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Roma di Chiese e soprattutto di Teatri

Lo scarno titolo non rende appieno la ricchezza del libro, il quale è diviso in due parti ben distinte: la storia del teatro a Roma, inteso sia come struttura fisica che come espressione artistica, e uno schedario sistematico, esauriente e aggiornato di schede dei singoli teatri. La prima parte è organizzata in ordine cronologico, la seconda è divisa per ordine alfabetico e completata da un indice analitico. L’autrice è già nota come artista e curatrice di mostre (1) e per una serie di monografie di arte e altro, tra cui citiamo: I mosaici a Roma dall’antichità al Medioevo, Santa Maria in Montesanto, Il vino a Roma e nel Lazio, Sciamè. Alchimia del rosso, Il canto della terra, L’ essenza della solitudine, Dolores Prato, Vostra Veronica. In questo libro appena uscito Stefania Severi ripercorre non solo la storia degli edifici teatrali dall’antica Roma a oggi, ma anche degli autori, artisti, impresari e promotori che hanno reso possibile una continuità culturale che supera i duemila anni. E naturalmente si parla anche del pubblico, il vero protagonista delle fortune e sfortune della scena romana, dove la storia del teatro presenta caratteristiche uniche: da un lato c’è l’origine sacrale dello spettacolo – pagana o cristiana non importa – e dall’altro la coesistenza da sempre di espressioni di cultura alta insieme a spettacoli plebei, popolari, con curiose ibridazioni fra i due registri – sarcasticamente commentati nei sonetti del Belli – dovute alla particolare struttura sociale romana: la Chiesa condizionava la durata della stagione teatrale (iniziava a dicembre, ma per la Quaresima i teatri erano chiusi) ma promuoveva le sacre rappresentazioni e lasciava una certa libertà al teatro popolare o aulico che fosse, purché non si discutesse di politica o di religione. Ma nei teatri come nei palazzi convivevano, sia pur in settori diversi, nobili e plebei, borghesi e “generone”, senza quella separazione di casta presente in altre società anche italiane. I viaggiatori stranieri notavano da un lato la grande passione dei romani per il teatro a tutti i livelli, ma dall’esterno vedevano i romani come parte stessa dello spettacolo, fosse per la prima di un’opera lirica o per una processione della Settimana Santa (2). Nell’antica Roma il pubblico non pagava (panem et circenses..) e i teatri col tempo erano divenuti monumentali. Il teatro di Ostia antica ancora è attivo, gli altri – teatro di Pompeo, di Marcello, di Traiano – restano monumenti a memoria di fasti passati. Il medioevo vede sacre rappresentazioni, cerimonie, cortei e processioni registrate da precisi cronisti e cerimonieri come il Burcardo, ma col Rinascimento e il Barocco rinasce il teatro laico, patrocinato dalle famiglie nobili, le quali inseriscono fino a due secoli dopo un teatro privato nei loro palazzi, mentre ben presto l’iniziativa privata si adegua alla domanda e diversifica l’offerta, che va dal dramma e melodramma alla commedia, dall’aulico alla farsa popolare, dal teatro di parola al mimo e ai burattini. Giustamente l’autrice parla in questo senso di “sistema teatrale”, data la quantità e la diversificazione dell’offerta romana, col suo ampio spazio per nobili mecenati e impresari privati, attori e cantanti professionisti e confraternite di dilettanti, primedonne, gigioni, musicisti, artisti di scena e artigiani. Alla fine di ogni secolo è riportato l’elenco dei singoli teatri con la data di apertura. Se manca l’asterisco la struttura è ancora aperta alla scena. Se l’Apollo non esiste più, alcuni sono ancora in attività, magari con repertorio diverso. Penso al teatrino di palazzo Altemps, al teatro Argentina ora di prosa ma nato lirico (vide la prima del Barbiere di Siviglia), ma anche all’Oratorio del Borromini. Pur nella relativa stasi dello Stato Pontificio, la vita teatrale romana ha sempre avuto un grande impulso creativo e una grande popolarità

La cesura tra due epoche avviene quando nel 1870 Roma diviene capitale d’Italia, con la rapida trasformazione urbanistica e sociale delle sue strutture e del pubblico. Risale alla seconda metà del XIX secolo la costruzione di nuovi teatri. La gran parte dei teatri di fine secolo è attiva: il Costanzi per l’Opera, il Quirino, l’Eliseo, la Sala Umberto, il Salone Margherita, l’Ambra Jovinelli, tanto per citarne alcuni. Carente è invece il secondo dopoguerra, che ha visto solo ristrutturazioni e riconversioni spesso discutibili (la distruzione dell’Adriano per farne una multisala è emblematica) e soprattutto ha penalizzato la periferia continuando a concentrare lo spettacolo al centro storico, a parte gli introvabili teatri tenda. Ma dagli anni 60 ci immergiamo in nella realtà più difficile da schedare: l’esplosione del teatro sperimentale e dei “teatrini” – talvolta scantinati o locali recuperati – che renderanno Roma una delle città più vivaci d’Italia. “Uno, cento, mille teatrini” è più di uno slogan. Concentrati fra Trastevere e Testaccio ma non solo, pur in autentica povertà di mezzi diventano un mondo parallelo che per osmosi trasmette al Teatro Stabile nuovi linguaggi e rinnova un repertorio all’epoca fin troppo alimentato dagli abbonamenti del pubblico borghese. Ripercorrere con la Severi le vicende dell’avanguardia teatrale romana è divertente quanto difficile, ogni segmento essendo originale e non sempre documentabile con precisione. Non era il mondo dell’Effimero dell’assessore Nicolini – grande rinnovatore della periferia e inventore dell’estate Romana – ma ne ha preparato il terreno.

E il nuovo secolo come si presenta? Da un lato Roma con l’Auditorium Parco della Musica di Renzo Piano (2001) ha finalmente uno spazio adeguato a un capitale europea e l’offerta teatrale si è decentrata anche in zone prima culturalmente deserte, vuoi per intervento pubblico (Tor Bella Monaca, Quarticciolo, Corviale, circuito TIC, Teatri in Comune) che privato (Teatro degli Audaci, Il Globo fondato da Proietti), mentre i “teatrini”, decimati dalle nuove leggi di sicurezza e dall’età dei fondatori, sopravvivono o passano il testimone ai loro allievi, visto che proliferano le scuole di teatro a tutti i livelli. Passato il Covid, in questo momento il teatro non è in declino, a differenza delle sale cinematografiche che chiudono. Il motivo? C’è il desiderio naturale di vedere fisicamente l’attore e lo spettacolo dal vivo è un salutare  antidoto all’inflazione da immagini registrate e/o scaricabili.

Addenda: per contenere il prezzo (22 euro per 327 pagine) il libro è privo di illustrazioni. Per integrarne la lettura consiglio un sito completo di immagini, schede e indicazioni topografiche: https://www.info.roma.it/teatri_di_roma.asp


Note:

  1. https://www.exibart.com/artista-curatore-critico-arte/stefania-severi/
  2. Vedi p.es. Città teatrale. Lo spettacolo a Roma nelle impressioni dei viaggiatori americani 1760-1870, di Alessandro Gebbia, 1985.

Dizionario dei teatri di Roma
Stefania Severi
Edilazio, Roma, 2023. pp.327
Prezzo 22,00 euro


Il complesso rapporto tra architettura e liturgia

Ѐ uscito recentemente in libreria l’interessante volume di Leonardo Servadio Architettura e liturgia. Intese, oltre i malintesi.

Il saggio, illustrato alla presenza di un folto pubblico presso la Galleria San Fedele a Milano, si propone di fare il punto su una questione non secondaria di architettura sacra, e cioè la progettazione delle nuove chiese nonché l’adeguamento di quelle preesistenti a seguito dei cambiamenti in tema di liturgia disposti a conclusione del Concilio Vaticano II. I notevoli mutamenti che hanno rivoluzionato la liturgia post-conciliare riguardano non solo la lingua delle celebrazioni liturgiche, ma anche l’intera disposizione degli elementi architettonici che costituiscono l’edificio chiesa. Per anni sono mancate agli architetti e alle commissioni diocesane esaminatrici dei nuovi progetti le disposizioni concrete per la valutazione degli stessi, per anni non si è saputo come costruire le nuove chiese. La mancanza di linee guida autorevoli ha generato a volte confusione e interpretazioni opposte.

Nel 1993 infine la Commissione per la liturgia della Conferenza Episcopale Italiana pubblica la Nota pastorale Progettazione di nuove chiese e nel 1996 la Nota pastorale L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, a fornire suggerimenti non generici sulla progettazione di spazi liturgici nel loro complesso coerentemente con le disposizioni conciliari.

Servadio, giornalista, collaboratore di Avvenire ed esperto di architettura sacra, esamina ogni aspetto dello spazio liturgico, dall’altare al tabernacolo allo spazio per l’assemblea, fino allo spazio esterno, sagrato e piazza, cercando di verificare, con numerosi esempi, quanto i nuovi progetti o gli adattamenti strutturali effettuati sulle chiese preesistenti siano coerenti con le indicazioni delle note pastorali o abbiano partorito a volte eccessi o “malintesi”.

Il fulcro fondamentale della liturgia rinnovata dal Concilio Vaticano II è la centralità dell’altare, come il tabernacolo lo era per la Riforma tridentina, rivolto verso l’assemblea dei fedeli chiamati a partecipare attivamente alle celebrazioni, e per questo motivo spesso le nuove chiese  presentano una pianta centrale. Servadio trova che questo sia però uno dei intenti più difficili da realizzare, in quanto a volte l’eccesso di sedute, spesso costituite da mobilia fatta in serie, tende a dare alla chiesa l’aspetto banale di un teatro con il pubblico passivo davanti ad attori su un palcoscenico, stravolgendo quindi i veri intenti del Concilio.

Se diverse chiese contemporanee, portate a esempio nel libro, riescono comunque a raggiungere i risultati auspicati dalle note pastorali, i progetti di altri pur noti architetti ottengono gli effetti opposti, non riuscendo a conferire alle loro chiese quel quid, come lo chiamava Pier Luigi Nervi, che si trova di frequente nelle chiese antiche.

L’architettura di una chiesa trascende il mero significato terreno di edificio idoneo ad accogliere una riunione di fedeli, si tratta della costruzione di uno spazio ricco di simboli, uno spazio che occorre percepire come altro rispetto a quello mondano. Tutti gli elementi architettonici che compongono una chiesa, a cominciare dal sagrato, non a caso solitamente elevato, devono tendere a questo risultato.  Il portale di una chiesa non separa uno spazio profano da un altro altrettanto profano ma lo separa da uno spazio sacro; la semi-oscurità che ci accoglie all’ingresso rappresenta il silenzio che induce al raccoglimento, così come le finestre di una chiesa non devono solo far filtrare la luce del sole, ma devono fare filtrare la luce divina.

L’ansia di modernità ha fatto a volte, certamente non sempre, prevalere istanze architettoniche puramente materiali, tralasciando l’elemento spirituale, quel quid di cui parlava Pier Luigi Nervi, imprescindibile nell’architettura sacra.


Leonardo Servadio
Architettura e liturgia. Intese, oltre i malintesi.
Prefazione di monsignor Giancarlo Santi.
Introduzione di Paolo Portoghesi
Tab Edizioni, Roma
€ 20,00


(Pre)Potenza Militare

Sentendo la radio e leggendo giornali e blog devo prendere atto che genitori e insegnanti si stanno mobilitando contro quella che ritengono una militarizzazione delle scuole, sempre più spesso invitate a cerimonie o visite o iniziative promosse dalle Forze Armate, le quali in realtà queste attività le svolgono da sempre. Dunque ne è cambiata la percezione collettiva, finora genericamente pacifista, ora realmente “disarmata”, costretta a prendere coscienza della dura realtà della guerra. Negli ultimi trent’anni i nostri militari sono stati proiettati in missioni di pace (?) in terre lontane, ma impegnando a rotazione reparti formati da professionisti, con perdite esigue e un certo ritorno d’immagine. La guerra in Ucraina ora ha cambiato la scena e questo è stato un trauma per tutti. Iraq e Afghanistan sono stati dimenticati, esiste solo il buco nero di una guerra in Europa, ma chi aveva rimosso il problema ora è in crisi.
La guerra in Ucraina dura da un anno, ma nasce da lontano. Facile descrivere la scena attuale: trincee, distruzioni, armi e proclami politici, mentre il fronte rimane fermo come nella prima guerra mondiale. Meno facile capire cosa ha innescato una guerra nel centro dell’Europa dopo settant’anni di equilibri strategici armati ma nel complesso stabili (ex-Jugoslavia a parte, ma ci torneremo). Come al solito bisogna partire dalla caduta del Muro di Berlino (1989) e seguire lo sfaldamento dell’Unione Sovietica. Il vuoto di potere così creato non ha portato a un nuovo equilibrio, quanto piuttosto a uno squilibrio permanente nelle relazioni fra stati. La NATO, nata come struttura difensiva, si è allargata a Est a spese dei paesi soggetti al Patto di Varsavia, realizzando il Drang nach Osten tanto caro ai Tedeschi e suscitando le frustrazioni della Russia, in quel periodo troppo debole per reagire. L’adesione delle nazioni alla NATO è stata libera, quanto rapida è stata la loro accoglienza. Purtroppo la fine della Guerra Fredda e l’allargamento della NATO furono presentati come una vittoria sul nemico, mentre più logico sarebbe stato sciogliere un’alleanza difensiva in favore di una nuova agenzia di sicurezza che coinvolgesse anche la Russia, perlomeno la parte europea. Il resto lo sappiamo: la Russia di Putin vuole riprendersi il maltolto, ma strategicamente la guerra l’ha già persa; può vantare successi tattici, ma l’obiettivo iniziale non è stato raggiunto e per ora la situazione ricorda la prima guerra mondiale.
Ora, in Italia esiste da anni una discrasia fra una linea di Governo allineata con la NATO e un’opinione pubblica scettica o pacifista, la quale comunque poco incide sulla politica estera. Meno palese è che molte analisi puntuali e fuori del coro si devono invece proprio ai militari, in genere ufficiali superiori ora in pensione ma con lunga esperienza sul campo. Spesso esposti in prima linea, hanno informazioni di prima mano sulla realtà al di là della narrazione ufficiale e delle immagini televisive. Purtroppo il loro atteggiamento critico è privo di influenza sulle decisioni politiche nazionali. Vale però la pena di leggere i libri che scrivono. Consiglio L’uso della forza. Se vuoi la pace comprendi la guerra , del generale Carlo Jean (1996) e La NATO nei conflitti europei, ex Jugoslavia ieri, Ucraina oggi , del generale Biagio Di Grazia (2022). Il primo analizza realisticamente (e quindi senza l’ipoteca dell’ideologia) non solo cosa significhi scegliere la guerra come strumento di politica nazionale, ma il motivo per cui una classe dirigente deve per prima cosa chiarire quali sono gli interessi nazionali o internazionali. L’Italia è sempre stata opportunista, senza una condivisa strategia di lungo periodo; da qui avventure coloniali o post-coloniali, entrate in guerra decise la sera prima, guerre lampo impantanate o insabbiate per mesi a seguire e – più recente – un’ansia di presenzialismo e visibilità purché sotto comando statunitense.
Il libro del generale Di Grazia è diverso: forte della sua esperienza nell’ex-Jugoslavia, analizza i meccanismi perversi attraverso i quali l’ONU è stata scavalcata dalla NATO dopo la caduta del Muro di Berlino e oggi si permette di alimentare una guerra (in Ucraina) senza ufficialmente farla. La disgregazione della ex-Jugoslavia è stato il banco di prova durante il quale le varie missioni ONU si sono dimostrate poco capaci e prive di strumenti operativi: basti il paradosso di un Consiglio di sicurezza dove ha diritto di veto anche chi è parte in causa di un conflitto. Ma la NATO, forzando i regolamenti, in pratica si è da quel momento arrogata il diritto di gestire in proprio le crisi locali o addirittura di proiettare verso l’esterno quella che era nata come alleanza puramente difensiva, trasformando dopo l’attacco alle Torri gemelle (2001) l’articolo 5 della NATO (se un membro dell’alleanza viene attaccato tutti lo devono difendere) in un mandato in bianco per guerre contro tutti: i Serbi, il Terrorismo internazionale, Saddam, i Talebani. Con non poche incoerenze: l’indipendenza del Kosovo confligge con i principio dell’inviolabilità delle frontiere e ha dato esca legale al Donbass. Ancora: in Bosnia gli Stati Uniti hanno appoggiato uno stato islamico per poi combatterlo altrove, col risultato di impegnare per vent’anni anni tempo e risorse in paesi musulmani che nel profondo disprezziamo, refrattari come sono alle influenze esterne. La morale? L’importante è avere sempre un nemico, il che ricorda quel film di Alberto Sordi: Finché c’è guerra c’è speranza. In realtà sia la Serbia che la Russia, sia pur indeboliti, potevano essere ottimi alleati, a prescindere dal loro sistema di potere, ma per ora la saggezza non è di questo mondo.


L’ uso della forza. Se vuoi la pace comprendi la guerra
di Carlo Jean
Editore: Laterza, 1996, pp. 140
EAN: 9788842049579
ISBN: 8842049573
Prezzo: € 7.75


La NATO nei conflitti europei. Ex Jugoslavia ieri, Ucraina oggi Condividi
Autore: Biagio Di Grazia
Editore: Delta 3, 2022, pp. 184
EAN: 9791255140481
Prezzo: € 16,00


Dentro l’Uragano con Campegiani

I veri poeti sono dei profeti, e Franco Campegiani è uno di loro. Era il 1986 quando recensivo il suo libro di poesie, non il primo nonostante la giovane età, Selvaggio Pallido, con illustrazioni di Umberto Mastroianni (Rossi & Spera). Scrivevo allora su Avvenire (9/11/1986): «…una costante sembra sempre riproporsi: una lacerante dicotomia. È come se il sorriso più radioso fosse comunque e sempre offuscato dalla più viscerale delle angosce. Una dicotomia tutta contemporanea, oserei dire, di quel contemporaneo che comunque e sempre sente aleggiare su di sé i miasmi del terzo conflitto mondiale, vuoi scatenato dall’uomo, vuoi dalla natura in rivolta». Quelle parole trovano una incredibile attualità in una visione peggiorativa perché mentre all’epoca proponevo un conflitto scatenato o da l’uomo o dalla natura, siamo arrivati oggi ad un conflitto globale. Ancora nel 1990 scrivevo, sempre su Avvenire (7/1/1990), e questa volta sulla raccolta “Cielo Amico” (Ibiskos,1990), che mentre nell’altra raccolta l’uomo era visto distinto dalla natura, qui la natura era protagonista e l’uomo, al massimo, comprimario. Sono trascorsi molti anni e Campegiani ha dato alle stampe altre raccolte poetiche ed anche testi di natura filosofica, fino all’attuale raccolta di poesie Dentro l’uragano (Pegasus Edition, 2021) ma è rimasto sostanzialmente nell’animo quello di sempre: un poeta-contadino particolarmente sensibile alle problematiche ecologiche. Ma la sua è una sensibilità che non sfocia solo in una prassi ecologista, ma entra prepotentemente nella poesia perché nasce dal profondo del suo essere che si sente parte della natura. Aldo Onorati, critico e scrittore che da sempre segue il lavoro di Campegiani, sottolinea, nella prefazione, tra l’altro, proprio il legame profondo del poeta con la terra, definendo il suo un “sentimento georgico”. Due sono i rimandi che, a mio avviso, affiorano in queste liriche. Il primo è la vicinanza ad un movimento letterario che, sebbene datato, è pur sempre vivo nella sua concezione: l’Arcadia. Il poeta si sente parte di quel mondo di pastori e pastorelle dove la vita è in assoluta simbiosi col creato, dalle forme animate a quelle inanimate. Un esempio è nella poesia “Epitaffio”: «Sto nel dolce sonno degli appassiti rami / che si ravvivano a maggio, / nell’anima del fiume che si dissangua nella foce / ed evapora dal mare in nubi cariche / che tornano sui monti per nutrire le fonti sorgive». L’altro rimando, che occhieggia a Seneca ed allo Stoicismo, è la ciclicità ineluttabile ed ineludibile dal ciclo vita-morte: «L’aldilà sprofonda nell’abisso, / scivola nel vuoto, precipita a ritroso / verso gli inizi perenni, verso l’eterna fine /, in cieli e terre senza spazio e senza tempo / da cui riparte sempre la ruota della vita…» (“L’essere è qui”). Ma le conclusioni del poeta-filosofo non sono mai nichiliste ed una sostanziale fiducia nell’Amore, sia quello umano che quello divino, non lascia mai l’uomo completamente solo. Certo il mondo futuro non sarà più quello del passato come affiora nella lirica “Lettera a Pier Paolo” (Pasolini): «S’è disseccato Pier Paolo, per sempre / il fiume del sacro primordiale» tuttavia «la palingensi è inesorabile». Campegiani lascia aperto uno spiraglio al rinnovamento, alla rinascita ed alla rigenerazione. Dentro l’uragano ha vinto il Premio Letterario Internazionale Golden Selection, 2021.


Dentro l’uragano
di Franco Campegiani
Editore: Pegasus Edition, 202, pp. 88
EAN: 9788872111758
ISBN: 8872111757
Prezzo: € 10.00


La pigrizia critica

Una polemica quella sulla fecondità editoriale italiana che ritorna periodicamente sulle pagine dei giornali e del web, per giustificare l’impossibilità dei critici a tener dietro a tutte le nuove uscite, ma tutto è dovuto alla pigrizia di andare a sperimentare la lettura di nuovi autori, scegliendo di seguire i nomi noti e accodarsi al sentimento comune.

Per fortuna dei critici non tutte le case editrici promuovono  tutti i “loro” libri, ma bisogna fare i conti con la tenacia delle scrittrici più che degli scrittori.

Ci sono tante persone che scrivono e tante che lavorano con l’immagine o il suono, ma questo non deve andare a discapito della qualità e soprattutto lasciare in “clandestinità” i vari artisti.

Imputare all’editoria la colpa di sfornare troppi libri all’anno e la conseguente impossibilità dei critici di recensirli è una futile scusa, è come lamentarsi della proliferazione di critici in carta copiativa.

È vero che ci sono molti scrittori in erba e che alcune società editrici vivono grazie alla stampa su compenso di libri difficilmente annoverabili tra i fondamentali per la letteratura, ma è altrettanto indiscutibile che i recensori della parola sono pigri quanto i critici d’arte o della musica.

Dopo gli anni ‘80 e ‘90 è scomparsa la critica militante, quella che andava a scovare i nuovi talenti o almeno quelli che potevano dire qualcosa nell’ambito culturale. Quel tipo di critica è scomparsa perché si è creata una propria scuderia da seguire e i critici in erba hanno scelto di accodarsi alla recensione di autori non più esordienti.

È più facile recensire autori come Antonio Scurati, Michela Murgia, Giulia Caminito, sino a Paolo Bonolis o Andrea Volo, che sfogliare un esordiente con la pretesa di contattare il critico di persona, quando il critico predilige un rapporto diretto con gli editori, ma certi editori scelgono di promuovere solo una parte delle loro edizioni; è un circolo chiuso e non è un libro di Jonathan Coe, dove chi è sconosciuta/o rimarrà tale se non sarà caparbia, ostinata nel trovare un recensore curioso, di buona volontà.

Anche loro sono stati degli esordienti di talento, ma hanno incontrato un critico mentalmente aperto oltre ad essere dei bravi scrittori

Non può essere una scusa il soprannumero degli autori dell’immagine, della parola o del suono, per non avere un’attenzione sulle nuove proposte, a meno che qualcuno sponsorizza qualcun altro, preferendo andare sul sicuro e scrivere sempre degli stessi, senza avere il coraggio di affermare che alcuni nomi hanno una sopravvalutazione del loro lavoro e una sovraesposizione mediatica del loro essere.

Esordienti intenti a promuoversi, ma vengono snobbati, se non godono di una “sponsorizzazione” e la loro ostinazione non sempre riesce ad attirare l’attenzione di chi sentenzia sulla riuscita di una prova letteraria.

In un prossimo futuro l’intelligenza artificiale, tanto lodata o temuta, potrebbe sostituire la critica fatta dai pigri umani, non avendo problemi con il surplus di produzione artistica. L’IA divorerà e-book notte e giorno e non ci sarà un logaritmo capace di simulare le emozioni di una frase o di una pennellata, per apprezzare un’imperfezione.

Lamentarsi della creatività italiana è come lagnarsi della prolificazione di testate informative. Brutte o belle, obbiettive e faziose, cartacee o digitali che siano, sono voci che arricchiscono il panorama editoriale, perché esorcizzare un “esordiente” scrittore o pittore?

Marino Sinibaldi, dopo la lunga e proficua esperienza nei file della Rai Radio 3 Fahrenheit (3 ore radiofoniche dedicate ai libri dal lunedì al venerdì), si è dedicato alla promozione della lettura e alla realizzazione della rivista cartacea “Sotto il vulcano”, ora Nicola Lagioia, anche lui con un esperienza anche se minore in Fahrenheit, promuove la rivista digitale “Lucy”, dopo aver lasciato la guida del Salone del Libro di Torino, e poi nel web troviamo le già affermate: “DoppioZero”, “Nazione Indiana”, “Jodiaries” e altre ancora oltre alle pagine su FaceBook, come “Libri, Chiacchiere, Caffè e Tè” o “Un libro tira l’altro”, ovvero un passaparola dei libri dedicato all’argomento, senza dimenticare i blog e il Tam Tam per i libri dei vari cosiddetti “influencer”.

La Rai dedica alle novità editoriali degli spazi settimanali ai libri con “Billy” (Tg1), “Achab Libri” (Tg2), anche su Rai3 ad esempio con la trasmissione di Giorgio Zanchini con “Quante Storie”, così come RaiNews24 e altre emittenti televisive, arricchiscono il panorama delle opportunità di citare, segnalare o approfondire una nuova pubblicazione..

Divertente è l’iniziativa de L’Indiscreto con la sua “Classifica di qualità – letteratura in traduzione stilata da un pool di grandi lettori composto da critici/e, librerie, riviste letterarie, editor, tradutt/ori/rici, giornalist/i/e culturali, scritt/rici/ori…” come viene specificato nella pagina web. Per quanto si vuol essere “democratici” si è sempre carenti, visto l’inflazione non solo di autori, ma anche di critica e critici.

Poi ci sono le classifiche dei 100 libri che, come la prima, dimentica sempre qualche testo fondamentale nel panorama editoriale internazionale.

Un’inflazione di creatività o solo una grande voglia di ribadire la propria esistenza su questa Terra che accomuna i produttori e i consumatori.

Non viene smentita la pigrizia, forse, ma tutto si può ridurre, come in ogni ambito, in figli e figliastri o è meno faticoso seguire la corrente e solo quando qualche critico d’oltralpe porta all’attenzione di molti un autore fino ad allora snobbato.

La critica letteraria può essere svolta anche senza uscire di casa, se si soffre di agorafobia, non è certo come quella delle arti visive che è consigliabile far visita agli studi dove si crea, ma sarebbe educato, se non gentile, offrire un po’ di attenzione anche ai figliastri della parola.