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Il Vento dei Balcani

Kosava è il nome di un freddo vento balcanico che origina dai Carpazi e attraverso le Porte di Ferro dilaga fino all’Adriatico: metafora del male perverso che sconvolse l’allora Jugoslavia negli anni ’90 e che ora abbiamo rimosso, anche se da anni manteniamo truppe in Kosovo e la ricostruzione civile in Bosnia non è mai realmente avvenuta.

Il libro è complesso, si snoda per 25 capitoli che coprono gli anni dal 1992 al 1999 e scorre su tre livelli paralleli: le vicende di un gruppo di giovani di Sarajevo, una serie di ricostruzioni storiche e infine – in corsivo – alcune note autobiografiche su quanto l’autore ha visto quando era in servizio. Progetto ambizioso; eppure la narrazione scorre agile, integrata da mappe e foto che aiutano a districarsi nel caos balcanico originato dalla fine di quella Jugoslavia che Tito orgogliosamente descriveva: “Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti, un partito”. Il libro inizia a Sarajevo nel 1992, quando la Repubblica di Bosnia-Erzegovina decide di staccarsi dalla Federazione Jugoslava, dopo che Slovenia e Croazia l’hanno già fatto l’anno prima senza troppi traumi. Qui conosciamo i nostri baldi giovani: Milan o Milo (serbocroato di Knin), Vesna (croata di Vukovar), Vesely (di Mostar), Alex (musulmano di Sarajevo), Anja (croata zaratina), Miriam (musulmana di Sarajevo), Branko (serbo), Vlady (serbo di Belgrado), Jadranka (kosovara musulmana di Pristina), Ivan (fratello di Milo). Tutti amici o fidanzati tra di loro, prenderanno strade diverse, tragiche, intrecciando e loro vite con la storia di una barbara guerra civile. Questo mi ricorda proprio un film jugoslavo, Okupacja u 26 slika (L’occupazione in 26 quadri), dove tre giovani amici – un croato, un italiano e un ebreo – seguono strade diverse dopo che nel 1941 Ragusa viene occupata (1). Anche qui i personaggi sono di fantasia, ma verosimili. Seguirne le vicende non è facile (sono una decina!), intrecciate come sono nella brutale, confusa storia balcanica degli anni ’90: gli uomini si arruolano nei rispettivi eserciti o milizie, mentre le ragazze seguono strade più tortuose: Vesna, infermiera a Vukovar, viene stuprata dai miliziani serbi (nel 1991 l’esercito croato quasi non esisteva) ma li denuncia; Anja e Miriam sopravvivranno nella Sarajevo assediata per tre anni (la città fu liberata dalla NATO nel 1995), Jadranka andrà a Pristina ma solo per trovare una situazione peggiore (in Kosovo i Serbi rifecero lo stesso errore di ripetere in piccolo la Grande Serbia). Ma lasciamo al lettore il piacere della sorpresa

Se le vicende dei nostri giovani sono intricate, la descrizione degli avvenimenti storici è invece molto chiara: ordinata cronologicamente per paragrafi, rende quasi comprensibile una storia quanto mai complicata. Ma non è un’asettica sinossi scolastica: il nostro generale non fa sconti a nessuno, neanche alla civile Europa che è intervenuta tardi e male. La guerra civile è stata brutale, al di là di ogni standard di civiltà, combattuta da quattro eserciti regolari e un numero imprecisato di milizie canaglia al di fuori di ogni controllo (2). Tito aveva costruito uno stato rispettato da tutti, mentre i vari Tudjman, Izbegovic’, Milosevic’ e Karadzic’ hanno cercato solo di creare impossibili nazioni omogenee, purificate attraverso ‘pulizie etniche’ (3), che hanno anche aperto gli occhi di noi italiani sull’esilio istriano e dalmata. Anja, uno dei personaggi di finzione, è di Zara e attraverso di lei ricostruiamo la storia della sua famiglia, che è poi quella – sorpresa! – del generale Di Grazia.

E con questo passiamo al terzo livello del libro: le memorie personali del generale, il quale ha avuto dal 1991 al 1999 una serie di incarichi di responsabilità nelle zone toccate dal conflitto. Tutti noi lo ricordiamo quando nel 1996 appariva in tv parlando dal comando della brigata „Garibaldi“ a Sarajevo. Ma è stato anche capo ufficio operazioni della inadeguata ECMM (Missione di monitoraggio della Comunità Europea) che doveva controllare gli accordi tra serbi e croati ed è stato addetto militare a Belgrado nel 1999, sotto le bombe anche nostre (4) : per un’alchimia tutta italiana, la nostra ambasciata non ha mai chiuso i battenti. Il nostro generale ha aspettato la pensione per dire la sua, ma è un testimone onesto: scrive solo di quello che ha visto di persona. E ne ha viste di tutti i colori: a Brcko e Velika Kladusa (Krajina) i Serbi non permettono ispezioni nelle zone contese tra Croazia e Bosnia; nel 1996 visita il campo di concentramento di Omarska, teatro di stupri e violenze di ogni genere; descrive le distruzioni di Vukovar, città martire croata nel 1991 ma martire serba nel 1995 (nell’ex-Jugo vittime e carnefici si scambiano spesso le parti) ; nel 1995 viene accolto a Zara come un doge veneziano, mentre a Sarajevo l’aereo deve scendere in picchiata per evitare i cecchini appostati sulle alture (egli.  ispezionerà il „viale dei cecchini“ ad assedio finito, nel 1996). Ispeziona la zona del mercato di piazza Markale dopo la strage (con i giornalisti già sul posto!), per dedurne che non si trattava di un colpo di mortaio ma di una bomba messa di proposito. Riesce a parlare con ambienti vicini ai mujaheddin, i miliziani musulmani stranieri venuti in aiuto di Izbegovic, verso i quali prova un’istintiva diffidenza, ed ora sappiamo di averla scampata bella (5). Non crede alla morte del comandante Arkan o almeno ha ancora qualche dubbio (forse è esfiltrato come Pavelic’). Descrive il tunnel che dall’aeroporto di Sarajevo conduceva alla città e ne permetteva il rifornimento, e che può vedere solo quando diventa vicecomandante del contingente italiano e responsabile di una delle JMC (Joint Military Committee, Commissioni militari miste); descrive il palazzo distrutto del giornale Oslobodjenje (libertà), che continuò fino all’ultimo a informare la gente. Discute spesso con generali serbi peraltro intelligenti ma tarati dall’ossessione della Grande Serbia, mentre invece a Knin i Croati negano che esistano le Krajine (all’origine: marche di frontiera abitate da soldati-contadini serbi). Ma le menzogne si sprecano, soprattutto quando – mappe alla mano – non si capisce dove siano finite centinaia di abitanti registrati in precedenza ma fuori del conto dei profughi: fosse comuni ne salteranno fuori per decenni. Descrive il ponte di Mostar distrutto, simbolo per secoli della convivenza etnica; discute le responsabilità della strage di Srebrenica voluta dal generale serbo Mladic’ (1995), affermando che, anche se i caschi blu olandesi hanno fatto male il loro lavoro, le regole d’ingaggio ONU erano troppo vincolanti (p.es. permettevano l’autodifesa ma non il combattimento), ben diverse da quelle della missione IFOR della NATO, che solo in quel di Sarajevo distrugge 20.000 tonnellate di munizioni. Quelli del nostro generale sono tutti incarichi delicati, del cui funzionamento poco o nulla sapevamo ed ora vediamo descritti dall’interno. Nell’ultima parte del libro gli Italiani proteggeranno i Serbi che lasciano Grbavica, il loro quartiere di Sarajevo: ormai hanno perso, anche se Milosevic’ ci riproverà in Kosovo, dimostrando di non aver capito niente e attirandosi le bombe della NATO. E proprio a Belgrado si consumerà a fine secolo l’ultimo atto della tragedia iniziata dieci anni prima.

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Titolo: Kosava. Vento di odio etnico nella ex Jugoslavia da Tito a Milosevic
Autore: Biagio Di Grazia
Editore: ilmiolibro self publishing
Collana: La community di ilmiolibro.it
Editore: Pubblicato dall’Autore, 2016
Pagine:264

ISBN 8892312200
EAN:9788892312203

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NOTE

  • https://www.youtube.com/watch?v=oHmSX9Z-5B0&spfreload=10 Il film è del 1978, opera del regista croato Lordan Zafranovic’. L’ho visto in un festival, ma non ha mai circolato in Italia. Ora per fortuna è su Youtube.
  • L’Armata popolare federale (JNA), l’esercito della neo Repubblica di Bosnia, quello della Repubblica Srpska, più quello della Repubblica croata dell’Erzeg Bosnia. Difficile fare invece il conto delle milizie, armate e finanziate neanche di nascosto dai vari attori politici.
  • Pulizia etnica significa trasformare una minoranza relativa in maggioranza assoluta cacciando tutti gli altri. Il termine appare negli anni ‘90.
  • Ufficialmente i nostri Tornado erano ricognitori fotografici
  • http://www.nytimes.com/2009/06/24/world/middleeast/24saudi.html

 

 

Caporetto per due

Cento anni fa noi italiani subimmo la più pesante sconfitta militare del secolo e ce ne ricordiamo ancora, visto che nel lessico comune la parola indica un collasso nazionale, una sconfitta completa e improvvisa. Ora, nel centenario, sono molti i contributi in argomento, i quali hanno analizzato migliaia di documenti inediti o di foto d’archivio (1), e sarebbe in effetti ora di metter ordine e giungere a conclusioni definitive. In questa sede ho scelto un libro che si fa apprezzare per la sua sintesi: Caporetto. Il prezzo della riscossa, di Alessandro Gualtieri (2): in sole cento pagine inquadra la battaglia e i suoi retroscena, ne descrive lo svolgimento e infine ne analizza le componenti politiche: il rimpallo delle responsabilità, lo “sciopero militare”, il disfattismo, la commissione d’inchiesta del 1919. Polemiche mai sopite: troppo spesso l’ideologia ha condizionato un’indagine storica indipendente. In più noi italiani abbiamo sempre cercato al nostro interno le cause della sconfitta, senza studiare gli archivi del nemico. Lo stesso libro che ho qui davanti, in bibliografia cita solo testi italiani.

Ma cominciamo dal luogo fisico: per capire una battaglia bisogna calpestarne il terreno. Caporetto, Kobarid per gli Sloveni, è un villaggio che occupa un’ampia conca lungo la valle dell’Isonzo dalla parte slovena, all’incrocio fra il fiume e la piana del Friuli. L’arco alpino, che ben delimita l’Italia geografica, offre da nord a est solo tre accessi: il valico del Brennero, da sempre la porta tedesca, quello del Tarvisio (dov’è passato Napoleone per entrare a Vienna) e infine la valle dell’Isonzo, che da Gorizia apre la strada per Lubiana. Il resto sono solo montagne, ottime per difendersi, pessime per attaccare. La valle dell’Isonzo scende parallela all’arco orientale delle Alpi e l’accesso per Gorizia passa per un’ampia gola scavata dal fiume tra due montagne, di fronte a Tolmino. Caporetto sta a metà valle dell’alto Isonzo e da lì un valico porta verso Cividale del Friuli. Lo scrivo perché senza un inquadramento geografico è difficile capire le battaglie, e così ho voluto passare le vacanze proprio in val d’Isonzo, seguendo la memoria di famiglia: mio nonno combatteva da quelle parti e mio zio bersagliere cadde sul campo. Ebbene, la prima impressione che ho avuto sul posto è che sfondando quella vallata, la strada per l’Italia non era aperta ma spalancata (vedi foto). Noi invece, forzando lo stesso varco in senso inverso, dove saremmo arrivati? Al massimo a Lubiana, mai a Vienna. Eppure le undici battaglie dell’Isonzo sono state combattute proprio per sfondare in Slovenia e – più a sud – – per prendere Trieste, e in tutte e undici il guadagno di terreno – a parte Gorizia – è stato minimo. Viceversa, dopo Caporetto e Tolmino al nemico si è aperta tutta la piana del Veneto; per la stessa forma dell’arco alpino, il fronte italiano dovette arretrare per intero, incalzato dai nemici, per stabilizzarsi infine lungo la linea del Piave. Poteva il nemico andare oltre? No, perché il grosso delle truppe non ce la faceva più a star dietro alle avanguardie: si era entrati in quella che von Clausewitz chiama esattamente la zona di esaurimento dell’offensiva. Vent’anni dopo avrebbero potuto farlo le Panzerdivisionen, ma nel 15-18 si andava ancora a piedi. In più, il generale Cadorna si dimostrò più abile sulla difensiva che in attacco e – soprattutto – noi italiani difendevamo ormai casa propria, quindi eravamo più motivati. In ogni caso, i nostri soldati erano migliori di quanto non credesse Cadorna, che imputò loro la colpa della sconfitta parlando di viltà, tradimento e propaganda disfattista. Oggi invece ci si chiede piuttosto come hanno fatto i soldati a resistere per tanti mesi, e questo non vale solo per la nostra fanteria: la Grande Guerra è stata unica nel suo genere.

Ma torniamo al fronte. Dopo la sanguinosa undicesima battaglia dell’Isonzo (agosto 1917) l’esercito austroungarico riteneva di non poter resistere a un’altra offensiva italiana. Al 31 agosto 1917 avevamo lasciato sul campo144.000 uomini, pagando un duro prezzo per pochi chilometri di terreno, mentre gli austro-ungarici avevano perso “solo” 85.000 uomini. Ma le loro riserve erano state logorate, mentre noi potevamo alimentare ancora la guerra. In aiuto degli Austro-ungarici intervennero allora gli alleati tedeschi, forti anche del ritiro della Russia dalla guerra e quindi della possibilità di spostare truppe da un fronte all’altro. Nel frattempo Cadorna stava preparando la dodicesima offensiva dell’Isonzo, che avrebbe dovuto far crollare il fronte tenuto con ostinazione dal generale Boroevic’, detto appunto “il Leone dell’Isonzo”, la cui strategia puramente difensiva era forse l’unica possibile, ma aveva logorato il suo esercito. Da qui l’iniziativa tedesca di attaccare in anticipo. E soprattutto, di attaccare in profondità con le innovative tattiche da poco sperimentate sul fronte occidentale e sul Carso (a Flondar nell’estate del 1917) (3) : attacco di sorpresa su un punto solo del fronte, condotto da truppe d’assalto (Sturmtruppen) appositamente addestrate, trascurando le quote e sfondando a valle. Per capirne il senso, consiglio un libro scritto dall’allora tenente Erwin Rommel, la futura Volpe del deserto: Fanteria all’attacco (4), ma da noi tradotto solo nel 1982. Il suo reparto di assalto addirittura prese le nostre posizioni aggirandole alle spalle e penetrò per chilometri in profondità fino a Lavarone. Tutto questo mentre il nostro Comando ancora non aveva capito la reale portata dell’offensiva nemica. Offensiva preparata con cura e in gran segreto, anche se i movimenti delle truppe tedesche non erano passati inosservati: la 14° Armata di Otto von Bulow, pur muovendosi di notte, non era una formica. Il nostro comandante supremo, generale Luigi Cadorna, sapeva bene che l’uscita dei Russi dalla guerra significava un prevedibile spostamento di riserve dal fronte orientale a quello occidentale. Ma l’offensiva italiana era prevista per la primavera del 1918, quindi lo schieramento italiano era al momento puramente difensivo e fu consolidato per l’inverno. Ma almeno su una cosa le fonti concordano: eravamo troppo sbilanciati in avanti. Aver occupato parte di una vallata per avere le quote di fronte e un saliente incuneato da nord e indifendibile significava rischiare la tenaglia in caso di controffensiva nemica. L’artiglieria era in posizione avanzata, il grosso degli uomini era sulle prime linee, ma la seconda linea era sguarnita, le riserve lontane e impreparate. Ora, concentrare tutte le forze in un punto avanzato è un errore, perché una volta sfondata la prima linea, dietro non ci sono forze di manovra per una controffensiva. Von Clausewitz su questo punto è chiaro: nella guerra di montagna non si deve concentrare tutta la difesa sul valico: prima o poi il tappo salta, quindi è meglio scaglionare le difese in profondità. Ma la manovra era un concetto entrato tardi nel cervello dei generali della Grande Guerra, ossessionati tutti dalla difesa esasperata della posizione. Più moderni i tedeschi, come Ludendorff, il quale nel 1917 introdusse il principio della difesa elastica e del contrattacco da linee fortificate arretrate, contro cui s’infransero tutti gli attacchi alleati dal 1917 in poi.

Dalla parte nostra, queste due teorie avevano al fronte i loro campioni: i generali Cadorna e Capello, simili per tenacia ma sempre in attrito fra di loro; attaccato il primo in modo maniacale all’attacco frontale e alla difesa ad oltranza della posizione statica, più orientato il secondo verso la manovra. Luigi Capello era dunque più moderno e in caso di offensiva nemica avrebbe voluto lanciare una controffensiva strategica, ma comandava solo la seconda Armata, mentre Luigi Cadorna era il comandante supremo di tutto lo schieramento. Nessuno dei due aveva capito in realtà cosa fare esattamente e lo scarso coordinamento tra i due portò solo guai. In più va registrata la presenza del generale Badoglio, in assoluto il militare più dannoso della storia italiana: il XXVII corpo d’Armata da lui comandato, che teneva la zona di Tolmino – la più esposta, visto che gli austro-ungarici tenevano saldamente l’altra riva dell’Isonzo – rimarrà praticamente inerte di fronte all’attacco nemico. Badoglio se la caverà sempre e invece di andare a casa farà ancora danni fino all’8 settembre del 1943 e oltre.

Ma passiamo ora alla battaglia vera e propria. L’attacco inizio la notte del 24 ottobre, e qui consiglio un libro scritto dal nemico – perlomeno è imparziale: Dal monte Nero a Caporetto : le dodici battaglie dell’Isonzo, del tenente di artiglieria austriaco Fritz Weber (5). Senza entrare nei dettagli, questi i punti saldi della storia: l’attacco fu condotto con largo uso di gas e colse di sorpresa le prime linee. Il pesante bombardamento, accompagnato quasi subito dall’attacco delle truppe d’assalto, sconvolse lo schieramento avanzato, tutto proteso dentro ardui salienti. Cadorna non si rese conto subito della situazione, sia perché sclerotizzato sulle proprie idee, sia perché fino allora le fanterie non seguivano immediatamente le linee di fuoco raggiunte man mano dall’artiglieria. Questo stretto coordinamento tra fuoco e movimento era uno sviluppo tutto tedesco, come pure l’uso di truppe d’assalto ben addestrate e decise. Altra novità nell’arte della guerra: sfondare a valle e trascurare le quote: le posizioni italiane furono aggirate o semplicemente lasciate indietro. Il resto fu panico generale, malamente controllato dagli ufficiali, anche se la ritirata non si tradusse in una rotta: alcuni reparti si sacrificarono per coprire il ripiegamento e alla fine Cadorna riuscì a riorganizzare le file. Quindi i motivi della sconfitta vanno ricercati da un lato nella rigidità dello schieramento italiano, troppo avanzato e con riserve mal posizionate e un sistema di comunicazioni sconvolto dall’attacco; dall’altra nella superiorità tattica e strategica non tanto degli austro-ungarici, quanto dei loro alleati tedeschi. Gli stessi austro-ungarici furono infatti spiazzati dalla rapidità delle operazioni – come risulta dai loro rapporti – e anche se dilagarono per tutto il Veneto e Friuli, alla fine dovettero fermarsi anche loro per esaurimento. La disfatta di Caporetto ci costò circa 12.000 morti, 30.000 feriti e 265.000 prigionieri, nonché un clima di caos, distruzioni, razzie e violenze gratuite (drammaticamente descritte da Ernest Hemingway in “Addio alle Armi”) che seguirono al dilagare del nemico, ora realmente “invasore”, in tutta la pianura veneta. Al 9 novembre la linea del Piave era il nuovo fronte consolidato e da lì sarebbe partita la riscossa (6).

Questo in sintesi. Tralascio per brevità l’analisi dei movimenti sul terreno dei singoli reparti; chi vuole se li può guardare sui tanti libri in argomento. Perché il piatto forte di Caporetto non è tanto la battaglia in sé, ma la polemica interna al nostro esercito, che dura realmente da cento anni. La superiorità tattica e strategica germanica alla base della nostra sconfitta è sempre passata in secondo piano rispetto alle nostre polemiche interne. Intanto, il nostro comando era mal coordinato: il generale Capello disobbedì a Cadorna avendo in mente una manovra controffensiva, mentre Badoglio non intervenne con la sua artiglieria. Nella realtà era saltato tutto il sistema di comunicazioni campale, ma proprio per questo vennero alla luce i contrasti tra i capi, ognuno dei quali conduceva una guerra propria senza informare l’altro: Capello voleva manovrare mentre Cadorna si ostinava invece a tenere la posizione, mentre Badoglio era assente dalla prima linea. Sono comunque i difetti tipici della guerra di posizione, che funziona fino a quando qualcuno sfonda e spazza tutto. Tutto questo fu studiato e sviscerato a fondo dalla commissione d’inchiesta che presto si riunì, e i cui atti sono tuttora una fonte storiografica (7). Forse il generale Capello avrebbe potuto contrastare l’offensiva nemica, viste le sue concezioni più moderne di quelle di Cadorna, che insieme ad Haig, Joffre e Nivelle rappresentava invece la sclerosi tattica strategica: attacco frontale e difesa a oltranza, rimpinguando di carne da macello sempre e solamente quelle stesse prime linee avanzate. Sicuramente Badoglio fece peggio, anche se ne uscì bene grazie alle sue amicizie.

La colpa però non era dei soldati. E qui passiamo a un altro aspetto della storia. Cadorna fin dall’inizio accusò i soldati di codardia, di tradimento e non risparmiò accuse alla propaganda disfattista e al fronte interno. Atteggiamento ingeneroso, tipico dei generali della sua epoca, ma che non fu subito rispedito al mittente: ai militari faceva comodo scaricare sulla truppa e sui politici le responsabilità, quando l’unica vera carenza della politica italiana (ma anche francese e inglese) consisteva proprio nello scarso controllo sui generali onnipotenti: Cadorna fu sostituito dal Governo solo dopo Caporetto e in assoluto è stato il comandante italiano più potente della storia nazionale. Dal canto loro i movimenti socialisti e pacifisti poco avevano fatto per impedire la guerra e l’onda lunga della Rivoluzione Russa del 1917 ancora era lontana. Piuttosto, in tutta Europa nel 1917 c’erano stati scioperi nelle industrie belliche, ma questo perché per alimentare il fronte intere popolazioni erano ormai alla fame e ogni famiglia aveva almeno un figlio caduto in guerra. La società civile non era parte del conflitto come nella seconda Guerra Mondiale, ma stava al collasso. Sempre nel 1917 alcuni reggimenti francesi si ammutinarono e la repressione non bastò a calmare il malcontento. Dare quindi la colpa alla propaganda pacifista e disfattista è riduttivo: almeno in Italia non era influente, nonostante la presenza della Chiesa cattolica. Semplicemente, ai soldati era stato chiesto troppo e alla fine la struttura ha collassato. Ma il fante italiano alla fine si è rialzato e ha vinto, quindi le accuse di Cadorna sono tipiche dell’epoca, ma ingiuste. Oggi poi i tempi sono cambiati e la domanda che ci si pone a cento anni di distanza è piuttosto un’altra: ma come hanno fatto i soldati a resistere per anni in quelle condizioni? La fanteria sapeva che una volta uscita dalle trincee sarebbe stata fatta a pezzi, eppure andava all’attacco. I soldati di tutti gli eserciti della Grande Guerra hanno dimostrato doti di sopportazione alle fatiche e alla vita di trincea oggi improponibili, comandati da generali che oggi finirebbero alla corte marziale dopo un mese e che invece all’epoca furono celebrati come eroi. Nelle foto della Guerra Mondiale i fanti di tutti gli eserciti hanno lo sguardo straniato del contadino mandato su un altro pianeta, mentre nelle immagini della guerra successiva il mestiere delle armi sembra esercitato da professionisti competenti, vista anche la meccanizzazione delle forze armate sviluppata nel frattempo. Caporetto appartiene davvero a un’altra epoca. Ma se ne parla ancora.

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Caporetto. Il prezzo della riscossa
Alessandro Gualtieri
Editore: Mattioli 1885, 2014, p. 101, ill.

Prezzo: € 6,00
EAN: 9788862614313

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NOTE

  • es. le opere di Paolo Gaspari: Le bugie di Caporetto. La fine della memoria dannata (2011); La verità su Caporetto (2012); La battaglia dei generali. Da Codroipo a Flambro il 30 ottobre 1917 (2013); La battaglia dei gentiluomini. Pozzuolo e Mortegliano il 30 ottobre 1917 (2013); – tutte stampate da Gaspari editore di Udine. Recentissimo poi è Caporetto una storia diversa, di Claudio Razeto, Edizioni del Capricorno, 2017., corredato da centinaia di foto anche inedite provenienti dagli archivi ANSA e collegati..
  • Il prezzo della riscossa. / Alessandro Gualtieri. – Mattioli 1885 editore, 2014

 Flondar 1917 .Il presagio di Caporetto / Mitja Juren, Nicola Persegati, Paolo Pizzamus . Gaspari editore, 2017

 

 

 

Il castello dei servizi incrociati

L’autore vive a Roma ed è un ufficiale americano in pensione, ben noto per i suoi incarichi accademici presso università private nel campo delle scienze politiche e per gli accurati suoi studi sul terrorismo internazionale (1). Sistematico e poco ideologico, il suo stile è ben diverso da quello di tante opere italiane ideologicamente orientate ma spesso carenti nella documentazione e quindi scientificamente poco attendibili. E proprio di queste ultime parla il libro, che analizza quasi cento opere italiane che riguardano il terrorismo e la politica italiana, scritte dal 1965 a oggi. L’autore in realtà si occupa espressamente delle opere dove vengono analizzati i rapporti tra Italia e Stati Uniti, lasciando ai politici italiani il compito di fare chiarezza sui nostri servizi segreti deviati, sulle trame nere, su Gladio, sulle Brigate Rosse e via discorrendo, Il suo impegno è (testuale) “esaminare il tema dell’asserita ingerenza americana con dinamiche sovversive e terroristiche degli affari interni italiani per il tramite della NATO, dei servizi d’intelligence d’oltreoceano e di altri strumenti e collegamenti” (p.63).

Tutto comincia infatti nel 1949, quando l’Italia entra nella NATO. E qui vanno chiariti alcuni elementi storici basilari: l’ingresso nell’Alleanza Atlantica trovò nemici sia a destra che a sinistra, anche se per motivi diversi; ma fece rientrare a pieno titolo l’Italia tra i paesi europei dopo una guerra persa nel peggiore dei modi. Inoltre, il distacco di Tito dall’egemonia sovietica evitò un’altra frontiera militare col Patto di Varsavia, anche se comunque lo scontro sarebbe avvenuto nelle pianure polacche e tedesche piuttosto che a Gorizia. Infine, a differenza del Sudamerica, in Europa gli Stati Uniti hanno sempre preferito rinforzare il centro piuttosto che puntare sulla destra nazionalista (a loro ostile), tenendo anche conto che l’Italia repubblicana e democratica è stata ricostruita da partiti estranei persino all’idea di nazione – penso alla DC di De Gasperi e al PCI di Togliatti. Da approfondire casomai è il rapporto tra servizi d’informazione alleati all’interno della NATO, sicuramente squilibrato a favore degli Stati Uniti, sia perché potenza egemone, sia perché la politica estera italiana talvolta si è dimostrata relativamente indipendente da quella americana, suggerendo ai nostri alleati una certa prudenza nello scambio d’informazioni: basti pensare ai rapporti diplomatici tra Aldo Moro e i Palestinesi dell’OLP o all’equilibrismo mediterraneo di Andreotti. Dunque la corrispondenza non sempre è stata biunivoca e sarebbe anzi interessante discuterne direttamente con l’autore. Alcuni storici sono convinti, p.es., che il Patto Atlantico comprendesse anche protocolli segreti sullo scambio di informazioni tra alleati. Ma da qui affermare che i servizi segreti americani o chi per loro si sono da sempre intromessi nelle faccende italiane ce ne corre: per dimostrare una tesi occorrono infatti prove documentate, e qui entriamo nel vivo. Le opere qui analizzate una per una sono state scritte in tempi diversi da una serie di autori seri e meno seri, alcuni dei quali hanno riempito anche le cronache giudiziarie ora come terroristi o collaboratori dei servizi deviati (ma esistono forse servizi segreti normali?), militari di alto grado, millantatori, ambigui avventurieri della politica e della penna; altri sono magistrati, giornalisti, funzionari, ambasciatori come Sergio Romano e persino presidenti della Repubblica, come Francesco Cossiga. Ma anche gli editori sono i più disparati: Feltrinelli e Mondadori stanno in compagnia di strani editori e oscuri tipografi e solo aver potuto leggere tanti libri ormai introvabili è già un risultato in assoluto. L’arco di tempo copre praticamente dagli anni Cinquanta a oggi, con forti accenti su Gladio, gli Anni del Piombo, il caso Moro, mentre, finita la Guerra Fredda, sembra che l’Italia non interessi più a nessuno.

Ma torniamo al problema: chiarire se e quanto gli USA hanno interferito nella politica italiana, e non solo per evitare che i comunisti arrivassero al governo. Intanto, nel centinaio di opere che l’autore ha passato al setaccio è impressionante la quantità di inesattezze e superficialità ivi contenute. Alcuni sono strafalcioni che non farebbe neanche uno studente di scienze politiche: nomi trascritti male, comandi e reparti militari inesistenti o male identificati, gradi incompatibili con le funzioni svolte o con il periodo di servizio, poteri o deleghe impossibili da ottenere. E’ una serie di errori che dimostra da parte italiana una notevole ignoranza del funzionamento della NATO, della CIA, del Vaticano e persino delle proprie istituzioni. L’altra serie di inesattezze è piuttosto una questione di metodo: ammesso che un’informazione sia documentata, viene accostata ad altri dati – documentati o meno – per confermare la tesi del complotto di turno. Perché di complotti si parla dall’inizio alla fine, dove entrano in scena – affollatissima – la CIA, le Brigate Rosse, i NAR, la NATO, la P2, l’URSS, il SID, il SIFAR, i NAR, Gladio/Stay behind, il KGB, l’NSA, il Mossad, la Massoneria e il Vaticano, qualche volta si direbbe persino tutti insieme di concerto. Che nelle trame nostrane si siano infilati anche attori stranieri è verosimile, ma a leggere tutte le schede dei libri qui citati ne esce un delirio. C’è evidentemente nell’anima italiana il gusto per l’intrigo, come nel Rinascimento descritto da Machiavelli. Già, ma le prove? Vengono accostati continuamente elementi diversi ma le conclusioni sono deboli: si parte sempre dal teorema e le prove si cercano dopo, come in certa prassi giudiziaria nostrana. Come i pentiti di mafia, troppi testimoni non raccontano quanto hanno fatto, ma cosa hanno sentito da altri, col risultato di imbrogliare le carte già confuse in partenza, invece di far luce sugli avvenimenti con prove certe e documenti attendibili. Persino le relazioni parlamentari sono piene di verbi al condizionale, di termini come “forse”, “si suppone”, “probabilmente”, etc. E quando a scrivere in questo modo non sono solo giornalisti screditati o militanti usciti dal nulla, ma anche magistrati del calibro di Edoardo Imposimato, la cosa può anche sorprendere. Più credibile Francesco Cossiga, che perlomeno come ministro degli Interni e Presidente della Repubblica ha potuto accedere a documenti attendibili.

Ma il sottotitolo del libro recita: “disinformazione”. Si tratta di una tecnica usata da sempre dai servizi segreti o meno per screditare l’avversario, e qui l’autore lascia intendere che molte opere avevano una funzione diffamatoria. Un esempio è qui documentato: il manuale FM 30-31 B datato 1970 e concepito come strumento programmatico per interventi destabilizzanti negli affari interni di paesi dove operasse un forte partito comunista. FM sta per Field Manual, manuale da campo e non “direttiva” come è stato spesso tradotto. Aggiungo pure che, a differenza delle nostre “librette”, la serie FM è sempre stata accessibile e ora è anche sul web, altro che Top Secret!. Tornando al nostro manuale, si trattava in realtà di un apocrifo ben confezionato dal KGB, ma fu preso per buono almeno per dieci anni buoni, nonostante alcune incoerenze interne. Ma disinformazione è anche insinuare coscientemente complicità non provate, ricostruire continuamente la storia al di là di un ancor tollerabile revisionismo, con uso di metodiche espositive tendenziose. E come si fa a identificare la disinformazione? L’autore lo spiega nel paragrafo 1.4 (pagine 27-35, che dovrebbe essere preso ad esempio anche dagli archivisti.

Ma quali sono alla fine le conclusioni? Vittorfranco Pisano non ha difficoltà a dire che ogni Stato usa i propri servizi d’intelligence a proprio favore: fa parte delle prerogative delegate alla Difesa, e cita anche una serie di esempi storici recenti. Parimenti, ogni Stato cerca con la diplomazia o con mezzi economici di portare a proprio vantaggio la politica estera: fa parte del gioco politico tra nazioni. Il più delle volte queste politiche vengono espresse in modo palese e anche questo rientra nella dinamica dei rapporti internazionali. La sicurezza è una funzione primaria. Ora, è chiaro che il peso strategico degli Stati Uniti può influenzare la politica di una media potenza come l’Italia e anche condizionarne gli orientamenti politici ed economici. Come dire: gli Stati Uniti non hanno mai avuto bisogno di giocare sporco con l’Italia, visto che gli stessi risultati potevano essere ottenuti con mezzi legali. L’Italia non è mai stata una “sorvegliata speciale” o “una colonia”, come si legge in alcuni dei libri analizzati, e nella NATO ci sta dal 1949. E in ogni caso, il panorama storico e politico che quel centinaio di libri vorrebbe ricostruire è spesso basato su un castello di carte. Più che storiografia è story-telling, narrazione.

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Italia Stati Uniti. Terrorismo e disinformazione
Vittorfranco Pisano
Editore: Nuova Cultura, 2016, p. 278

Prezzo: € 25,00
EAN: 9788868127459

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Italia Stati Uniti. Terrorismo e disinformazione
Vittorfranco Pisano
Editore: Nuova Cultura, 2016, p. 278

Prezzo: € 25,00
EAN: 9788868127459

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Storici viaggi fantastici

“Il mito non è opera di pura fantasia. Tra il fatto e il mito c’è sempre l’intervento del linguaggio, ovvero del poeta”

L’autrice è fuori schema: archeologa e filologa dilettante ma profonda conoscitrice della cultura classica, è una viaggiatrice curiosa e attenta, ha girato mezzo mondo alla ricerca di connessioni tra miti, parole, cultura materiale e siti archeologici. In questo libro si parte dall’isola d’Elba per bordeggiare mar Tirreno e Ionio e approdare in Grecia. Scopo del viaggio: sulle orme di Glauco, divinità marina venerata nel Mediterraneo, di origine forse pre-ellenica e protettrice anche della metallurgia.

L’autrice sa bene che il mito sopravvive agli eventi storici e lascia tracce nelle lingue, nei toponimi e nell’uso sociale. In più ha un’intuizione originale: gli antichi colonizzatori nomadi che solcavano il mare – Tirreni o Etruschi o Pelasgi che fossero – cercavano lungo le coste i metalli da commerciare o sfruttare. Da qui un viaggio dall’Elba cabotando fino a Otranto e Corfù, a bordo di un cabinato di sei metri, lottando contro i vènti contrari e uno skipper infido e traditore. L’itinerario tocca Talamone, le bocche d’Ombrone, il litorale dal Circeo a Ventotene, Amalfi, Agropoli, la foce del Sele, Paola, Scilla e Cariddi, Melito, Crotone, Ugento, porto Badisco, Otranto e Fanò (Corfù). Le soste forzate sono occasione di puntate nell’interno, magari per incontrare un direttore di museo o visitare zone archeologiche. Conversare con lei è sempre produttivo: la nostra scrittrice non parte da idee astratte, ma si è documentata ed è sempre pronta al confronto. Sa poi che le culture antiche sono resilienti nelle zone residue, quindi è sempre pronta a veder ninfe e dèi nei santuari cristiani di Puglia e Calabria In più ha una certa competenza in mineralogia e l’occhio del geologo, per cui individua a colpo sicuro giacimenti minerari superficiali e residui di antichi forni o di colture ormai dismesse. Anche i toponimi parlano: quelli legati ai radicali Laur, Kamari e Pelekys rimandano alla lavorazione dei metalli (p.es. Kaminia, Kamarina). Radicali naturalmente collegati ad altre lingue del Mediterraneo, della Tracia, del vicino Oriente.

Qualche volta gli accostamenti possono essere azzardati, ma comunque suggestivi. Il viaggio infatti riprende per le isole greche e lungo la costa una volta greca dell’Asia minore, e infine in Beozia e Tessaglia. Glauco e i fabbri sembrano onnipresenti ancorché nomadi. All’isola di Lemno poi non ci sono più alberi, ma Efesto aveva la sua fucina, Prometeo portò il fuoco, mentre i Cabiri – sorta di Dioscuri – hanno lasciato tracce di sé persino nelle chiese cristiane a doppio abside. Sicuramente la memoria collettiva si conserva per secoli, come nella comunità dei pastori Vlach o Valacchi (= Fulakes, guardiani), ma l’autrice sa bene anche che il benessere e la globalizzazione sono capaci di distruggere una cultura assai peggio di un’invasione barbarica. Nella storia delle civiltà l’autrice vede solo sopraffazione di una nazione sull’altra, e qui rivive sicuramente il proprio trauma di profuga fiumana. E chissà se ha letto gli stupendi libri sulla religione antica scritti da Angelo Brelich, fiumano come lei ma di origine ungherese.

 

Arabia In-Felix

Sull’Arabia Saudita le opere in italiano non sono molte e il libro di Liisa Limatainen riempie un vuoto, visto che il documentato libro di Pascal Menoret, Sull’orlo del vulcano. Il caso Arabia saudita risale al 2004 e ha un taglio accademico, mentre la Limatainen è una nota giornalista finlandese che da anni vive a Roma, ma ha scritto già un libro sull’Iran (non ancora tradotto) ed ora ci offre uno spaccato trasversale dell’Arabia saudita, una nazione strategicamente importante quanto ideologicamente arretrata, ai limiti del medioevale. E se il libro di Menoret si preoccupava delle future conseguenze dell’immobilismo della famiglia reale e della dirigenza religiosa, il crollo del prezzo del petrolio ha messo ora in crisi il patto sociale che manteneva stabile la società saudita: benessere senza diritti civili. Stiamo parlando di un paese dove non esiste parlamento né codice civile e penale strutturato, dove le esecuzioni capitali avvengono sulla pubblica piazza e la polizia religiosa bastona i trasgressori; un paese dove la popolazione ha una scarsa coscienza dei diritti civili e l’estesa famiglia reale ha il monopolio di tutte le attività politiche e produttive. Ma è anche un paese dove più della metà della popolazione è giovane, ma oggi è disoccupata e non può comprar casa. Quanto alla condizione femminile, l’Arabia saudita vieta alle donne di guidare l’automobile e praticamente prevede una tutela continua di un familiare maschio. Peccato che le donne siano ben più colte degli uomini – molte hanno studiato all’estero – e stiano anche lavorando sul Corano per discuterne il reale messaggio sociale. E proprio con molte donne Liisa ha parlato: attiviste politiche, avvocate, impiegate, ma anche donne comuni, pur con il limite di un interprete. E’ stato un lavoro paziente e sistematico, ma alla fine esce un quadro anche diverso da come ci s’immagina una società in realtà molto complessa e diversificata sia per zone geografiche che culturali, ma che continua a confondere la modernizzazione con la modernità e ha re islamizzato un paese islamico pur di battere la concorrenza degli integralisti religiosi. Integralismo che sta alla base dello stato stesso, che non è – si badi – uno stato teocratico, ma condizionato da un’alleanza di ferro fra un clan tribale originario e il clero rigorista wahabita. Ora, per capire la differenza tra questa corrente rigorista e il resto dell’Islam, si tenga presente che la fonte del diritto è naturalmente il Corano e l’insieme dei detti del profeta, ma le scuole coraniche non rigoriste accettano anche l’enorme corpus del diritto consuetudinario che gradualmente si è formato attraverso migliaia se non milioni di sentenze dei tribunali islamici. Questo ha perlomeno adattato alla modernità usi e costumi pensati mille anni fa da una società di allevatori nomadi, analogamente all’interpretazione della Bibbia rielaborata dai nostri teologi. E’ chiaro che il Diritto Romano nulla deve alla divinità, ma stiamo parlando di un altro mondo. Ora, l’interpretazione wahabita non tiene conto proprio delle sentenze del diritto consuetudinario, congelando il diritto alle prime due fonti e di fatto rifiutando la modernità e costringendo la gente ad applicare le regole in modo dogmatico e rigido. E qui subentra la famiglia reale – in realtà un clan tribale superficialmente modernizzato – dagli anni Trenta del secolo scorso è custode dei luoghi sacri del Corano, a cominciare dalla Mecca, e questo dà un prestigio immenso nel mondo musulmano. In più, naturalmente, il petrolio, che ha permesso di stabilire con gli Stati Uniti un patto che risale agli anni Trenta del secolo scorso: protezione in cambio di petrolio e ruolo di mediazione con gli altri paesi arabi. Le forze armate saudite hanno più mezzi che soldati, e proprio ieri gli USA hanno venduto loro armi per 100 miliardi di dollari. Questo non toglie che negli ultimi anni i rapporti tra i due paesi non sono buoni: gli Usa non sui sono mai intromessi nel sistema medievale con cui è governata l’Arabia saudita, ma il finanziamento neanche tanto occulto con cui i salafiti foraggiano il terrorismo islamico e centinaia di moschee integraliste ha provocato reazioni che hanno modificato comunque i rapporti diplomatici tra i due paesi. L’Iran è un antagonista, l’Arabia saudita un ambiguo alleato dell’Occidente, ma anche la pazienza ha un limite. Ma che il paese abbia un peso lo indica il suo ruolo all’ONU nella Commissione per i diritti umani, che è come affidare il ministero degli Interni ad Al Capone. E qui arriviamo al punto nodale: se il livello di civiltà di un paese si misura sulla base del rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche – afferma la Limatainen (ma potrebbe dirlo chiunque) – allora l’Arabia saudita è uno degli stati più retrogradi della Terra e in più opprime le donne in maniera patologica, e il libro è pieno di esempi.

Il lettore intelligente si chiederà a questo punto: ma quanto può durare uno stato simile? La guerra in Yemen è costosissima, l’economia non è diversificata, la metà dei giovani non può comprar casa o trovare lavoro e quindi non può sposarsi subito. Nonostante il petrolio la metà della popolazione vive in povertà, la scuola non prepara i tecnici e la modernità non può essere governata con un codice buono per i beduini. Quello che è peggio, i giovani militarmente addestrati all’estero o in patria, quando tornano diventano i più pericolosi nemici della famiglia reale, e in questo la politica saudita alleva piccoli Frankenstein, come dice la Limatainen. Ma nemmeno la popolazione normale è ferma: pur in un regime di censura, nei soli ultimi cinque anni è esploso il Web, tutti i giovani sono connessi e possono farsi un’idea di come vivono gli altri. Il confronto non è tanto con il corrotto e infedele Occidente, ma proprio con i paesi vicini e affini – Oman, Emirati arabi, Dubai, col risultato di vedere che si vive meglio e con un minimo di diritti civili. Le strade sono dunque solo due: una lenta, progressiva apertura verso una rappresentanza politica delle classi sociali, unita a una modernizzazione legislativa e scolastica adeguata ai tempi. Se la famiglia reale sarà capace di trasformare il potere in una monarchia costituzionale, bene. Altrimenti è facile prevedere una serie di rivolte sanguinose entro pochi anni. Staremo a vedere.

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Titolo: L’Arabia Saudita. Uno Stato contro le donne e i diritti
Autore: Liisa Liimatainen
Titolo originale: Saudi-Arabian toiset kasvot. Rohkeita naisia ja Kybernuoria
Traduzione: Irene Sorrentino
Editore: Castelvecchi, 2016, p. 284
Prezzo: 19,50 euro

EAN: 9788869446498

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Qualcosa di più:

Arabia Saudita: Le donne si ribellano al controllo maschile
I Diritti Umani secondo i sauditi

Un anno di r-involuzione araba
Primavere Arabe: il fantasma della libertà
Donne e Primavera araba. Libertà è anche una patente

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