mai come oggi è di stretta attualità, visto che sempre più spesso organizzazioni politiche collegiali, magari anche di tradizioni secolari, vengono sostituite nel consenso di massa da partiti personali oppure fortemente influenzate dalle cosiddette “personalità”. Si possono fare diversi esempi: dalla Francia di Macron, Le Pen e Melenchòn, all’Italia di Berlusconi, Renzi, Grillo e Salvini, fino agli USA di Trump, per non parlare della Russia di Putin. In questo contesto, alla luce del peso che il movimento comunista internazionale ha avuto nella storia del secolo scorso, sia nei Paesi dove è andato al potere, sia in quelli dove è rimasto all’opposizione o dove addirittura ha continuato ad essere perseguitato, la bella ricerca di Kevin Morgan (docente di Social Sci Politics alla University of Manchester, e studioso del movimento comunista britannico e internazionale) è particolarmente prezioso. Attraverso la consultazione e la selezione di un vasto elenco di fonti (raccolto in diversi archivi fra Parigi, Londra, Manchester e Mosca) e di una sterminata bibliografia, l’autore ricostruisce la storia di questo rapporto fra comunismo e ruolo della personalità nel Novecento, in un excursus che va dalla Rivoluzione d’Ottobre fino al movimento zapatista messicano di fine secolo. Attraverso i sette capitoli in cui è suddiviso il libro, Morgan scompone il fenomeno nel tempo e nello spazio. Cronologicamente vengono individuate quattro fasi specifiche: 1) il periodo rivoluzionario dal 1917 fino alla morte di Lenin nel 1924; 2) quello che va dalla metà degli anni Venti a quella degli anni Trenta, in cui il feticismo religioso di Lenin è ancora preponderante; 3) la vera e propria fase in cui esplode il culto della personalità, con l’ascesa e l’affermazione del culto della personalità di Stalin (1935-1956); 4) la fase post-staliniana, dal rapporto Khrushchev al “fenomeno Marcos”, passando per il culto di Mao e dei leader dei movimenti di liberazione asiatici. Ma Morgan declina anche in termini tematici il fenomeno, che non può essere ridotto solo a Stalin e allo stalinismo. Ecco che quindi egli affronta il tema del leader come incarnazione dell’importanza e del ruolo storico del partito, il segretario generale come garante supremo dell’unità e dell’integrità del partito e dalla sua comunità militante, fenomeno questo che appartiene a tutte le specificità nazionali del movimento comunista. Fu così ad esempio per il PCF di Thorez, per il CPGB di Harry Pollit, per il PCI di Togliatti e per il PCE di Dìaz. Inoltre, l’autore evidenzia come il culto della personalità non fu solo «culto del potere», ma anche volano di un preciso immaginario dello scontro rivoluzionario, attraverso la figura del militante/dirigente «martire» (come l’italiano Gramsci o il tedesco Thälmann), del leader rivoluzionario di estrazione operaia (come ancora il francese Thorez, l’australiano Miles o lo spagnolo Dìaz), o infine della personalità carismatica, della «figura avvincente» (enkindling figure) il cui prototipo era stato Lassalle e che in Europa avrebbe visto fra gli altri il bulgaro Dimitrov, la spagnola Ibarruri, ma anche lo scozzese Willie Gallacher. Pur non nascondendo le conseguenze terribili che il culto della personalità ha avuto in URSS e in buona parte dei Paesi nei quali il movimento comunista è andato al potere nel secolo scorso, anzi dedicando loro diverso spazio nel libro, Morgan comunque non perde di vista il fatto che il comunismo e i suoi esponenti emersero nel “secolo breve” come il migliore strumento al servizio dei movimenti rivoluzionari e per la diffusione di una cultura della solidarietà che rivendicò anche il diritto ad essere praticata. Il leader rivoluzionario o di partito, il segretario generale divennero quindi per milioni di persone una sorta di simbolo che induceva all’azione e alla resistenza contro l’attendismo e l’immobilismo, caratteristica familiare di una certa politica radicale, indipendentemente che la battaglia venisse persa (come nel caso di Thälmann in Germania) o vinta (come in quello di Dimitrov). D’altronde, il carattere distintivo del comunismo non risiedeva necessariamente nell’intreccio di questi valori simbolici con un certo autoritarismo burocratico del partito (Morgan ricorda che questo era già presente nei partiti della Seconda Internazionale). Ciò che invece in essenza distinse l’esperienza comunista fu che il fatto che questo forte simbolismo rivoluzionario (incarnato dalle grandi personalità del movimento comunista internazionale) fu imbrigliato nella realpolitik di Stato (anche dove il potere non era stato conquistato) con il suo corollario di cinismo e brutalità.
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International Communism and the Cult of the Individual
Leaders, Tribunes and Martyrs under Lenin and Stalin
(Comunismo internazionale e culto della personalità nel Novecento)
di Kevin Morgan
Palgrave Macmillan, London, 2017, pp. 363
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Il potere è femmina
Come sempre la storia è in grado di offrire grandi spunti narrativi, quando poi si va a “pescare” nel periodo storico scelto per questo romanzo i racconti sono quasi infiniti.
Per entrare meglio nei dettagli possono essere un buon punto di partenza le parole dell’autrice nei ringraziamenti finali, dove dice:
“… E a tutti coloro che lo leggeranno e si divertiranno, perché chi scrive qualcosa lo fa sempre per i lettori, sperando che questa storia piena di avventure, intrighi e colpi di scena vi consenta di passare qualche ora divertendovi…”
Può sembrare strano ma in queste tre righe Mariangela Galatea Vaglio, riesce a fare al suo stesso romanzo una una piccola e semplice recensione, perché la sua storia diverte, è piena zeppa di avventure e colpi di scena e si fa leggere in davvero poco tempo.
Il libro narra le vicende di Teodora, una delle figure più importanti della storia dell’impero bizantino vissuta a Costantinopoli nella prima metà del 500 d.C. Per rispetto di chi non conosce la sua storia non verrà svelato qui chi fu e cosa fece se non che la sua carriera ebbe inizio come attrice, un attrice molto particolare visto che, più che le parole, era il suo corpo a parlare… E sapeva usarlo molto bene a giudicare dagli obiettivi raggiunti.
Seppur la storia di Teodora sia piena di luci e ombre specialmente per i suoi inizi, giustificabili però con il fatto che allora le donne molto altro non potevano fare, il suo temperamento e il suo coraggio rappresentano un po’ il riscatto come donna, laddove riuscì ad utilizzare i suoi doni per affermarsi nella società e a mettere in riga i prepotenti.
Il suo personaggio riempie molte delle pagine del romanzo mentre in quelle dove lei non figura la scena è presa da colui che fece l’altra parte di storia a quel tempo, Pietro Sabbazio Giustiniano, detto semplicemente Giustiniano.
Nipote del generale Giustino che fu un fidato servo dell’imperatore Anastasio, Giustiniano seguì dapprima le orme dello zio nell’esercito per poi dedicarsi maggiormente alla politica di Costantinopoli, dove pian piano riuscì a ritagliarsi un suo spazio, favorito anche dall’appoggio delle fazioni del circo di città che allora controllavano il popolo.
Il circo. Non si può parlare di questo romanzo senza menzionare l’importanza che il circo di Costantinopoli aveva nel contesto politico non solo di Costantinopoli ma di tutto l’impero, dal momento che, il primo appoggio che l’imperatore doveva avere era il loro, pena la rivolta. E per avere questo appoggio tra le cose più importanti a cui l’Eletto doveva pensare era la religione. In quegli anni infatti, l’impero era attraversato dalle correnti dei monofisiti e dei calcedoniani, questi ultimi appoggiati dalla sede centrale della Chiesa situata ancora a Roma, seppur il suo splendore sia ormai un ricordo lontano. I monofisiti erano invece odiati dalla Chiesa ma avevano comunque un peso politico notevole a cui l’imperatore non poteva voltare le spalle, cosa che, come scoprirete leggendo il libro, non era per nulla facile.
Teodora e Giustiniano i protagonisti dunque, accompagnati da un carrellata di altri personaggi storici che si alternavano nella lotta al potere o che, come semplici comparse, erano in grado di cambiare gli equilibri di un impero come quello Bizantino. Detto questo però, e tornando alle parole iniziali, la storia si può leggere e conoscere anche divertendosi ed è quello che un po’ succede leggendo questo romanzo a volte un po’ “peperino”, capace di non cadere mai nella noia, svelando i retroscena più oscuri di un impero prestigioso e regalando momenti di piacevole lettura con qualche particolare piccante.
Il libro sembra essere il primo di una serie di romanzi che andranno a comporre la “Saga di Bisanzio”, del resto la storia è lunga e un solo romanzo sarebbe sprecato, chissà quali altri misteri si celano dietro questa figura affascinante di cui è bene ricordarsi il nome, Teodora.
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Titolo: Teodora. La figlia del circo. La saga di Bisanzio
Autore: Mariangela Galatea Vaglio
Editore: Sonzogno, 2018, pp. 380
Disponibile anche in ebook
Per informazioni sull’autrice è possibile visitare il suo blog
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Follia & Società
Oltre un anno fa’ con il progetto INQUIETA IMAGO ho riflettuto sulla follia con una serie di opere pittoriche ed una performance teatrale.
La follia mi ha sempre incuriosito forse perché i miei artisti preferiti hanno avuto brevi o lunghi soggiorni in manicomio o forse perché ho sempre pensato che se fossi vissuta 50 anni prima, avrei rischiato di finirci anch’io. Per molto tempo mi sono data solo questa risposta, ridendoci sopra, come molto spesso sorridendo ho anche pensato che se fossi vissuta in epoca medievale sarei stata messa al rogo come strega.
Vi chiederete: che c’entra?
C’entra, c’entra ma per favore non banalizzate le mie parole pensando subito alla sindrome da Calimero. C’entra perché l’istituzione del manicomio come il processo alle “streghe” o altre azioni nella storia umana sono state frutto di una società che rifiutava il cosiddetto diverso per paura o perché comprenderlo significava mettere in discussione gli elementi fondanti la società stessa, mentre stigmatizzarlo permetteva semplicemente di sbarazzarsene in un modo o nell’altro: esclusione e segregazione!
Studiando la Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault, Asylums – Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza di Erving Goffman e la rivoluzione fatta da Basaglia compresi che gli anni ’60 e ’70 segnarono lo sguardo di chi ha voluto comprendere realmente le ragioni dell’esclusione sociale o della malattia mentale.
Basaglia sostenne: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere”.
E ancora Basaglia: “una cosa è considerare il problema una crisi, e una cosa è considerarlo una diagnosi, perché la diagnosi è un oggetto, la crisi è una soggettività”. Basaglia ha tenuto conto, nella sua pratica di psichiatra, della riflessione di Foucault che ha ridato un volto umano alla storia della follia, in quanto quest’ultima non è solo storia nosografica: tra le tante testimonianze e documenti addotti nella sua ricerca Foucault presenta infatti le storie ed i testi di artisti come Artaud. Foucault con mosse da vero e proprio “archeologo” ha ricostruito il filo conduttore che ha rivoluzionato la concezione della follia e dell’internamento. La storia della follia è frutto di variabili politiche, filosofiche e sociali delle varie epoche quindi è fondamentale uscire da una misera oleografia psichiatrica.
Il tema della follia è complesso e dovrebbe essere compreso profondamente giacché l’Italia ha il primato di aver chiuso i manicomi, con la legge Basaglia del 1978. Dibattendo con persone molto più preparate di me o in prima linea perché coinvolte in campo, so che il progetto voluto da Basaglia non è stato completamente realizzato e le strutture e/o i processi che avrebbero dovuto sostituire l’istituzione manicomiale sono tuttora carenti creando difficoltà nel quotidiano di tutti coloro che sono direttamente ed indirettamente coinvolti in situazioni di disagio.
Non voglio percorrere questo punto di osservazione della tematica, non avrei né la conoscenza adeguata né le stellette in campo; vorrei invece continuare la mia riflessione dal punto di vista umano. Perché umanamente siamo tutti dentro o fuori. Come si qualifica la normalità o come la follia in un individuo? Perché questo disagio diffuso? Una volta la follia era appannaggio solo di artisti o santi – scherzi a parte, forse oggi più che di follia si parla di disagio o alienazione ma nella sostanza arrivano sempre più frequentemente notizie su atti estremi compiuti da persone che apparentemente si comportavano fino al giorno prima in una maniera coerente alle aspettative della società odierna e che l’opinione pubblica il giorno dopo etichetta impersonalmente e licenzia banalmente come “atto di follia o atto di un folle”.
La comprensione di noi stessi del disagio che ci circonda o ci appartiene, non può essere sviluppata senza un’adeguata consapevolezza di ciò che sta succedendo. Come possiamo licenziare velocemente ciò che ascoltiamo dai notiziari esprimendo semplicemente pena per le condizioni del recluso o parole di condanna dell’atto del folle???
Cosa sta succedendo e cosa ci sta succedendo?
Tanti anni fa mi chiesi: Cosa mi sta succedendo?
Ho dovuto chiedermelo spesso: come artista volo nella mia espressione creativa e nella sensibilità che trapassa il reale e lo trasforma in significante. La parte razionale esausta si barcamenava costantemente contenendo la prima in sofferenza, senza ricevere da me una spiegazione in questo quotidiano in cui il materialismo che ormai pervade ogni ambito, annienta ogni spiritualità e concezione più elevata ed immateriale della vita e inaridisce qualunque anima. Parole poetiche e romantiche queste, che però non riuscivano a darmi una lettura dei fatti concreta. Non riuscivo a spiegare il mio giudicarmi o il sentirmi tanto estranea alla contemporaneità. In questo senso il libro di Goffmann mi è venuto in aiuto dandomi l’occasione di riflettere anche su quanto sta accadendo oggi:
«l’attore sociale è soprattutto un virtuoso della sopravvivenza in un mondo quotidiano irto di pericoli potenziali per il suo rispetto di sé o, ciò che è la stessa cosa, per il rispetto “del suo sé”»
Un tema di identità dunque che viene messa pesantemente a rischio in un’istituzione totale. Si potrebbe dire che le istituzioni totali sono solo quelle “chiuse”; ma se la nostra società odierna si stesse trasformando essa stessa in un’istituzione totale, cosa sarebbe di noi? Come potremo distinguere i comportamenti autentici da quelli adattivi di sopravvivenza? Come potremmo avere la chiara immagine del nostro sé, distinguendola dal giudizio che incorporiamo dall’istituzione totale? Come reagiremmo nel momento in cui il mondo che ci è stato inoculato entrasse in contraddizione con quel poco che rimane della nostra parte più profonda ed autentica, e non capissimo più nulla?
A volte il giudizio è il prodotto “della distanza sociale fra chi giudica e la situazione in cui il paziente si trova e non dalla malattia mentale”. A volte invece di comprenderci, giudichiamo di star perdendo il senno a causa di stereotipi culturali e sociali che, in realtà, sono spesso psichiatricamente ritenuti un semplice e temporaneo sconvolgimento emotivo in una situazione stressante.
Il punto è che oltre al processo dell’accettazione di sé, auspicato da filosofie, religioni ed altre discipline, è necessario capire perché non ci accettiamo o qual è la strada per rinforzare la nostra identità.
La nostra società somiglia sempre più ad un’istituzione totale dunque dovremmo accorgerci dei meccanismi di spersonalizzazione del sé per difenderci e proteggerci e aiutare o sostenere chi è accanto a noi, processo inevitabile se vogliamo usare congiuntamente le lenti della razionalità e quelle dell’empatia.
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Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza
Erving Goffman
Traduttore: F. Basaglia
Editore: Einaudi
Collana: Piccola biblioteca Einaudi. Big
Anno edizione: 2010
Pagine: 415 p., Brossura
EAN: 9788806206017
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L’acqua cheta che rode i ponti
John Niven torna in libreria con un nuovo romanzo e sicuramente i suoi fedelissimi non hanno lasciato passare molto tempo prima di catapultarsi su questa invitante e appetitosa lettura.
Per chi invece ancora non lo conosce sono sicuro che il titolo di questa nuova opera può essere una buona calamita per entrare nel suo universo: “Invidia il prossimo tuo”. Qualcosa non vi torna? Certo, “religiosamente” parlando la forma non era questa ma, del resto si sa, John Niven ha un rapporto tutto suo con la religione.
Detto questo, di religioso qui c’è ben poco. L’autore questa volta si concentra sulla famiglia, sugli amici, sul lavoro, sull’attualità, sui soldi e su come tutte queste cose possono dare vita tra loro a mix esplosivi capaci di cambiarti la vita.
Partiamo dalla famiglia, quella del protagonista Alan Granger, un critico gastronomico molto famoso che è riuscito a raggiungere una posizione notevole nell’alta società grazie alla moglie Katie, figlia di un ricco aristocratico. Dalla loro unione sono nati Tom, Melissa e Sophie, l’emblema dell’amore(odio) fraterno. Una famiglia perfetta insomma, con la sua routine giornaliera, la sua bella e grande casa, le feste con gli amici ricchi, la donna delle pulizie ecc. ecc.
Bella cornice sporcata ad un certo punto da una vecchia conoscenza di Alan, un amico sembra, Craig Carmichael, da giovane una promessa del rock ed ora un barbone alcolizzato che il protagonista incontra per strada dopo una visita di lavoro in un ristorante.
L’inizio della fine? Chi può dirlo, Craig è davvero ridotto male, e pensare che da giovani era lui quello figo e Alan quello sfigato, invece ora guardali lì, l’esatto opposto. E’ anche vero che Alan è sempre stato quello buono, e infatti…perchè non raccogliere dalla strada un vecchio amico nel disperato tentativo di reintrodurlo nella società?
Craig sembra davvero tranquillo, tant’è che in casa (è lì che va a stare per un pò) viene subito accettato dalla famigliola felice ed è lì che il senzatetto comincia ad inserirsi pian piano nel mondo di Alan, osservando, annotando e condividendo con lui vecchie gioie come l’alcol e…altro.
Ma, cosa c’è dietro l’angolo? Apparentemente nulla dal momento che tutto sembra filare liscio per entrambi, l’invidia però si sa, è una brutta bestia, soprattutto per chi ha il suo bel caratterino.
La gente difficilmente cambia del tutto, e infatti Alan è rimasto sempre quello buono, a volte anche poco sveglio e Craig è rimasto quello che… quello che era insomma.
Non tirate conclusioni affrettate pensando che sia un romanzo scontato perchè, credetemi, non lo è.
John Niven si distingue sempre per il cinismo e l’ironia con cui riesce a raccontare le sue storie, cancellando completamente le cose scontate rendendo piacevoli invece quei tratti dei suoi personaggi che di norma darebbero fastidio.
Vi troverete a pensare che per più di metà romanzo ancora non è successo nulla di strano pur continuando a girare le pagine spinti dalla curiosità di scoprire cosa accadrà dopo ai personaggi. Un altra sbronza? Un’altra festa? Un altro progetto di lavoro fallimentare? Tante cose possibili, alcune anche prevedibili ma che non arrivano mai.
L’autore mostra come a volte essere troppo pieni di sé, soprattutto se lo si è diventati nel tempo, può rendere ciechi dinanzi alle proprie debolezze, e mostra anche, in modo estremo, di come una vita apparentemente perfetta può crollare da un momento all’altro. E i valori? Gli affetti? Possono portarti anche in direzioni sbagliate, siano esse una strada, un bicchiere di troppo o una confidenza rischiosa.
Tutti questi tasselli messi insieme formano una storia scorrevole, a volte snervante, ma mai noiosa. L’autore fa sempre capire di avere il colpo in canna e quando questo arriva… le conseguenze possono essere tragiche…
Questo è John Niven, un autore capace di fare “bang!” in tutti i suoi romanzi. (Questa era per i fedelissimi).
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Titolo: Autore: John Niven
Traduttore: Marco Rossari
Editore: Einaudi (Collana Einaudi. Stile libero big), 2018, pp. 290
Disponibile anche in ebook
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