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“A volte ritornano”: Federico Fellini

Racconto o sceneggiatura? Non è chiaro in quale tipologia di opera collocare questo “dattiloscritto” di Federico Fellini come lo presenta Augusto Sainati che ne ha curato l’adattamento letterario. Per essere corretti (o quasi) si può dire che è nato sceneggiatura ed è finito racconto. Poco meno di 60 pagine trovate senza copertina ma segnate dall’inconfondibile (per gli esperti) scrittura di Fellini, in una scatola donata da Tullio Pinelli al sopracitato Sainati, nella quale oltre a questo inedito si trovavano numerosi altri documenti legati alla coppia Fellini – Pinelli e finiti per lungo tempo nel dimenticatoio.

Il motivo per cui tra i tanti incartamenti proprio questo abbia colpito il curatore non tarda a venire a galla: il suo aspetto un po’ anonimo e una rapida analisi dei contenuti hanno sollevato in lui non pochi quesiti in merito all’abbandono di questo progetto a cui, a suo dire, non mancava proprio nulla per compiere il passo finale verso la produzione cinematografica. Quesiti che sembrano trovare una risposta esauriente in alcune lettere trovate e nel libro inserite, che la produzione italiana e quella americana si sono scambiate dopo aver letto il progetto dei due autori.

Sainati ha rilevato in esse una sorta di eccessiva “americanizzazione” della sceneggiatura che troppo si discostava dalle idee di un giovane Fellini che, seppur non ancora affermato, dimostrava già una certa fermezza su suoi lavori. Non meno importante è il motivo per cui tale opera non figuri in nessuna delle biografie felliniane, nessuna menzione in nessun testo, ma questo è un mistero destinato a rimanere irrisolto.

Per fare maggiore luce su questo inedito cominciamo con il soggetto: nei sobborghi di una Napoli di fine anni ’40 che ancora porta le ferite di guerra vivono due “scugnizzi” (come li chiama Fellini), poveri e orfani che campano arrabattandosi in mestieri di strada che a malapena bastano per un boccone di pane. Carmine e Celestina, questi i loro nomi, dopo una serie di avventure non proprio positive si ritrovano a bordo di una nave americana prossima a salpare verso il nuovo continente; i due seppur in clandestinità decidono di cogliere al volo l’occasione per fuggire dalla loro città natale verso quel sogno americano chiamato New York. Le loro speranze però verranno presto smorzate dalla realtà di una città per loro immensa e di una società nuova in cui non è facile inserirsi e dove solo il buon cuore di alcune persone potrà salvarli da un triste destino.

Ci sono due frasi all’interno del testo che colpiscono particolarmente, specialmente perché dette da due bambini la cui età non è specificata ma che probabilmente si aggira intorno ai dieci anni.

Carmine sostiene infatti che: “Prima quando ci steveno gli americani, allora c’era da faticà pè tutti… Ma adesso gli americani se ne sono andati… e simme tanti a Napoli, simme troppi…” e Celestina avvalora questa tesi dicendo: “Jammocenne, jammo int’America, a Napoli non ci voglio tornare chiù”. Bambini vissuti quindi, bambini i cui occhi hanno visto abbastanza in una città devastata che altro non promette loro che fame e povertà, alimentando nei loro cuori il desiderio di scappare in cerca di qualcosa di più, e quel qualcosa è rappresentato da quel continente che per tutti (allora come oggi) è noto come il paese delle opportunità.

Napoli – New York è una storia toccante scritta da un simbolo o forse è meglio dire dal simbolo del cinema italiano: Federico Fellini, aiutato ovviamente dall’inseparabile amico Tullio Pinelli. L’analisi di Augusto Sainati evidenzia come i punti chiave e le linee guida di tutti i film nati dalle loro menti siano presenti anche in questa sceneggiatura che purtroppo non ha avuto la buona sorte di arrivare sul grande schermo. Fortunatamente non tutto è perduto e se non al cinema perlomeno grazie all’immaginazione è possibile ricreare tutta l’avventura vissuta dai due giovani scugnizzi figli del geniale duo che ha fatto la storia del cinema italiano.

 

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04 Libri Napoli New YorkTitolo: NAPOLI – NEW YORK. Una storia inedita per il cinema

Autori: Fellini Federico, Pinelli Tullio

Curatore: Sainati Augusto

Casa editrice: Marsilio (Collana Gocce)

Anno: 2013

P. 157

Prezzo: € 12,00

Disponibile anche in ebook

http://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/3171674/napoli-new-york

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Ballerina Inglese

Infatti la Ballerina inglese è un tipo di barca da diporto diffusa dagli anni ’50 ai primi anni ’60, e se per questo c’è pure la Passera istriana (1). Ormai ci vivo da tre mesi: sfrattato, ho accettato la proposta di un mio amico: mi permette di vivere fino a maggio dentro il suo cabinato, ormeggiato in quel di Fiumicino, con l’impegno di fargli da guardiano e curare la manutenzione dello scafo. A fine settembre, in Italia, la maggior parte delle barche – bianche, tutte uguali, stampate in vetroresina – finisce ormeggiata e lì resta fino a marzo, quando la gente ricomincia a uscir per mare, e molti sono gli skipper che d’inverno campano tenendo in ordine le barche degli altri. Nessuna legge vieta di vivere in barca, anche se lo fanno in pochi: dove si atterra ci si registra alla Capitaneria di Porto mantenendo comunque residenza e domicilio da qualche parte (2). Ho comunque una patente nautica entro le sei miglia, anche se navigo poco, e con la mia esperienza so anche come mantenere una barca di legno nei mesi invernali. Per chi non abbia chiaro come si vive a bordo, dirò subito che lo spazio non è molto. Ho letto di professionisti che abitano realmente in una barca ormeggiata in porto, ma parliamo di scafi dai 12 metri in su, non di un 6 metri dove dovresti far entrar tutto. Anche se per diporto ci vanno in giro famiglie intere, spesso si litiga. C’è un vano triangolare chiuso a prora – il gavone di prora – e lì possono dormire anche un paio di persone, quando non è occupato dai sacchi delle vele e allora si chiama cala di prora. Il resto dello spazio interno va diviso tra due cuccette-divani lungo i lati di uno spazio oblungo, dove ci devono entrare anche il cucinotto, il tavolo di carteggio, un ripostiglio e almeno un armadietto o qualche mensola. In più, il bagno (3). Il resto è coperta, ed è proprio lo spazio esterno a permettere la vita di bordo: ci si sfoga vivendo in mare e non certo stando chiusi in una scatola. Quando stai in barca vivi poco sottocoperta e molto invece sopra: la vela ti tiene sempre impegnato, preso come sei da drizze e manovre e turni al timone Il tempo che si passa sottocoperta è dunque tollerabile perché breve. Tutto questo lo dico per illustrare la mia nuova, strana situazione: io ero un naufrago in porto, ma la rinuncia a tutto ciò che avevo in casa alla fine l’ho vissuta come una liberazione e non come un sacrificio. Dimenticate guardaroba, mobili e soprammobili, stoviglie ed elettrodomestici; vendetevi i libri che non leggete. Ricordatevi della naia, quando nell’armadietto di metallo doveva entrarci tutto. E sappiate che se una barca è vissuta, gli interni non somigliano mai a quelli delle riviste di nautica: ci si muove, si occupa spazio; un oggetto fuori posto si nota subito e nessuna barca è pulita come al Salone nautico. L’umidità poi va tenuta continuamente a bada. Così infatti scriveva Patrick Ellam, mentre il suo sloop “Sopranino” di sei metri usciva dalla Manica diretto a Plymouth, alla partenza della regata di Santander:

· “Due buone cuccette asciutte, due stufe, un gabinetto, una tavola per carteggiare, provviste abbondanti. Cosa può desiderare di più un marinaio?” (4)

· Ma chi pensa che io abbia rotto i ponti con la civiltà è un ingenuo: intanto sono ormeggiato a Fiumara Grande e non sull’isola deserta (5). Stodavanti all’ Isola Sacra, formata dal delta del fiume Tevere durante i secoli ed ora ampiamente (e abusivamente) urbanizzata. A parte una cassetta di metallo dove tengo i documenti e i ricordi personali (6), ho un cellulare e un portatile con chiavetta, in più da qualche parte verso il porto canale dev’esserci un internet point. Qui è pieno di antenne Gomex per vedere la tv a bordo, ma io me la vedo al bar. Ho invece una buona radio e chi mi conosce sa che io l’ascolto anche di notte. In più c’è la radio VHF di bordo per le comunicazioni in mare, e solo a tenerla accesa si passa la serata. Ma non sono un eremita, anche se per ora mi sono semplificato la vita. Al limite, dovrei cercarmi un lavoro. Ma cosa? Troppo bello sarebbe lavorare in un cantiere nautico, ma finirò per fare il cameriere in un ristorante. Posso comunque sperare di lavorare come traduttore o interprete per qualche ditta, ma ancora non conosco nessuno, le giornate sono piovose e non mi va certo di star sempre a bordo a riparare gli stralli e il timone. Controllo sempre il livello degli accumulatori, ma per il resto il lavoro è poco. La mattina presto quindi mi metto in tuta e corro sulla spiaggia dopo il Faro, dopo aver fatto colazione. Il cantiere per il nuovo porto turistico con la buona stagione diventerà un vivaio di zanzare, ma siamo a febbraio. A quell’ora non c’è nessuno, mi sento libero. La sera invece il tempo lo passo leggendo, scrivendo, cucinando. E’ bello leggere libri di viaggio stando in barca, anche se è ormeggiata.

· Già, i libri. A bordo la solita roba: il Portolano del Mediterraneo, il Libro dei fari, un manuale per velisti e quello di Mursia sulla manutenzione della barca (7), l’unico per ora da studiare sul serio. Gli altri – una dozzina – li ho portati io, alcuni sono normali romanzi, ma a bordo il mio libro preferito resta la Storia della navigazione di Hendrik van Loon, uno scrittore olandese una volta molto popolare in Italia. In più, sono un fan di Larsson e della sua Saggezza del Mare (8). Lui e sua moglie hanno navigato per mari dove un italiano neanche si azzarda: le Ebridi esterne e il Mare del Nord coi suoi stretti. E soprattutto, vivevano in barca. Ma una barca dove si voglia vivere dovrà presentare precise qualità, caratteristiche adatte per la vita a bordo. Per quanta passione si possa avere, non credo sia umanamente accettabile pensare di vivere in un barchino a vela di 6 metri. Io lo faccio, ma per necessità. In barca, per ogni metro di lunghezza in più si acquista un volume abitativo di almeno 2.5 volte tanto, e questo conta molto. Ora, la “mia” barca basta appena per le mie esigenze, eppure girano ancora minuscoli cabinati chiamati pivieri, dal nome di un simpatico uccellino. Sono un residuo della nautica per tutti, del sogno di poter armare un proprio piccolo cabinato da diporto, di poterci navigare durante l’anno, di portarci gli amici, la famiglia, i figli. Un sogno che, se non è già finito, ha le ore contate: per undici mesi di terra ed uno di “boa” si spendono 1500 euro. Se poi si pretende un posto barca in una marina decente, con qualche servizio in più rispetto al nulla, con bagni e doccia (utile proprio per armatori di barchette), con un posto dove mangiare, si spende almeno il doppio. Ed in questo conto non si include la carena, l’ordinaria manutenzione, e tutto quello che ne consegue. In nautica tutto costa caro, dai materiali alla manodopera specializzata. Non è dunque il costo della barca in sé: al prezzo di una macchina usata si compra un cabinato di otto metri; il problema è il costo per mantenerlo, senza gravare troppo sul bilancio familiare, senza pentirsi di questa sana passione, senza litigare con la moglie, con i figli, con i genitori, con se stessi. Ma se il costo per mantenere un cabinato di sei metri è più o meno lo stesso di quello per uno di dieci, dove sta la convenienza? Perché allora affrontare il mare con sei metri, stando scomodi, senza spazio a bordo dove stivare la roba? Perché non poter portare in crociera la famiglia al completo o gli amici? Cosa rimane, tolta la filosofia? Forse la bellezza dell’andare per mare a vela? Ma allora comprati una deriva, oppure iscriviti a un circolo nautico o frequenta gli amici con la barca, oppure pensa a un charter; insomma esistono tante occasioni che permettono di vivere il mare senza pensieri.

· A un paio di chilometri verso il mare aperto c’è il vecchio Faro, e ne ho anche una cartolina: costruito nel 1953 e alto 30 metri, con una portata di 28,5 miglia. Ormai è da molti anni in stato d’abbandono, ma nella cartolina c’è addirittura la dicitura “Nuovo Faro”. Una decina d’anni fa fu pure occupato per protesta, come riporto da un giornale d’epoca: 2005 Venerdì 23 settembre, alle ore 14 il Comitato Cittadino di Fiumicino ha proceduto all’occupazione simbolica del faro. Il Comitato intende richiamare l’attenzione delle autorità e forzarle ad intervenire per la riqualificazione del luogo storico oggi lasciato al degrado, e alla mercé di tossicodipendenti. Ecco il comunicato emesso in serata: Venerdì 23/09/05 il comitato Salvaguardia di Fiumicinoha occupato simbolicamente il vecchio faro. Il comitato formato da numerosi giovani del litorale, denuncia lo stato di abbandono e di degrado nel quale e’ stato lasciato quello che possiamo definire il simbolo del comune di Fiumicino. Dopo una faticosa trattativa con P.S. C.C. e particolarmente con la Capitaneria di porto (proprietaria dello stabile, i quali si sono presentati con tanto di motovedetta, elicottero,e fanti di marina in tuta mimetica) i ragazzi l’hanno spuntata, montate le tende issati i tricolori ci si e’ preparati alla notte.. Inutile dire che poi dei vari progetti non se ne è fatto niente. (Nota folcloristica: alcuni fanti di marina accorsi per sgombrare il faro erano tatuati con lo stemma della Decima MAS, e sono tornati la notte per scusarsi).

· Ma dal Faro in giù che c’è? Seguendo Fiumara Grande, solo case basse e abusive, recinti e steccati dappertutto. Un paio di buoni ristoranti: Lilly a via del Passo della Sentinella e Gina a via Costalunga, presso il Porto Romano Yacht Club Tevere, ma il resto è squallido. Dalla barca almeno si vedono i cantieri navali, i circoli nautici, le imbarcazioni ormeggiate. Quando poi a febbraio ha diluviato sul serio, sappiamo bene com’è andata: tanto valeva davvero vivere in barca, anche se è frustrante vivere in una nave che deve star ferma in porto anche se è capace di andar per mare, mentre c’è gran traffico di natanti a vela e motore che entrano ed escono in mare. Posso divertirmi ad ascoltare alla radio le comunicazioni con la capitaneria di porto o fra skipper, ma resto sempre ormeggiato al solito palo. Provo a immaginare il contrario:

· “Corto assaporava il salmastro dell’Oceano e lasciava che il suo sguardo si perdesse in quel livido orizzonte dove c’era posto per tante vite e per tanti sogni diversi. Amava quei lunghi silenzi e le immense distanze: non c’erano confini segnati, e i porti servivano solo per riposarsi prima di riprendere il Viaggio…” (Hugo Pratt, Una Ballata del Mare salato)

· Anche se non posso prendere il largo, lo faccio dunque con la fantasia. Se vuoi costruire una nave, non radunare gli uomini per raccogliere il legno e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito. Lo ha scritto Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del Il piccolo principe. E’ per questo che Ulisse non riesce mai a star fermo, né sull’isola di Calypso, né a casa propria. E’ per questo che ho accettato volentieri l’offerta del mio amico quando ho perso casa. Ma posso sognare qualcosa soltanto quando il mare è agitato. A quel punto posso immaginare di stare in mezzo ai flutti, sballottato nella tempesta, in attesa di un calo del vento o delle onde. Ma si può viaggiare da fermi? Sicuro: l’hanno fatto decine di scrittori, l’hanno fatto decine di registi. Penso al grande regista portoghese Manoel de Oliveira e alle sue creazioni cinematografiche, penso ad Emilio Salgari che non ha mai navigato. Penso anche ai libri di viaggio inventati, che circolavano assieme a quelli realmente frutto di esperienza… si tratta solo di saper scrivere in modo lirico ed epico allo stesso modo. E saper evocare. Ecco per esempio un brano che ho rubato da un blog:

· Quel viaggio era il sogno della mia vita, fin da quando il capitano Carlos de Casso, uomo di mare che aveva preso il largo a soli quattordici anni, una volta doppiato Capo Horn in rotta per le Galapagos, mi aveva parlato con tale entusiasmo dell’isola del Morto, all’imboccatura del golfo di Guayaquil, che ero rimasto ammaliato dal suo racconto. De Casso morì mentre revisionava il telaio di poppa della goletta che si stava facendo costruire a Valparaiso, probabilmente con l’abituale passione che lo contraddistingueva. La sua improvvisa scomparsa avrebbe lasciato in sospeso per sempre il viaggio alle isole che progettavamo di compiere insieme… Che dire? C’è tutto: un viaggio fatto, uno progettato, un’interruzione nel percorso di una vita.

· Guardando il mondo da un oblò, mi annoio un po’… già, ma cosa fanno la sera sulle altre barche? Nel porto di Traiano c’è un po’ di vita soprattutto sui motoscafi d’altura, ma per il resto il porto canale si anima solo il sabato e la domenica. I pescherecci sono altra cosa, ma quelli tornano al tramonto e nessuno resta a dormire a bordo se non un guardiano o qualche immigrato che fa parte dell’equipaggio. Delle barche abitate si vede solo la luce dall’oblò o il colore delle luci di posizione. Nessuno sta in coperta con questo tempo, a meno che non debba sistemare uno strallo allentato o controllare che non entri acqua da un boccaporto mal chiuso. Si sente solo il tintinnare delle parti metalliche delle varie imbarcazioni. Quando tornerò a vivere sulla terraferma può darsi che non prenderò sonno per la mancanza di onde.

· Tra i problemi che il Tevere qui pone ai naviganti c’è il fenomeno della barra. Esattamente all’altezza dell’uscita del fiume a mare si forma un basso fondale di sabbia profondo poco più di 2 metri, ai lati spesso tra 1 e 2 metri. Il suo effetto è quello di generare uno sbarramento, specie se sommato allo scontro tra la corrente del fiume in uscita ed al mare in entrata quando soffiano venti dal mare, in particolare quelli di Ponente (W) e Libeccio (SW), onde molto alte e verticali con frangenti pericolosi verso terra che impediscono il transito, la cosiddetta Barra, appunto. Quando le condizioni non sono proibitive, sono comunque impegnative; la forza delle onde spesso può afferrare la barca e intraversarla, ponendola in una situazione critica e pericolosa, anche perché nell’immediato non ti permette nessun tipo di manovra. In certi periodi il transito di barche in quel punto è intenso e non è semplice accodarsi e aspettare il proprio turno perché c’è corrente e ci può essere onda e la strettoia costituita dai fanali può forse rappresentare una difficoltà in più. Senza parlare dei casi, -molti – in cui a volte barche con elevato pescaggio s’incagliano sul fondale melmos. Quasi sempre in questi casi uno se la cava da solo o con l’aiuto di altre barche, facendosi tirar fuori o inclinando gli alberi in modo da diminuire il pescaggio. Magari dragassero regolarmente il fiume nel passaggio tra i fanali! In realtà il fiume non è stato quasi mai dragato negli ultimi anni, almeno in quel punto, anche se il fondale si muove continuamente.

· Prima parlavamo di manutenzione. Intanto, un’occhiata al timone, controllando se non ci sia acqua infiltrata tra le lamelle (9). Un’ispezione agli accumulatori e all’impianto elettrico (10). Il controllo del serbatoio dell’acqua dolce. E passiamo allo scafo: per le barche di plastica, problemi pochi, a parte l’osmosi, che crea delle vesciche piene di liquido nello scafo. Con il legno, ben altra storia, e questa barca ha più di vent’anni ed è abbastanza rovinata. Per ora poco male, visto che sta ormeggiata. Ma andrebbe alata e messa in secco per la manutenzione dello scafo e della chiglia. Visto che non si fa, posso soltanto pensare alla sovrastruttura, come il pavimento di legno tek del ponte. Tre le operazioni da eseguire: sverniciatura completa dei residui di vecchia vernice, carteggiatura fino ad arrivare a legno nudo, pitturazione con la nuova vernice. Ma è inverno, per cui meglio lavorare su piccole zone per volta. Per i materiali, al porto ci sono negozi di articoli nautici: vernici, solventi, antivegetativa, pezzi di ricambio.. Il vero problema è che questa barca il mio amico l’ha comprata d’occasione per soli 3000 euro, ma finora l’ha usata poco. Risale al 1970, lunga 7 e larga 2, tutta in mogano. Tre cuccette, randa steccata, timone e albero, carena rifatta nel 2013, cuscini nuovi (lo dice lui), motore applicabile (ma non c’è). Il legno negli interni è bello e caldo, anche se in qualche punto si è rovinato.

· D’inverno una barca va riscaldata, altrimenti è invivibile. In realtà lo spazio da riscaldare è poco, ma è sempre importante evitare la dispersione di calore. Questo dipende dalla coibentazione del fasciame: le barche nordiche sono sicuramente meglio isolate delle nostre, mentre le barche da regata hanno paratie e fasciame molto sottili. La mia non è certo una barca da regata, ma neanche una norvegese.

· Vorrei farmi più spesso una doccia decente. Vorrei alzarmi in piedi senza chinarmi per non sbattere la testa. Vorrei mangiare meglio. Non conosco nessuno e le famiglie che abitano le case basse si fanno i fatti loro. La sera fumo la pipa passeggiando verso il Faro o al porto canale. Di giorno lavoro all’internet point anche se ho un portatile, non fosse altro per uscire. Altri che girano intorno: gente comune, operai immigrati, meccanici di motori marini, skipper disoccupati che d’inverno controllano e curano la manutenzione delle barche degli altri, lavoratori dei negozi e non solo quelli per chi naviga, pensionati.

· Alcune grandi scoperte geografiche sono state fatte con navi – le caravelle – poco più grandi di un buon peschereccio d’altura. E’ vero che non tutti tornavano a casa, ma il fascino dell’Odissea è proprio quello. Nessuno andava per mare se non per necessità, ma chi navigava aveva fegato. Ho sempre sognato, passeggiando a Ostia d’inverno, di costruirmi una barca con tutti i pezzi di legname – tronchi, tavole, residui vari – lasciati dal mare sulla spiaggia. Non so quanto lontano andrebbe una barca simile, ma sicuramente gli antichi stavano sempre a sgottar acqua ogni volta che le onde facevano il mare grosso. Eppure navigavano lo stesso.

· Il viaggio di Magellano è stato narrato da Enrico Pigafetta, che non era un marinaio, ma un gentiluomo italiano che volle seguire l’impresa volontariamente. A quell’epoca i marinai erano analfabeti e a scrivere il diario di bordo ci pensava lo scritturale. Ma i libri di viaggi erano avidamente letti sia da armatori e mercanti, che dalla gente comune. In un’epoca in cui il pubblico era formato da gente che si muoveva poco, i libri di viaggio erano la televisione. Anche nell’internet “si naviga”. I media erano diversi, le emozioni le stesse.

· Per dormire mi sdraio sul divano della parte centrale. Nelle barche chigliate si dorme bene, al contrario dei motoscafi d’altura che galleggiano come tappi. La lampada la spengo tardi. Nei porti turistici ci sono gli allacci a terra per corrente e telefono, ma il mio amico non vuole spendere. Comunque a bordo bastano le lampade alogene alimentate dalle batterie. Ma la sera mi fa piacere accendere il lume, un vecchio Stenton in acciaio inox a kerosene: sviluppa 40 lumen, ma riscalda per 700 calorie. Una lampada come quella fa pure da stufa. Il problema a bordo infatti non è tanto il freddo – almeno da noi – ma l’umidità, favorita anche dalla salsedine, e lampade simili asciugano tutto. Non è solo questione di vivibilità, ma è per il bene stesso della barca. Un buon riscaldamento tiene a freno l’umidità, e in tal modo la barca si mantiene più in salute. Così la sera chiudo bene il boccaporto e mi cucino la cena sul fornelletto di bordo, ad alcool. Le pentole sono impilabili, ma perché non fare lo stesso in casa? Bella domanda. Quanto alla voce cambusa i manuali di navigazione raccomandano una serie di alimenti poco deperibili, ma qui il problema non sussiste. Casomai il vero problema è l’aver pochi soldi per fare la spesa. Ma dopo cena mi metto a leggere; ora è il turno di un libro che vorrei tradurre: Alone at the Ocean, di Hannes Lindemann. E qui apro una parentesi. La lista dei grandi navigatori in piccole barche è lunga, a cominciare da Joshua Slocum e il suo Spray, per continuare con Capitan Voss e il suo Tilukum (11) . Ma Hannes Lindemann (1922, ancora vivo) ha superato tutti: ha attraversato nel 1958 l’Atlantico dalle Canarie ai Caraibi (3000 miglia nautiche) con una canoa smontabile Klepper, oggi esposta al Deutsches Museum di Monaco. Le sue memorie, Alone at the Ocean non sono mai state tradotte in italiano ed ora ci sto provando io (12). Era un medico, quindi è riuscito a non morire durante le dieci settimane trascorse in mare aperto su un’imbarcazione buona per il campeggio nautico. Tra l’altro è uno dei fondatori del training autogeno e voleva sperimentare le capacità di resistenza del corpo umano in circostanze estreme e c’è riuscito. Aveva a bordo 70 kg. di provviste ma integrava pescando e raccogliendo acqua piovana. Ha sofferto anche di allucinazioni dovute allo stress, alla mancanza di sonno, alla solitudine. Però ce l’ha fatta e vive tuttora – novantenne – in quel di Amburgo. E quando tornerò a terra in una casa nuova, la mia traduzione sarà pronta.

· NOTE:

· (1) La passera istriana è una barca da pesca piatta e pontata, lunga e robusta, mentre la Ballerina (si allude alle scarpe basse) è uno sloop di sei metri sviluppato dal disegnatore e progettista inglese Robert Tucker negli anni ’50 del secolo scorso. Agile barca da diporto, si vide spesso anche nelle regate. E’ stata costruita in centinaia di esemplari sia da cantieri industriali che da costruttori dilettanti, e può alloggiare fino a tre persone.

· (2) Non fissare la residenza o registrarsi “senza fissa dimora” significa perdere alcuni diritti fondamentali. Per esempio, il diritto (riconosciuto dalla Costituzione a tutti i cittadini) alla salute. Un lavoratore dipendente con una residenza fissa può andare dal proprio medico di base, ma chi andasse a zonzo nel Mediterraneo, può andare in una guardia medica, ma solo dopo le otto della sera o nei fine settimana. Oppure in un pronto soccorso, intasandolo. E pagando anche un ticket, se non si tratta di urgenze. Tutti noi abbiamo una tessera sanitaria con un chip che registra (o dovrebbe registrare) la nostra storia medica. Basterebbe andare da un qualunque medico e lui, inserendo la tessera in un lettore, saprebbe chi ha davanti. Troppo facile!

· (3) Il tavolo da carteggio è una specie di scrivania molto comoda, a ribalta. Nell’alloggiamento si ripongono comodamente le carte nautiche, mentre il ripiano è adatto per scrivere e far carteggio. La radio di bordo in genere sta sopra, in modo che chi sta al tavolo controlla anche quella. Chi parla alla radio in genere cerca informazioni o le comunica alla Capitaneria di Porto o ad altre imbarcazioni, oppure chiacchiera sui canali non di emergenza. E siccome ti sentono tutti, quindi non si parla mai di argomenti riservati.

· (4) Il cabinato da regata Sopranino fu disegnato da John Laurent Giles (1901-1969) per i velisti Patrick Ellam e Colin Mudie, sviluppando il concetto – nuovo per il 1950 – di dislocamento leggero (ULD, Ultra Light Displacement). Con questa barca i due traversarono nel 1951 l’Atlantico, macinando 10.000 miglia e dimostrando che con un buon equipaggio poteva farcela benissimo anche un cabinato di sei metri.

· (5) Fiumara Grande, a sud-est di Fiumicino, è la foce del fiume Tevere e per farsene un’idea basta cercarla su Google Maps o Google Earth. Sulla riva sinistra si trova la darsena privata della Canados International, mentre sulla riva destra c’è la darsena dei Cantieri Netter e quella del Porto Romano. Lungo entrambe le rive sono state costruite molte banchine in legno dai numerosi cantieri e circoli nautici che offrono assistenza e rimessaggio. La navigazione all’interno della fiumara va effettuata con la massima attenzione a causa delle correntie dei bassi fondali creati dalla risacca.

· (6) Di mio ho portato poco: di vestiti e scarpe e qualche attrezzo. In più un pacco di foto, qualche cd pieno di documenti, il crest del reggimento, un portatile, carta e penna (una stilografica Pelikan, per la precisione), pipa e tabacco, il cellulare, una macchina fotografica digitale e una radio con cuffia. Il resto – mobili, lavatrice, frigo, impianto stereo e televisore – li ho regalati alla parrocchia. Ma non mi sono separato da una cassettina di metallo che contiene la mia storia: documenti di identità, distintivi, foto, taccuini e lettere personali, carte di credito e tessere scadute e una scatoletta di soldatini di piombo piatti. In più, due pen-drive per i documenti digitali o scansiti, un dvd con le foto e i filmetti di famiglia. In altri tempi avrei dovuto portarmi dietro una valigia di roba, ma ormai l’informatica permette di stivare tanto in poco e così sono riuscito a non perdere il mio archivio personale. In attesa di tempi migliori

· (7) Consigli e materiali per la manutenzione della barca / Diego e Fabio Parodi ; Mursia editore, (Biblioteca del mare), 2009. 104 p. , ill. , prezzo euro 13.

· (8) Storia della navigazione : dal 5000 avanti Cristo ai nostri giorni / Hendrik Willem Van Loon. In antiquariato le vecchie edizioni Bompiani (dal 1935 al 1961), ma ora c’è una bella ristampa (2007 2 2009) della casa editrice Magenes di Milano. In commercio invece La saggezza del mare : da Capo dell’Ira alla fine del mondo / Bjorn Larsson, stampato da Iperborea (2003 e ristampa 2008)

· (9) Nella maggior parte dei casi il timone è realizzato mediante assemblaggio di due semi-gusci di vetroresina sigillati con stuoie e resina. Il profilo posteriore della pala è esposto a piccoli urti, abrasioni da parte delle cime sommerse, e sfregamenti di altra natura che possono causare il distacco delle due guance di vetroresina che costituiscono la pala. Nel punto in cui le due guance del timone si separano, si creano delle vie d’acqua tali da causare infiltrazioni all’interno della pala.

· (10) Tutte le attività umane richiedono energia e anche una barca dovrà essere alimentata da diversi dispositivi che ne garantiscono l’efficienza energetica. Quando la barca è ormeggiata, essa si comporta esattamente come una casa, essendo allacciata alla rete energetica cittadina. Bisogna sempre concordare col marina la quantità di Kw messi a disposizione al proprio ormeggio, 1 o 2 Kw spesso neanche bastano ad alimentare il caricabatterie della barca, il boiler, eventuale riscaldamento elettrico e altri dispositivi come un banale fon. Ma bisogna sempre pensare all’autosufficienza energetica. Utili i pannelli solari (2 da 80 W ciascuno), che erogano in estate una ricarica assai soddisfacente (intorno ai 4 A) e in inverno riescono a tenere sempre le batterie caricate, tamponando gli eventuali abbassamenti di carica. Utili ma rumorose le ventole dei generatori eolici. Le batterie – tre o quattro – sono da 100 A e di solito una è dedicata all’accensione del motore.. Come avviene in tutte le barche, nel caso di inefficienza della batteria dedicata al motore, si può selezionare con una chiavetta l’accensione tramite le altre batterie. Chi può permetterselo compri anche un generatore diesel: consuma poco ed eroga 3 Kw a 220 V. E’ sempre bene fare i calcoli dei consumi in maniera precisa, in modo tale da poter ottenere una perfetta economia dei consumi. Per fortuna ora esistono le luci a LED.

· (11) Su Joshua Slocum c’è una ricca letteratura, su Capitan Voss assai meno. Per le loro biografie potete consultare anche Wikipedia. In italiano del libro di Slocum esiste una buona ristampa di Mursia del 2010: Solo intorno al mondo e Viaggio della Libertade, mentre non è più stato ristampato il libro del capitano John Claus Voss: Gli incredibili viaggi. Seguiti da venti consigli sul come governare una piccola imbarcazione in condizioni di mare difficili, non escluso il tifone : considerazioni sui maggiori disastri navali. Milano, Longanesi, 1958.– E mentre lo Spray è finito in fondo al mare con il suo comandante, il Tilikum è conservato in un museo canadese.

· (12) Alone at Sea. A Doctor’s Survival experiments During Two Atlantic Crossings in a Dugout Canoe and a Folding Kayak / Hannes Lindemann: Pollner Verlag, 1958 e ristampa 1998.

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04 Racconti Ballerina on the boat, LevAtamanov 1969 17 minuti

Centomila in Uno

La fantasia non ha limiti e questo è un dato di fatto, ma la creatività che certi scrittori sono in grado di sfoderare è talvolta disarmante. Nora K. Jemisin dà credito a questa tesi scrivendo un romanzo intitolato “I Centomila Regni” dove a sorprendere non solo è la trama avvincente, ma anche le capacità descrittive di questa esordiente autrice che tra personaggi, ambientazioni e colpi di scena ha dato vita ad un nuovo universo fantasy di alto livello. Centomila regni tutti amministrati da un’unica capitale chiamata Sky o meglio, dal palazzo sito nella capitale, che la protagonista Yeine Darr descrive in questo modo:

“Sopra la città, più piccolo ma anche più luminoso, con il colore perlaceo dei suoi livelli oscurato a tratti da nuvole di passaggio, c’era il palazzo, chiamato anch’esso Sky.”

Questa lucente e “celestiale” costruzione che, dalle accurate descrizioni fornite, piccola non sembra affatto, è anche il luogo dove si svolgono quasi tutti gli avvicendamenti che vedono coinvolti i protagonisti e per sottolineare quanto bello esso può apparire nella mente del lettore l’aggettivo “celestiale” non può essere più azzeccato. Tanto grande e tanto ricco di misteri. E qui si arriva alla storia. Yeine Darr è una giovane capo clan orfana di entrambi i genitori che, un bel giorno (non tanto bello per lei), viene invitata a raggiungere il grande Sky dal nonno Dekarta Arameri, niente meno che il re dei Centomila regni, per informarla che è stata scelta come erede al trono. Eredità che dovrà conquistarsi in una lotta senza esclusione di colpi con i due cugini Scimina e Relad, anch’essi designati per la successione. Altri nemici però si annidano nell’ombra perché dentro quella mura si nascondono i segreti sulla morte di sua madre, oltre ad una miriade di sorprese celate dietro ad ogni angolo, come ad esempio certi soggetti alquanto “divini” che abitano il palazzo e con cui Yeine entrerà in contatto. La giovane e indifesa ereditiera verrà messa alla prova con emozioni mai provate prima e fino ad allora inimmaginabili, e scoprirà delle verità su sé stessa che sconvolgeranno molte sue convinzioni ma, soprattutto, la sua vita futura.

Romanzo d’esordio per la scrittrice americana N.K. Jemisin, primo di una trilogia intitolata “The Inheritance Trilogy”. Prima parte il cui finale fortunatamente non lascia grandi quesiti tali da creare una dolorosa attesa per il seguito, offrendo ai lettori l’opportunità di godersi la prima storia nella sua integrità. Notevole come anticipato è l’ambientazione creata che offre immagini mozzafiato di una palazzo nel cielo e di personaggi talmente ben descritti da poterne quasi vedere i lineamenti del volto, per chi un volto ce l’ha… Il profilo caratteriale dei protagonisti è un altro punto di forza della storia, laddove personalità forti si alternano ad altre più deboli o meglio, più ambigue, in un susseguirsi di scambi di battute che portano il lettore ad un coinvolgimento pressoché reale (o ultraterreno).

Nel panorama editoriale attuale, dove il genere Fantasy è ormai tra i più venduti grazie anche alle innumerevoli trasposizioni televisive che molti romanzi hanno la fortuna di ottenere, è piacevole trovare in mezzo ai “Best sellers” e ai volti noti di altri autori opere di artisti nuovi come N.K. Jemisin. La scrittrice americana, dopo una lunga gavetta fatta di racconti brevi raccolti in antologie multi-autore, è riuscita a raggiungere il mercato che conta con un romanzo ricco di buoni contenuti che ha tutte le prerogative per aprire la strada all’autrice verso uno stabile successo, come dimostrano le candidature a premi come il Nebula e l’Hugo, e i premi già ottenuti come il Locus Award e il Romantic Times Reviewers’ Choice Award. La porta per i Centomila è aperta, non resta che vedere se, anche in Italia, il romanzo sarà in grado di ottenere il successo avuto oltre oceano confermando le buone aspettative. La parola ai lettori.

 

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I Centomila Regni Cover_Icentomila_WEBTitolo: I Centomila Regni Autore: Nora K. Jemisin Anno: 2014 Traduttore: Maccotta S. Casa editrice: Gargoyle (Collana Extra) http://www.gargoylebooks.it/24-prossima-uscita/313-i-centomila-regni

P. 382 Prezzo: € 18,00 Sito ufficiale dell’autrice:

http://nkjemisin.com/

Sfida alla vita ordinaria

“Il rifiuto ad una vita ordinaria” è il tema attorno al quale il noto scrittore svizzero-tedesco Max Frisch scrisse questo racconto, perché di racconto si tratta, nel lontano 1937 ai primordi della sua carriera artistico-letteraria. Un tema che viene sottolineato, ripreso ed enfatizzato praticamente in ogni pagina, esplicitamente o con allusioni, dal protagonista e dagli altri pochi personaggi presenti.

A più di settant’anni dalla sua nascita questo libro viene pubblicato per la prima volta in Italia completo di postfazione a cura di un filologo svizzero di nome Peter Von Matt, che offre con professionalità ed entusiasmo un’analisi approfondita del testo ed i legami che esso ha con la vita dell’autore. Se il racconto già di per sé non delude in quanto a contenuti, la presenza dell’approfondimento finale si rivela provvidenziale per l’apprendimento completo di una storia che è un peccato non sia stata tradotta prima.

Come Von Matt spiega, il protagonista del libro noto per la maggior parte del romanzo come “il Viandante” è in realtà una trasposizione di alcuni avvicendamenti della vita dell’autore che nel periodo precedente alla stesura del testo segnarono profondamente la sua esistenza. Come detto prima questo Viandante tende ad evidenziare e a sottolineare in ogni suo pensiero il suo rifiuto all’ordinario, la negazione di una vita fatta di abitudini e obblighi  comuni da lui considerati solo uno spreco di tempo. Lui che il tempo a sua disposizione vuole utilizzarlo per vivere fino in fondo tutto ciò che la terra offre e che nella vita bisogna sfruttare e trasformare in esperienze uniche, da condividere con se stessi per guardare il mondo a testa alta. Ne è un esempio l’avventura narrata, dove il protagonista vuole mettersi alla prova scalando la famigerata Cresta Nord, una parete di roccia situata nelle Alpi svizzere del Canton Vallese ritenute fino ad allora un vero tabù da molti scalatori. Una prova questa che per tutti ha un unico verdetto: morte. Verdetto che lui non contempla e che è sicuro di poter smentire. Ci penserà un’imprevedibile storia d’amore con risvolti tutt’altro che scontati a tentare di fermarlo, inaspettata tanto per il Viandante quanto per il lettore.

Ma cos’è questo silenzio che spicca nel titolo? E’ un’immagine particolare quella che Frisch ha creato in merito ad esso, ovvero un silenzio che esiste, che è tangibile ma che è attraversato da suoni che lo annullano pur esaltandolo. Un concetto molto contraddittorio questo, che le pagine esprimono con chiarezza cristallina arrivando a catapultare il lettore in quell’ambiente montano fatto di ruscelli impetuosi immersi nella foresta circostante e di paesaggi che tolgono il fiato. Questa reazione sembra averla avuta anche la traduttrice, che in una nota finale intitolata “la scatola nera del traduttore” racconta in due parole il piacere provato (non meno delle difficoltà) nel tradurre questo romanzo. Romanzo tanto attuale allora quanto oggi, ragion per cui, per chi decidesse di leggerlo, la definizione “ non è mai troppo tardi” per questo libro calza a pennello.

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04 Libri Il silenzioTitolo: Il Silenzio. Un racconto dalla montagna

Autore: Max Frisch

Editore: Del Vecchio Editore (Collana Formelunghe)

Traduttore: Del Zoppo P.

P. 118

Anno: 2013

Prezzo: € 13,00

Disponibile anche in ebook

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Krimi

In Italia chiamiamo giallo un romanzo di argomento criminale; in Germania il genere è più opportunamente chiamato Krimi (1). Attualmente in Italia il giallo scandinavo è di moda, ma quello tedesco è ancora poco noto. Un vero peccato, visto che nulla ha a che fare con le teutoniche serie televisive piene di poliziotti inespressivi, algide bionde, giovani psicopatici, industriali truffatori e teste di cuoio senza volto. In realtà il Krimi è un genere ben strutturato; da qui l’iniziativa di una piccola casa editrice italo-tedesca, la Book Salad, che dedica al genere una collana, Angst (paura), con l’accortezza di tradurre solo quei libri che possano offrire al lettore italiano anche un’immagine dell’attuale società tedesca. Citiamo qui due autori in catalogo: Vincent Kleisch (Il profeta della morte) e Karl Olsberg (Il Sistema) (1). Sono due autori profondamente diversi: il primo è un attore e presentatore televisivo, ma anche un autore di successo che ha scritto un libro dopo l’altro, quasi fosse seriale come i suoi assassini. L’altro invece è un informatico specializzato in intelligenze artificiali e lavora ad Amburgo come consulente aziendale. Ma oggi parleremo solo di Kleisch e del suo Profeta della Morte.

Come tutti gli altri romanzi di Vincent Kleisch, siamo a Berlino (dove del resto l’autore abita) e naturalmente si descrive una società assai dinamica. Siamo nel quartiere di Wedding, una zona di caserme d’affitto abbastanza degradata, dove gli assistenti sociali hanno molto lavoro con famiglie a dir poco problematiche. Una giovane donna avvelena il marito e poi si uccide. Dramma familiare? No, perché c’è chi aveva previsto tutto in dettaglio. Chi è questo profeta? L’atmosfera è ambigua, un po’ come ambiguo è il volto dell’autore. Il commissario Julius Kern della LKA (la squadra omicidi) dovrà scontrarsi con il suo acerrimo nemico, l’assassino seriale Tassilo Michaelis. In realtà i due sono legati da strani rapporti, con finale a sorpresa. Questo Tassilo tortura e uccide le vittime con sadismo efferato, e in questo ricorda certe produzioni video tedesche specializzate in BDSM. Ma il nostro assassino non è stupido: sempre attento a non lasciare indizi anche dopo aver fatto il macellaio, è anche un fine intenditore, gentile e formalmente impeccabile, e infatti lavora nella ristorazione di lusso. Ma aveva iniziato da cameriere umiliato e da qui è iniziata la sua carriera di assassino: Tassilo uccide chi gli manca di rispetto. Noi italiani nel crimine siamo sicuramente più passionali che repressi (la mafia è un discorso a parte), ma qui siamo in Germania, dove il pubblico sicuramente s’identifica con personaggi simili. Ma il pregio di questo libro consiste nella continua ambiguità. Ambigui certi quartieri berlinesi, dove in cantina succede di tutto. Ambigui i personaggi: ambiguo Tassilo, ambigui i poliziotti che gli danno la caccia, a cominciare da Kern, di cui non si capisce il vero rapporto con il suo rivale; ambiguo Jonathan, ex compagno passivo dei giochi di Tassilo, che diventa una specie di Virgilio nei gironi del sadomaso violento. Il primo a descriverli letterariamente fu in realtà un altro scrittore tedesco poco noto in Italia. Parlo di Hubert Fichte, grande scrittore omosessuale di Amburgo, morto nel 1986 di Aids a cinquant’anni e autore assai prolifico di saggi e romanzi. Ma da noi è stato tradotto solo Pubertà scritto nel 1974 ma da noi uscito nel 1977 per i tipi di Garzanti, oltre ad una lunga conversazione con Jean Genet uscita nel 1987 per Ubulibri. Un vero peccato, visto la grandezza dello scrittore (5).

Ma torniamo a Berlino. La caccia all’assassino è una corsa contro il tempo, prima che si avveri un’altra profezia di cui non diremo niente per non levare nulla al lettore. Anche se certe descrizioni non sono adatte per uno stomaco debole, bisogna ammettere che la tensione sale al cardiopalma e che la trama è ben costruita. Ma non sveleremo certo il finale. Piuttosto, ecco come l’autore stesso spiega la sua estetica:

Quando ero un bambino sono stato affascinato dal “Faust” di Goethe e più tardi ho letto anche “Il silenzio degli innocenti”. Trovo incredibilmente avvincente il classico principio del patto con il male perché sono entità lontane ma al contempo vicine. Kern e Tassilo sono come amici che hanno opinioni divergenti. In più sulla loro amicizia aleggia un mistero, un segreto. Tassilo uccide perché odia quando gli si manca di rispetto, quando nell’esercizio delle sue funzioni di cameriere lo si tratta male. Quindi mi chiedo: come fanno inservienti, cuochi, camerieri e tutti coloro che lavorano nell’ambito del servizio a sopportare i clienti? Tutte le storie (tranne gli omicidi) che racconto nel libro sono capitate nella realtà a me o ai miei colleghi. Spesso non è facile sopportare. Ovviamente solo pochi ospiti sono così terribili come quelli descritti nel libro. Però in questo tipo di lavoro servono delle valvole per “far uscire il vapore”. Il mio è scrivere .(…) Ovviamente è anche possibile creare tensione senza sangue, ma la morte è sempre la paura più grande di tutte – e queste paure ci affascinano molto”

Per me l’assassino è il protagonista nel thriller. Una persona che uccide altre persone è affascinante e desidero raccontare del perché compie quegli atti. Se tengo segreta la sua identità non ho nessuna possibilità di raccontare la sua storia. Sono anche dell’opinione che un assassino sconosciuto non possa esistere in un thriller ma solo in un giallo. Quando la gente guarda “Batman” nessuno si lamenta del fatto che subito si sappia che il “Joker” è cattivo”.

Detto questo, speriamo che anche il Krimi abbia presto in Italia i suoi fan.

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NOTE:

Noi lo chiamiamo così per il colore della copertina della prima e tuttora popolare serie edita da Mondadori.

Karl Olsberg è in realtà lo pseudonimo di Karl-Ludwig Freiherr von Wendt.

La fantascienza non ha stranamente saputo prevedere Internet, anche se Bruce Sterling (maestro del cyberpunk) scrisse nell’88 un libro che si chiamava Isole nella rete. Ma in realtà la scienza spesso corre più rapida degli scrittori: ancora negli anni ’70 nessuno di loro riusciva a immaginare un computer con circuiti miniaturizzati.

Da un’intervista pubblicata sul sito dell’editore italiano.

Sarebbe auspicabile che siano tradotti in italiano almeno Die Palette (1968) o das Weisenhaus (1977) o Wolli Indienfahrer (1978). Quello che sorprende è che Hubert Fichte sia poco noto in un paese – il nostro – dove l’interesse per la letteratura omosessuale ha ormai raggiunto la maturità.

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Libri KRIMI - Kleisch Il profeta della morteTitolo:Il Profeta della Morte

Autore: Vincent Kliesch

Traduttrice: Anna-Sophie Grashofer

Editore: BookSalad (Angst), 2013

Pagine: 315

Prezzo 15 euro

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Libri KRIMI Vincent_Kliesch