Archivi categoria: SCAFFALE DEGLI OZIOSI

Il meeting dei mostri

Orchi, troll, viverne, minotauri, ciclopi, giganti, gorgoni e… beh ovvio, draghi! Sono solo alcuni dei mostri che riempiono le pagine di questo romanzo fantasy particolarmente “cazzuto” (mi scuso per il termine ma… lo è davvero).

L’autore americano Nicholas Eames si presenta al mondo dell’editoria con una storia che mette in evidenza la sua vasta conoscenza in campo fiabesco/mitologico/fantasy, capitolo mostri cattivi e non, riunendoli tutti insieme in un’incredibile guerra dove, ovviamente, non possono mancare i nemici dei mostri, gli umani.

Nell’universo narrativo di Eames gli umani in questione sono i Saga, il più famoso gruppo di mercenari mai esistito che per anni ha terrorizzato i mostri più temuti di tutte le terre conosciute. Anni che furono però, perchè i cinque mercenari sopracitati che di nome fanno Clay, Gabriel, Moog, Matrick e Ganelon sono ora cinque vecchi falliti che si dedicano chi alla famiglia, chi a recuperare la famiglia, chi alla magia, chi alla bottiglia e chi alla prigione, ognuno per la sua strada. Eroici vero? Beh, tutti gli eroi prima o poi tramontano, purtroppo il loro è stato un tramonto un po’ turbolento. Però anche nelle favole a quanto pare esistono le reunion e quella dei Saga suscita molto scalpore, soprattutto se si pensa alla missione suicida che li ha portati a ritrovarsi: la figlia di Gabriel (nientemeno che il capo) è in pericolo, la più grande orda di mostri mai vista sta assediando la città dove lei è ora rifugiata e le speranze che sopravviva sono minime. Solo l’amore paterno può salvarla, nonostante quello stesso amore abbia già rovinato la famiglia, ma Gabriel è deciso, deve riunire la banda e con loro andare a salvare la ragazza.

Protagonista indiscusso del romanzo non è però Gabriel ma Clay Cooper, il suo braccio destro, il più riflessivo del gruppo, padre anch’egli di una ragazzina. Clay è famoso per essere stato un grande guerriero, ora spicca invece per i suoi mille timori riguardo a ciò che avviene, le battaglie non fanno più per lui, ma per un amico e per salvare una vita innocente si fa questo ed altro, seppure il fisico non aiuti. E così, accompagnata da molti suoi punti di vista, la storia procede velocemente verso l’epilogo.

Insomma, più che un libro a tratti sembra di avere in mano un gioco di ruolo dove la missione principale è salvare la figlia del capo, prima di arrivare al mostro finale però ci sono da sconfiggere una serie di cattivoni intermedi che aiutano a salire di livello. Il livello in questione non è, come nei giochi, la forza dei personaggi, ma il livello di interesse del lettore che, è assicurato, cresce pagina dopo pagina.

Non mancano in questo romanzo l’ironia, la fantasia, la perfidia, l’amore, i tradimenti e soprattutto non mancano le battaglie, tante e ben descritte. Le ambientazioni poi fanno davvero pensare ad uno dei migliori giochi di ruolo moderni, navi volanti, arene galleggianti e portali tra i mondi sono solo alcuni ingredienti di questo nuovo mondo fantasy-letterario. Ben descritti sono anche i personaggi, disegnati con le parole in modo chiaro e…colorito.

Siamo sinceri però, questa moda delle trilogie o delle serie lascia sempre qualche dubbio, nei romanzi fantasy soprattutto, dove all’ultima pagina salta sempre fuori il super cattivo più cattivo del cattivo che fa presagire un seguito capace di render vano quanto fatto prima, e allora nasce l’attesa per quel che sarà. Tranquilli, “I Guerrieri di Wyld” è autoconclusivo, tradotto non ci sarà da aspettare il seguito per sapere che fine fanno i protagonisti. Buona notizia, ancor più buona è la notizia che comunque un “seguito” ci sarà, ma ambientato in altro tempo e con altri personaggi, il che vuol dire che, se il romanzo di Eames vi è piaciuto, ce ne sarà un altro e forse altri ancora, ma se il suo stile rimane questo, l’unica attesa da sopportare sarà quella di un altro buon romanzo da leggere.

Chiedo scusa per i giochi di parole ma l’effetto lasciato dal libro non è ancora smaltito.

Chissà se altri lettori la penseranno allo stesso modo.

****************************

Titolo: I guerrieri di Wyld. L’orda delle tenebre
Autore: Nicholas Eames
Traduttore: S. A. Benatti
Editore: Nord (Collana Narrativa Nord), pp. 550, 2018

****************************

 

Fare i soldi comunque

Se cercate in rete “Proto Group” o “Proto Consulting” troverete tuttora una serie di siti pieni di comunicati stampa, notizie finanziarie, dichiarazioni ufficiali e altro. Eppure Alessandro Proto a suo tempo è stato arrestato per truffa, aggiotaggio e altri reati legati alla sua attività non tanto immobiliare quanto di consulenza finanziaria. Alessandro Proto ha venduto le ville delle star del cinema e del calcio, ha comprato quote di società quotate in borsa; ha amato donne bellissime e famose; si è presentato alle primarie di Berlusconi. Nella realtà Proto ha esercitato la sua fervida fantasia senza esser niente di tutto questo, ma inondando i giornali di mail e comunicati regolarmente ripresi anche dalla stampa che conta. Sembra assurdo, ma un ex venditore di enciclopedie porta a porta, nato e cresciuto nella periferia di Milano, è riuscito non solo ad aprire una piccola società immobiliare a Lugano – fin qui una storia comune a tanti giovani imprenditori del nord – ma a diventare un uomo potente, ricco, ricercato dai giornalisti, dagli imprenditori e dagli uomini politici per fornire consulenze ben pagate, vendere appartamenti di lusso e ascoltare i consigli dell’esperienza. Tutto questo però millantando credito, “sparando” notizie di acquisti in borsa da parte di cordate inesistenti e clienti arabi con nomi di fantasia e minacciando querele ai propri critici. A leggere le sue scorribande, sembra un film che riunisce Totò truffa , Zelig di Woody Allen e Prova a prendermi di Leonardo Di Caprio. Impeccabile in giacca e cravatta, sia lui che i suoi addestratissimi “Proto boys” riescono a far firmare contratti a tutti: imprenditori brianzoli, immobiliaristi lombardi, azionisti.

Solo che un bel giorno la CONSOB decide di vederci chiaro e il nostro amico finisce per un mese a san Vittore. Il magistrato inquirente non crede alle sue orecchie: i reati commessi non sussistono perché lui si è inventato tutto dall’inizio alla fine. Mitomania? No, era un sistema per fare i soldi e diventare potente nella Milano che conta. Un paradosso? Mica tanto: alzi la mano chi da giovane o da disoccupato almeno una volta non si è presentato a un colloquio di lavoro nell’ufficio di una multinazionale dal nome altisonante ma forse inesistente, accettando di fare il venditore di prodotti e servizi mai sentiti prima e sottoponendosi a un corso di formazione gestito in americanese. E scagli la prima pietra chi non si è mai fatto fregare da un bancario in giacca e cravatta sottoscrivendo fondi d’investimento bilanciati.

Certe strategie sono ben collaudate e in ogni società ci sono individui diabolicamente capaci di mettere a proprio agio l’interlocutore rassicurandolo e venendo incontro alle sue aspettative, che poi sono sempre le stesse: l’ascesa sociale, il benessere, il potere, il denaro, le donne. Quello che in questo caso è invece preoccupante è il mancato controllo delle fonti da parte dei giornalisti di professione. Passi per i gossip di rotocalco, tanto quello è un mondo di carta che si sfoglia dal parrucchiere, ma quando la notizia di una cordata straniera che acquisisce una quota di un’impresa italiana o multinazionale fa tremare la Borsa e sposta milioni di euro senza neanche che Proto sappia cos’è il Ftse Mib, possibile che i redattori del Sole24 Ore o del Corriere non svolgano indagini accurate e si bevano le balle di chi ha la faccia tosta per farle pubblicare senza repliche? Davvero è così facile trincerarsi dietro “il rispetto della privacy del mio cliente”, quando l’azionista in campo è addirittura un nome di fantasia cercato a caso nel web e chi replica al Corriere ha solo la licenza media? Possibile che una smentita sia – parola di Proto – una notizia data due volte?

Oggi si fa tanto parlare di fake news, ma se chi deve controllare le fonti non lo fa per pigrizia o per altri motivi, Proto non è la malattia ma il sintomo. E quando il nostro imprenditore propone un corso di formazione per i detenuti di san Vittore, perché nessuno controlla le sue credenziali? Gli stessi detenuti lo rivedranno un giorno fra di loro, ma come fratello. Possibile poi che un giornalista del calibro di Luca Telese sia cascato nel tranello e abbia accettato Proto come acquirente del suo giornale in deficit, assumendo anche altri giornalisti ma senza esigere che fossero pagati? In realtà di seduttori e parolai in Italia ne abbiamo avuti parecchi, anche in politica. Senza far nomi, è da quasi un secolo che alcuni personaggi si somigliano molto. Troppo.

Non a caso il nostro Proto cerca di avvicinare Berlusconi: in fondo la loro storia è simile, visto che il Cavaliere ha iniziato come cantante sulle navi da crociera, anche se l’estrazione sociale è diversa da quella dei ragazzi di periferia. E proprio questi ultimi saranno i più efficienti e spietati collaboratori del Proto, affiancati da giovani bocconiani e ragazze prese per strada dai gazebo di Amnesty International o Save the Children. Ogni mattina un’ora intera è dedicata alla loro formazione, e stanno solo a provvigione: il 20% su ogni contratto firmato e quando si tratta di vendere immobili di lusso si danno da fare, mentre il Capo si occupa solo dei clienti grossi e non si fa mai intervistare, attento invece a costruire la sua immagine e a mandare comunicati alla stampa, cosciente che una serata a Mediaset è roba da arrivisti di provincia. Diciamolo: nel profondo ammiriamo questo cinico avventuriero che spenna i ricchi e gli arricchiti e strapazza i figli di papà laureati alla Bocconi o alla City; in fondo nelle Fiabe italiane raccolte da Italo Calvino la metà dei personaggi cerca di fregare il prossimo e tutti imparano la lezione a proprie spese. Sia chiaro: finire nelle grinfie di gente simile non è piacevole, ma è bene che la gente impari anche a difendersi. Molti di noi si credono furbi ed esperti ma non lo sono affatto o lo sono solo nel proprio ambiente.

Dal libro sappiamo ora che è facilissimo – tramite agenzia – aprire una società commerciale a Lugano, ottenere un numero di telefono irlandese, o aprire una ditta a Londra con tanto di segretaria e conto alla Barclays Bank senza muoversi da casa: basta pagare. E a questo punto capirete l’origine di quegli strani numeri da cui partono offerte commerciali o peggio: sono scatole vuote ma anche macchine da guerra. Quanto agli abiti firmati dei manager e alle minigonne delle segretarie, ricordo sempre le battute di mia madre commerciante sui rappresentanti, visto che ci ha trattato per una vita. E tra i rappresentanti ci metteva anche il primo Berlusconi: milanese, elegante e sportivo, voleva vendere un prodotto ma non sapeva fare a meno del sorriso stirato e della cravatta stretta. Anche a vedere la foto pubbliche del nostro Proto, è difficile non capire che si tratta di un rappresentante o di un agente immobiliare, anche se potrebbe fare l’attore (e in fondo lo ha fatto).

Solo che lui in galera ci è finito sul serio, mentre qualcun altro finora è stato più fortunato. Ma – per quanto ne sappiamo – il nostro Proto ha ricominciato alla grande. E legge con attenzione tutto quello che si scrive su di lui.

****************************

Io sono l’impostore. Storia dell’uomo che ci ha fregati tutti
di Alessandro Proto, Andrea Sceresini
Editore: Il Saggiatore, 2017, pp.194
Collana: La piccola cultura
Prezzo: € 16.00

EAN: 9788842823971
ISBN 9788842823971

****************************

Prima degli Indiani c’erano i Dinosauri

Su internet parlano di questo romanzo come il prequel di Jurassic Park e in effetti l’autore è quello, Michael Crichton, al che tu, fan sfegatato della serie, senza leggere la quarta di copertina ti aspetti magari di trovare un giovane John Hammond che, alle prese con zanzare preistoriche intrappolate nella resina o ossa di dinosauro incastonate nella roccia, decide di mettere in piedi un parco di bestioni autentici.

E invece, caro fan sfegatato, di John Hammond, Alan Grant e Ian Malcom non c’è traccia. C’è invece un tale William Johnson, studente di Yale che a fine 800 si aggrega alla spedizione del prof. Othniel Marsh, noto (reale) paleontologo, alla ricerca di ossa di dinosauro sepolte in territorio indiano.

E forse di prequel si potrebbe parlare visto che quelle scoperte rappresentano probabilmente il punto di svolta della paleontologia, grazie al gran numero di ossa e specie scoperte dal sopracitato Marsh e dal suo avversario Edward Cope: Brontosauro, Triceratopo e Stegosauro tanto per citare i più famosi.

Il romanzo di Crichton non va però a concentrarsi prevalentemente sulla scoperta delle ossa ma sulle avventure di contorno dei nostri personaggi, ecco allora che la storia si trasforma in un autentico western con tanto di attacchi da parte dei Sioux, diligenze in corsa attaccate dai banditi, sparatorie fuori dai saloon e così via.

Wyatt Earp vi dice qualcosa? Agli appassionati sicuramente, bè c’è anche lui e lo si trova nella sperduta cittadina di Deadwood dove accorre in aiuto del protagonista che, isolato dal resto del gruppo, si trova a dover difendere strenuamente un prezioso carico.

Oltre ai personaggi famosi e non, tutti realmente esistiti, la bravura di Crichton mette in scena anche parecchi dettagli storici del periodo, incentrati per lo più sulle guerre indiane e sull’evoluzione di una nazione destinata a diventare la più potente al mondo, citando tra gli altri il Generale Custer e Toro Seduto.

Davanti a questa sfilata di grandi figure della storia americana si pone sempre e comunque il protagonista William Johnson, che riesce a coinvolgere il lettore nelle sue avventure grazie al suo senso dell’onore e forse grazie anche ad un poco di ingenuità.

L’autore riesce a dare alle ossa un’importanza di riflesso rispetto a tutta la storia, ma facendo in modo che esse rimangano sempre le vere protagoniste di tutto quanto accaduto a Johnson tra il 1875 e il 1876.

Il romanzo è postumo dal momento che Michael Crichton è scomparso da ormai dieci anni. Nella postfazione è la moglie a raccontare di aver trovato il manoscritto tra i lasciti del marito, ritenendolo meritevole di una pubblicazione a più di quarant’anni dalla sua stesura, essendo senza dubbio la genesi di ciò che poi è divenuto Jurassic Park.

Non ci sarà il T-Rex, non ci saranno i Raptor e non ci sarà un gruppo di scienziati alla scoperta di un parco di dinosauri; ma in compenso ci sono le splendide descrizioni delle terre dove questi enormi animali hanno dominato fino alla loro estinzione, ci sono le avventure di un gruppo di studiosi alle prese con indiani vendicativi e c’è la guerra, altrettanto famosa in ambito scientifico, tra due importanti figure come Marsh e Cope.

Che dite? Non si tratta comunque di un valido invito ad unirvi alla caccia delle ossa?

****************************

Titolo: I cercatori di ossa
Titolo originale: Dragon Teeth
Autore: Michael Crichton
Traduttore: D. Comerlati
Editore: Garzanti (Collana Narratori Moderni), 2018, pp. 276

***************************

Tra una Costituzione disattesa o un eccesso di difesa

Da dove iniziare? Naturalmente dall’articolo 11 della Costituzione:

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

L’Italia dunque rifiuta la guerra, tant’è vero che lo ha messo per iscritto e a chiare lettere. Ma è proprio vero? Storicamente lo è, ma solo dopo la disastrosa sconfitta militare che ha spazzato via il regime fascista e la monarchia che lo aveva appoggiato. Fino a quella data l’Italia di guerre ne ha fatte tante, con alterne vicende e col supporto di un apparato ideologico superato solo da pochi anni. Il libro di Andrea Santangelo a dire il vero inizia da molto lontano, addirittura dalla preistoria e protostoria italiche, mentre forse troppo poco è dedicato ai decenni più recenti. Che le legioni romane siano un esempio perfetto di grande unità funzionale ai fini strategici di Roma lo sapevamo, com’è assodato che le guerre italiane sono passate dai professionisti al popolo grazie alle guerre napoleoniche, lasciandosi alle spalle le compagnie di ventura e le guerre dinastiche. L’excursus storico copre mille anni, ma in effetti senza leggerlo è difficile capire come mai una penisola in mezzo al Mediterraneo possa essere, a seconda delle epoche, troppe volte terra d’invasione (anche ora) e quasi mai potenza egemone. In senso negativo hanno influito sicuramente il frazionamento politico che segue la caduta dell’Impero Romano, il feudalesimo, il potere temporale dei Papi e così via. Ma arriviamo finalmente all’unità d’Italia, guarda caso attraverso le guerre d’Indipendenza, tre per i manuali scolastici, quattro con la Grande Guerra secondo la vecchia ideologia. L’Italia a quel punto cosa fa? Ambisce al ruolo di media potenza e, pur priva di risorse, sgomita per entrare nel concerto europeo, cerca di conquistare colonie e devolve alle forze armate parte consistente del PIL, introducendo la leva obbligatoria e stabilendo la centralità dell’Esercito nella vita sociale italiana. La guerra poi può anche deflettere verso l’esterno le tensioni sociali, come sanno tutti i nazionalisti. La dinastia sabauda poi ha origini e tradizioni guerriere e le ribadirà fino alla fine, anche se nessuno dei Savoia regge il confronto con gli antenati: Emanuale Filiberto comandante dell’invitta 3° armata nel 1917 è un mediocre stratega e il Duca d’Aosta che si arrenderà ad Amba Alagi nel 1941, in quei frangenti altro non poteva fare. Quanto a Vittorio Emanuele III, si fa sempre ritrarre in divisa e nella Grande Guerra è il Re Soldato che visita tutti i reparti, ma nel 1943 lascia i soldati al loro destino. Quanto abbia influito nel Regno d’Italia lo spirito di casta dei militari di alto grado legati al Re ma nei fatti poco preparati al loro mestiere è comunque un argomento trattato nel libro. Sia chiaro: in Italia il concetto di casta è relativo, visto che agli alti gradi delle FF.AA poteva arrivare anche la piccola e media borghesia di provincia, ma quello dei militari di carriera era ed è rimasto per decenni un mondo a parte. Peccato che l’autore non vada in profondità, perché la Grande Guerra ha messo in crisi un sistema intero e perché alla fine le guerre italiane si somigliano tutte, comprese le attuali c.d. operazioni di pace: la mancanza di risorse spinge ad alleanze temporanee, le decisioni politiche non vengono affrontate in modo coordinato; le operazioni militari sono inizialmente assai caute, lente, e il dispositivo militare si dimostra sempre sottodimensionato e inesperto, salvo imparare la lezione a proprie spese e se il nemico gliene lascia il tempo. Il risultato è quindi alla fine sempre inferiore alla spesa e lo sforzo richiesto agli italiani supera il preventivo iniziale. Niente di che meravigliarsi se a livello popolare esercito e guerre non sono la passione degli italiani. Andrebbe però meglio analizzato il rapporto profondo che lega gli italiani alla propria classe dirigente, visto che le guerre non si fanno senza un consenso collettivo. Il Fascismo ha cercato di ottenerlo, ma nella riforma delle proprie forze armate ha inciso solo sulla forma (scenografica) e non sulla sostanza, affrontando una guerra mondiale con un esercito buono per quella precedente, e non incidendo assolutamente sulla casta militare sabauda, antiquata e poco aggiornata sulla guerra moderna. E’ vero che l’esercito era del Re, ma le Camicie Nere (MVSN) non erano certo meglio comandate, addestrate ed equipaggiate dei reggimenti di linea. Di questo il libro poco parla, ma sarebbe invece un ottimo argomento di studio. Già comunque lo storico inglese Denis Mack Smith ne Le guerre del Duce (1976) aveva notato che il Fascismo ha sempre cercato la guerra ma poco si dava da fare per organizzarla in modo moderno. Ma passiamo al dopoguerra: l’Italia ha perso tutto, è stata devastata da sud a nord e sia popolo che nuova classe politica di guerra non ne vogliono più sapere. L’Italia però entra nella NATO nel 1948 e fino alla fine della Guerra Fredda (1989) avrà precisi obblighi militari, subordinati agli USA, che hanno interesse ad avere basi militari proprie e considerano il nostro paese strategicamente importante. Sono gli anni dell’egemonia democristiana, ma anche quelli in cui tutti gli italiani maschi hanno fatto il militare nell’arco geografico che va da Bolzano a Trieste. Ma sono comunque anni di pace, mentre nell’arco della loro vita i nostri nonni e padri hanno fatto anche due guerre. Da trent’anni a questa parte abbiamo poi scoperto (o riscoperto) la nostra vocazione internazionale e accettiamo di mandare soldati ovunque la pace sia minacciata, cioè quasi dappertutto. Le c.d. operazioni di pace sono affidate ragionevolmente a soldati professionisti e il bacino di reclutamento è assicurato dalla disoccupazione meridionale, ma bisogna prendere atto che la loro qualità – ufficiali e sottoufficiali compresi – è sicuramente migliorata e la loro esperienza preziosa. Rimane aperta la questione di cui si parlava prima: quali sono gli interessi nazionali e come vengono prese le decisioni politiche? Ci siamo fatti invischiare in Iraq e in Afghanistan; la Folgore nel 2000 l’abbiamo mandata persino a Timor Est, mentre in Libia nel 2011 la guerra ce la siamo fatta da soli, né ancora si capisce bene come vogliamo gestire il problema dei migranti e di chi traffica sulle loro vite. Sappiamo ora dalla TV che manderemo soldati in Niger, ma – per carità – non combatteranno. Nel frattempo ci si è accorti di quanto costa un esercito professionale e si vorrebbe reintrodurre una sorta di servizio militare ausiliario. Purtroppo l’instabilità politica italiana non aiuta né ha mai aiutato la strategia. Infine, nell’ultimo capitolo l’autore ipotizza la natura delle guerre del futuro, compresa la cyberwarfare. Che dire? Chi fa la guerra non produce armi e noi le esportiamo. La guerra elettronica è una eccellenza russa e americana, mentre noi europei ancora non riusciamo a coordinare un’industria bellica comune. Sul terrorismo nulla di originale; sulla resilienza dell’italiano medio di fronte alle varie crisi imposte dalla globalizzazione poche righe. Ma lascerei aperto il capitolo, anche se scritto nel 2017: le operazioni russe in Siria suggeriscono la sopravvivenza di operazioni militari tradizionali integrate da guerra irregolare, i c.d. conflitti misti. Mai fare l’errore di prepararsi a combattere un solo  tipo di guerra. E soprattutto, non rimuovere il problema. Fino alla Guerra Fredda la guerra veniva chiamata col suo nome, ora si parla solo di pace, anche quando si mandano i soldati in missione in zone dove si spara. Parlate coi militari e sentite cosa ne pensano delle belle parole riservate al telegiornale! Indicativa poi è la storia del 4 novembre: fino al 1976 era festa nazionale ed era ufficialmente il giorno della Vittoria (del 1918); successivamente è stato derubricato e ogni anno viene ribattezzato e ridefinito in una maniera diversa. Se anche la guerra è stato l’elemento che ha unito l’Italia e gli italiani, perché negarlo? E per una volta che abbiamo vinto noi, perché dobbiamo vergognarcene? Come si vede, l’Italia è ancora un paese politicamente giovane.

****************************

L’Italia va alla guerra.
Il falso mito di un popolo pacifico
di Andrea Santangelo

Editore: Longanesi, Milano, 2017, pp. 199
Prezzo: € 16,90
EAN:9788830448261

****************************

Esercitare l’arte della scrittura

Confesso di non aver letto niente di Murakami Haruki prima di questo suo libro, per cui mi attengo a quanto lui scrive, senza far finta di aver letto 1Q84 (sic), L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio o L’uccello che girava le viti del mondo (ma che hanno tradotto?). Schivo e riservato come tanti giapponesi, con umiltà descrive qui il suo mestiere di scrittore. Perché per lui di mestiere si tratta: è riuscito a diventare un romanziere affermato e autosufficiente, ma per anni ha fatto altro per vivere e ha trasferito nel mestiere di scrittore l’impegno quotidiano di un lavoro comune. Si meraviglia che la gente non comprenda perché la mattina lui faccia un’ora di sport prima di lavorare per sei ore a tavolino come un impiegato. La gente gli scrittori se l’immagina sregolati e geniali, mentre il nostro, pur avendo avuto trascorsi bohèmien – nato nel 1949, si è formato negli anni ’60 – è un tipo regolato, pur critico verso la nipponica cultura efficientista. Eppure, proprio da bravo giapponese ha messo nel suo mestiere di scrittore una costanza e una determinazione che vanno ben oltre la disciplina: senza prendere appunti, organizza la sua mente come un gesuita e inizialmente lavora per sottrazione, selezionando dalla massa dei dati gli elementi di base, e in questo è figlio del buddismo zen. Ma deve far i conti anche con quanto esce dalla profondità, e in questo invece sembra ignorare Freud, almeno da come descrive in modo scarno il processo inconscio. Sorprende però la sua modestia: afferma che chi ha una cultura o un’intelligenza superiori è meglio si dedichi alla saggistica: è più logico ed economico concentrare un concetto in un saggio che disvelarlo nella complessa trama di un romanzo, e a favore della sua tesi nota quanta poca continuità nel romanzo abbiano avuto gli studiosi o gli specialisti di altri campi (ma lo conosce Umberto Eco?). Curiosa tesi la sua: il romanzo ha impiegato due secoli per sdoganarsi e lui lo riporta alla sua iniziale volgarità, come se Stockhausen ribadisse la dignità di un musicista di corte salariato. In realtà la sua idea di romanzo è – come dire – minimalista, e non per niente Murakami Haruki è anche il traduttore di Carver per il Giappone. Questo non toglie che da pochi, scarnificati elementi si costruisca lentamente una trama spessa, in un procedimento inverso a quello iniziale di sottrazione. Si tratta ora di aggregare al nucleo iniziale una serie di dati esterni e interiori altrimenti slegati. L’autore raccomanda di essere curiosi osservatori del mondo esterno, e in questo è facile il paragone con il pittore Hokusai. Questo processo richiede il tempo pieno: l’autore è arrivato tardi al romanzo lungo e scriverne uno significa per lui fare solo quello, senza distrazioni. E’ l’unico modo per crescere. Riesce a creare personaggi di ogni età e le adolescenti gli chiedono come fa ad entrare nel loro mondo. Pare che i suoi libri in famiglia li leggono tutti, dal nonno al nipote, dunque hanno un ampio respiro sinfonico. Ma lui scrive quello che vuole, non segue i gusti del pubblico. Questo è il segreto di ogni scrittore che accetti per i primi anni di passare quasi inosservato. Lui è stato scoperto grazie a un premio letterario – proliferano anche in Giappone – ma non farebbe mai parte di una giuria. Essere così individualisti per noi occidentali può anche essere normale, ma non lo è in Giappone. Un interessante capitolo descrive poi il tentativo – riuscito – di farsi conoscere all’estero, iniziando dal mercato americano. Asceta ma non sprovveduto, il nostro si trasferisce a New York e si appoggia a una squadra di professionisti dell’editoria. Lui da giovane leggeva i romanzi in inglese e ha tradotto molto, Carver, Chandler, in più accetta di parlare in pubblico e di essere intervistato, cosa che non fa mai in patria. Insomma, è uno stratega e i risultati non si faranno attendere. In Europa è arrivato dopo e i primi a leggerlo sono stati i Russi. In Italia direi che è un autore di nicchia. Ma è lo stesso Murakami a spiegare il successo dei suoi romanzi: sono letti soprattutto quando e dove sta avvenendo un cambiamento politico e sociale. Evidentemente sanno cogliere non tanto il movimento grande – stavo per dire la macroeconomia – ma quegli impercettibili movimenti che solo un osservatore attento e curioso sa notare, per poi orchestrarli in una partitura complessa. Tirando le somme, questo libro va letto per la sua semplicità. L’arte del romanzo di Henry James o di Gyorgy Lukàcs sono ormai quasi illeggibili, mentre il libro di Murakami è scarno e sincero. Forse chi lo legge non diventerà mai uno scrittore, ma almeno avrà risparmiato la quota di un costoso corso di scrittura creativa.

****************************

Il mestiere dello scrittore
Murakami Haruki
traduzione di Antonietta Pastore
Editore: Einaudi, Torino, 2017 (ma ora anche Mondadori), pp. 186
Prezzo: 18,00 euro

EAN: 9788806232146

****************************