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TRIESTE di nuovo porto della Mitteleuropa

Trieste è una città che ha pagato cara la sua annessione all’Italia nel 1919: da porto dell’Impero asburgico è diventato un porto decentrato e in più è stata testimone di tutti gli attriti di frontiera possibili. Occupata da Tito nel 1943, fu restituita all’Italia nel 1954 e fino a tempi recenti non è più riuscita a riprendere la sua funzione originaria di porto dell’Europa centrale: nel primo dopoguerra la frammentazione degli stati nazionali ne ha distrutto il monopolio, mentre nel secondo il mondo comunista come sistema economico chiuso ha persino militarizzato le frontiere, col risultato di un’anemia portuale bilanciata anche tra le due guerre da un forte investimento statale nella cantieristica e nei servizi. Il discutibile Trattato di Osimo (1975) prevedeva accanto a Trieste una zona industriale con manodopera slava residente, sorta di “Novi Trst”, mentre i fondi per il rilancio del porto furono dirottati da Tito al potenziamento di quello di Capodistria. La successiva dissoluzione della Jugoslavia riaprì le frontiere ma frammentò di nuovo i flussi commerciali. In più, i collegamenti ferroviari erano rimasti praticamente quelli imperial-regi: chi scrive ricorda che ancora negli anni Settanta i lunghi treni merci scorrevano la sera da Trieste Centrale verso il porto industriale passando davanti a piazza Unità, fin quando nel 1983 non fu ultimata una galleria che dal porto nuovo si ricollega al tronco della vecchia Ferrovia Meridionale e quindi ad Austria e Germania. Mentre l’Ungheria ha comprato un molo, nel frattempo i Tedeschi attraverso un loro colosso della logistica portuale, il porto di Amburgo (Hamburger Hafen und Logistik, o HHLA) hanno acquisito una quota maggioritaria pari a 50,01% del terminal multifunzione del porto di Trieste (Piattaforma Logistica Trieste, o PLT). Si ricorda qui che i Cinesi volevano comprare il porto anche loro, ma le pressioni americane sotto la presidenza Trump hanno condizionato le nostre scelte di governo e di fatto bloccato (per ora) lo sviluppo della Nuova Via della Seta (BRI) e delle sue implicazioni strategiche, peraltro sottovalutate dal nostro governo. L’ingresso del capitale tedesco mette a nudo la mancanza di una solida logistica italiana, ma è coordinato con l’Unione Europea ed entra in competizione con un rivale sistemico, la Cina. Trieste ha comunque recuperato la sua centralità, ma è difficile spiegare questo sviluppo se non si tiene conto da un lato della migliorata logistica ferroviaria del porto e delle linee di collegamento intermodale a impatto zero con Austria e Germania (i c.d. corridoi TEN-T EU), ma soprattutto dell’evoluzione del flusso merci mondiale, che finora previlegiava la rotta Asia – Sudafrica – Amburgo/Rotterdam per poi distribuire le merci per le comode vie d’acqua (fiumi e canali navigabili) dell’Europa continentale. Oggi invece  la crescita dei paesi dell’Est Europa e la migliore logistica ferroviaria stanno dirottando parte delle navi attraverso la rotta Asia – Suez – Pireo – Trieste. A questo punto l’integrazione con la Germania e il suo blocco economico (comprendente l’Austria, i Paesi dell’Europa orientale, il Benelux e, attraverso i legami con l’industria manifatturiera italiana, il Nord del nostro Paese) è parsa anche alle autorità portuali di Trieste la strada più funzionale per restituire alla città giuliana il ruolo strategico di crocevia dei commerci assunto per secoli durante la dominazione austriaca. La Germania ha trovato in pochi mesi a Trieste quel ruolo strategico che a lungo i governi italiani hanno paventato ma mai, in fin dei conti, costruito a livello sistemico. Da un lato tardiamo a fare sistema, dall’altro siamo in ritardo non tanto nei porti, ma nel collegamento tra i porti e le vie di comunicazione.

Questo mi ha portato fra l’altro a leggere un libro quest’anno (2020) ma in realtà aggiornato solo al 2006: L’Italia e il confine orientale, di Marina Cattaruzza, molto utile per capire non solo la situazione attuale, ma anche la debole capacità dello Stato italiano nel gestire e organizzare le risorse e i problemi della Venezia Giulia, un’entità mai ben definita sul piano politico ed etnico, dove le varie comunità locali – a cominciare dalla stessa borghesia triestina – avrebbero preferito collaborare in regime di autonomia piuttosto che subire l’italico centralismo amministrativo. Il Trattato di Rapallo (1920), anche se deluse la nazione e fece coniare a D’Annunzio la nota espressione della Vittoria Mutilata, assegnava comunque all’Italia 200.000 germanofoni tirolesi e 400.000 slavi tra sloveni e croati. Il presidente Wilson passa per campione dell’autodeterminazione delle nazioni, ma in realtà tre milioni di ungheresi furono assegnati alla Romania. L’Italia ottenne anche il Brennero per riconosciuti motivi strategici (ancora nel 1943 entreranno da lì le truppe di occupazione della Wehrmacht), ma l’Austria era un perdente, mentre l’artificiale Regno di Jugoslavia si presentava come potenza giovane, vittoriosa e concorrente con l’irredentismo italiano, nel primo dopoguerra ormai difficilmente scindibile dalla politica di potenza. Da qui l’inevitabile attrito con gli slavi, specie in un’epoca dove nessuno stato europeo tutelava realmente le minoranze. Il Fascismo poi appoggiò l’insufficiente azione dello Stato dando mano libera alle proprie squadre, operazione non solo sbagliata sul piano giuridico, ma indice di scarsa capacità di governo delle proprie zone di confine. E se i confini fisici dell’Italia sono assolutamente definiti – l’arco alpino da Ventimiglia fino a Pola – non sempre sono lo spartiacque perfetto fra diverse nazioni: francesi, tedeschi, slavi.

La seconda Guerra Mondiale avrebbe visto una dura guerra nei Balcani e nel 1943 il collasso dell’Italia e del suo esercito, mentre le formazioni partigiane di Tito occupavano per sempre Istria e Dalmazia e completavano un processo storico che nel lungo periodo avrebbe comunque visto la slavizzazione di zone una volta italofone e in gran parte costiere. Trieste fu restituita all’Italia nel 1954 dopo un periodo di occupazione alleata e per anni è sopravvissuta grazie al commercio frontaliero e a forti commesse di Stato, essendo i confini sigillati e militarizzati. Nel libro purtroppo non si parla mai del dispositivo militare italiano che dipendeva dal V Corpo di Armata e presidiava il confine e l’entroterra per tutta la Guerra Fredda, mentre sarebbe interessante capire il costo dell’impresa. Un tentativo di chiudere una volta per tutte la partita fu il Trattato di Osimo (1975), negoziato da Aldo Moro ma sicuramente influenzato dai colloqui tra Berlinguer e Tito svolti qualche mese prima. Con quel trattato firmato di nascosto in una villa privata in un paesino delle Marche e firmato dal capo del Governo (Aldo Moro) invece che dal ministro degli Esteri (Mariano Rumor) si chiudeva il lungo contenzioso, ma soprattutto si dava sponda a Tito cercando di attirarlo nell’area occidentale e garantendo ossigeno alla sua Jugoslavia. Era l’anno del Trattato di Helsinki, si parlava solo di distensione e sicuramente il governo americano fece pressioni sul nostro, che cercò goffamente di presentare il trattato come una vittoria della diplomazia italiana. Si temeva tra l’altro che dopo Tito la Jugoslavia sarebbe stata invasa o divisa dall’Unione Sovietica, ma nessuno poteva sapere che le due entità statali sarebbero sparite dalla faccia della Terra praticamente insieme. Fortemente voluta da Germania, Austria e Ungheria (e Vaticano) fu invece l’indipendenza di Slovenia e Croazia dalla morente Federazione Jugoslava, riconosciuta solo dopo poche ore dall’inizio del conflitto che doveva distruggere quello che Tito aveva pazientemente creato. Anche qui il nostro margine di manovra fu minimo, col risultato di ratificare con “Slo & Cro” il trattato di Osimo, mentre qualcosa avremmo anche potuto ottenere dai nuovi vicini. Come si vede, la storia di Trieste è indissolubilmente legata all’asse geostrategico e commerciale mitteleuropeo e, pur essendo Trieste una città italiana, i veri padroni del porto alla fine non sono gli italiani, ma i destinatari finali delle merci ivi sbarcate e smistate.


L’ Italia e il confine orientale
Marina Cattaruzza

Editore: Il Mulino, 2007, pp. 392

Prezzo: € 15,00

EAN: 9788815121660

L’Europa a piedi

In Italia manca una letteratura di viaggio: esploratori in passato, siamo oggi sedentari, mentre invece gli inglesi si qualificano come grandi viaggiatori. Ho letto i libri di Bruce Chatwin; mi sono appassionato alle imprese di sir Ranulph Fiennes (vedi articolo), ma ignoravo le imprese di Patrick Leigh Fermor, di cui il giovane Nick Hunt ripercorre le tappe. Si direbbe un hobby nordico: Geert Mak segue a distanza di cinquant’anni i viaggi americani di Steinbeck, Dick North ripercorre in Alaska e Canada le orme di Jack London a ottant’anni dalla corsa all’oro. “Paddy” Fermor aveva viaggiato attraverso l’Europa tra il dicembre del 1933 e il gennaio del 1935, rielaborando in seguito la sua esperienza in tre libri: A time of Gifts (1977), Between the Woods and the Water (1986), e The Broken Road: Travels from Bulgaria to Mount Athos (postumo nel 2013) (1). La trilogia, grazie alla vasta e poliedrica cultura dell’autore, risulta arricchita da digressioni storiche, artistiche, antropologiche e politiche. Il nostro giovane seguace non ha di queste pretese e quindi Camminando fra i boschi e l’acqua non è una Guide du Routard aggiornata al 2011, anno del viaggio che da Rotterdam l’ha portato fino a Istambul. L’autore, all’epoca trentenne, è nipote dell’alpinista John Hunt (Everest, 1953) e ha per Fermor una sorta di sacra riverenza, al punto di non avergli mai scritto una lettera. Fermor viveva in Grecia e muore proprio nel 2011, senza sapere che un suo lettore ne stava ripercorrendo i passi. L’Europa di Fermor è quella degli anni Trenta: industriale e insieme agricola, urbana e rurale, ma con una rete stradale ancora embrionale se paragonata a oggi. Molte comunità erano di fatto isolate e autonome, né la tv aveva omologato culture e stili di vita. Fermor però in Germania si scontra presto con la brutale volgarità dei nazisti, non ancora al potere ma ben affermati a Monaco e in provincia. Fermor pochi anni dopo combatterà i nazisti a Creta come incursore di Sua Maestà, arrivando persino a rapire un generale tedesco e consegnarlo ai partigiani greci, ma nel 1933 ancora non può immaginare di cosa saranno capaci le SS. Quando poi seguendo il Danubio passa in Mitteleuropa, da buon inglese è quasi sempre ospitato dalla piccola nobiltà di campagna, classe sociale già in crisi dopo la prima guerra mondiale ma spazzata via dalla seconda grazie ai sovietici, che provvederanno anche a distruggere il carattere multietnico e multiculturale delle grandi città. Per il resto, il paesaggio rurale ungherese e romeno descritto da Fermor sembra ancora quello del secolo prima: contadini e pastori vestiti come nei quadri di genere, strade piene di buche e carri trainati da cavalli, anche se nel fondo possiamo indovinare il gusto inglese per il pittoresco.

E passiamo al nostro Nick Hunt; nel 2011 non può più farsi ospitare da improbabili signorotti di campagna, ma ricorre a una rete internet di ospitalità temporanea o si arrangia come può. Parte d’inverno da Rotterdam per risalire il Reno e poi seguire il corso del Danubio, arrivando in primavera a Vienna e continuando per l’Ungheria, che sente come un’isola separata dall’Europa, per continuare in Romania dopo le Porte di Ferro, il punto dove il Danubio si apre a forza un varco tra le montagne e irrompe in Romania. Nel libro ci sono alcune scarne cartine, ma chi abbia un minimo di conoscenze geografiche non ha difficoltà a seguire un percorso, che grosso modo coincide con il Limes dell’Impero romano. E infatti appena lo varca si accorge di quanto l’Europa orientale sia diversa in tutto e quanto superficialmente sia stata annessa all’Unione Europea. Ma andiamo per ordine: risalendo il Reno con la bussola e il libro di Fermor in mano, Hunt ritrova ogni tanto le vecchie osterie e chiese di provincia descritte nel libro, ma il tessuto connettivo è ora scandito dalle autostrade, dai centri commerciali, dalle industrie e dalle dighe, e marciare a piedi non è previsto dall’urbanistica, a meno di non andar per boschi e paludi dove ancora esistono. Le aree golenali ancora intatte sono parchi naturali, altrimenti ci sono sbarramenti ovunque e le periferie delle grandi città si somiglian tutte. Diverso il paesaggio da Bratislava in poi: sembra la descrizione di un dopoguerra, dove gran parte di quello che ha costruito il Socialismo sembra ora aver l’aspetto di un rottame arrugginito e dove le varie etnie prima unificate dall’internazionalismo proletario oggi hanno in comune solo l’odio verso gli zingari, i musulmani e l’Europa. Hunt a Budapest segue anche un comizio di Orbàn e ne rimane scosso, pur senza capire – ovvio – una parola di ungherese. Il viaggio poi continua con ampie escursioni in Transilvania, prima di riprendere la rotta verso sud. Ma non entro nei dettagli e invito invece a leggere il libro e magari anche quello di Fermor (di cui Hunt riporta comunque ampie citazioni), ma non prima di dire qual è il vero pregio di entrambe le opere: la sorpresa dell’incontro. I luoghi possono esser descritti da una Guide Bleu Michelin, da un Baedeker o dal Touring Club, mentre le persone con cui i nostri autori entrano in contatto sono un patrimonio esclusivo del viaggiatore, ma condiviso con i lettori. Chi ospita il viaggiatore vuol sempre ascoltare una storia e ne racconta di sue fino a notte fonda. Esperienza unica: uomini e donne incontrati lungo il percorso sono un campionario anche bizzarro di dialetti, usi e costumi e stramberie di ogni genere, anche divertenti, tutte annotate dal nostro viandante curioso. Quando invece si parla di politica, salta invece fuori quell’educato disinteresse di chi nulla capisce dei problemi nazionali o locali altrui. Ampie sono le digressioni su pranzi, cene e serate in birreria, tipiche di chi viaggia a piedi e ha sempre una fame da lupi. Lunghe descrizioni di dolori fisiologici: stranamente, Hunt non si è allenato alla marcia nei mesi prima e quindi soffre di stiramenti ai tendini, dolori muscolari e quant’altro. Costretto ogni tanto al riposo assoluto, ne approfitta però per scrivere…

NOTE

  1. Traduzioni italiane: Tempo di regali : a piedi fino a Costantinopoli : da Hoek Van Holland al medio Danubio (2009) ; Fra i boschi e l’acqua : a piedi fino a Costantinopoli : dal medio Danubio alle Porte di Ferro (2013) ; La strada interrotta : dalle Porte di Ferro al Monte Athos (2015).

Camminando fra i boschi e l’acqua.
Da Hoek van Holland al Corno d’Oro sulle tracce di Patrick Leigh Fermar
di Nick Hunt
Traduttore: Laura Prandino
Editore: Neri Pozza, 2020, pp. 365
Prezzo : € 19,00

EAN: 9788854519022

EPUB con DRM
9,99 €


Saggio, Romanzo o Romanzo di un Saggio?

Chiedo scusa per il gioco di parole del titolo, ma dopo aver letto quest’opera firmata da Rinaldo Boggiani è davvero una domanda che vien da porsi ed è un dubbio che il libro stesso va a rafforzare ad un certo punto. Per risolvere almeno in parte questo quesito è bene partire dal principio.

Opera ultima di una trilogia iniziata con “La valigia con la ragazza” e continuata poi con “Tornerà”, “Sono tornato” va a chiudere un cerchio mistico costruito su solide basi da un autore che è riuscito ad unire storia, attualità, scienza e religione per dare vita ad una serie fantasy-thriller molto ambiziosa.

Se nei primi due romanzi erano i personaggi principali ad occupare le pagine del libro, in quest’ultimo non so se si possa parlare di veri e propri protagonisti, o forse il protagonista è uno e voi futuri lettori lo potrete stringere tra le mani? Lo so, detto così vuole dire poco, ma credetemi se vi dico che a lettura conclusa potreste pensarla allo stesso modo.

Certo è che i personaggi non mancano. Tolti Tommaso e Silvia, vecchie conoscenze del romanzo passato, tutta la trama gira intorno all’incontro avvenuto tra alcuni “misteriosi” spiriti del passato che si riuniscono in grande stile e con mezzi di trasporto di tutto rispetto in una vecchia cattedrale gotica abbandonata. Tema dell’incontro: il mondo di oggi. Argomento più che delicato che l’autore mette sulla bocca di questi personaggi in modo magistrale, andando a toccare tematiche tutt’altro che fantasiose, per mostrarci un’ipotetica soluzione ad una realtà improntata sui soldi, e che soldi!

Curiosa è la narrazione che offre pochi spunti alternativi alla trama centrale, come per non distogliere il lettore dal tema principale del libro o dal messaggio che esso stesso vuole trasmettere. Lo stesso “antagonista”, se così si può chiamare, resta quasi vago e si palesa solo con una consistente potenza di fuoco, dove Rinaldo Boggiani si sbizzarrisce con una notevole lista di gioielli tecnologici di cui non si sente parlare tutti i giorni.

E quale sarà dunque il ruolo di Giorgio e Jessica, nuovi personaggi, in questo contesto ultraterreno e ultra scientifico? Io li ho intesi come il lato umano del romanzo, testimoni di un qualcosa che solo chi ha determinate conoscenze, come Jessica, o chi ha il coraggio di credere, come Giorgio, può metabolizzare e accettare come vero e possibile. E alla fine, al di fuori delle pagine, forse siamo noi che dobbiamo cogliere quel messaggio e muoverci in tal senso per risolvere una situazione tangibile a cui nessuno però sembra voler porre rimedio.

Per concludere non credo di spoilerare nulla se dico che si tratta effettivamente di un romanzo, ma un romanzo come non ne ho mai letti altri e sfido chiunque a negare il fatto che ci sia anche della saggistica in questa storia fantasy che affronta in modo incredibile una realtà che è sotto gli occhi di tutti, in modo crudo e violento, senza esclusione di colpi, come è il mondo in cui noi oggi viviamo.

L’opera è una prova evidente delle conoscenze acquisite in anni di lavoro da Rinaldo Boggiani, che vanta nel suo curriculum una cattedra di Istituzioni di diritto pubblico condivisa con Italo Mereu, di cui è stato anche allievo. Oltre alla trama, ciò che colpisce di questo romanzo sono le note, segno evidente dello studio a cui l’autore si è sottoposto per dare vita a questa storia di cui ho già detto tutto il possibile in precedenza.

Come se questo non bastasse, Boggiani si è avvalso della penna di Davide Colombo (direttamente dal Sole 24 ore) per anticipare la lettura del romanzo con una prefazione, utile a piantare il seme della curiosità destinato a crescere con il romanzo vero e proprio. Se poi nel corso della lettura doveste sentire il bisogno di dare corpo e forma ad alcune delle creature fantastiche presenti nella storia, verrà in vostro aiuto la matita di Alice Spagni, proveniente dal 4° anno del Liceo Artistico Venturi di Modena, che con il suo talento e la sua mano ha dato vita ai disegni più realistici di ciò che il testo vi trasmette solo a parole Soddisfatti? Se così non fosse a lettura conclusa vi aspetta una piacevole postfazione ad opera di Fabrizio Tedeschi, fondatore dell’Ufficio Insider Trading di CONSOB, che va a chiudere in bellezza un libro a cui di più non si può chiedere ma che di più avrà. Avete capito bene, qualora infatti decideste di rileggere alcuni passaggi, o tutto il romanzo, potrete avvalervi dell’audiolibro con la voce di Marino Bellini e le musiche in sottofondo del Prof. concertista Nicola Cittadin: il primo è attore e regista molto attivo nel teatro che, già in precedenza, ha “collaborato” con Rinaldo Boggiani curando la regia dello spettacolo “Il brevetto”, tratto da un racconto dell’autore; il secondo, dopo aver conseguito il diploma in pianoforte, organo e composizione organistica, ha frequentato i migliori istituti dove ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti, per portare poi la sua musica in numerosi festival anche al di fuori del nostro paese.

Che dire, più di così non mi resta che raccontarvi direttamente tutto il romanzo, ma non lo farò! A voi quindi il piacere di tuffarvi in questa lettura per scoprire cose che voi… forse prima non sapevate.


Titolo: Sono tornato
Autore: Rinaldo Boggiani
Editore: Mazzanti Libri, 2020, pp. 179
Disponibile anche in ebook


Caimano 69

In Italia gli alpini si mandano in Russia e in Mozambico, quindi niente di strano se gli incursori della Marina invece che nel proprio elemento si ritrovino a combattere i Talebani in Afghanistan. Eredi della X Mas della Regia Marina (ma non della repubblichina X Mas di Giunio Valerio Borghese) i Comsubin (Comando subacquei incursori) nulla hanno da invidiare agli US Navy Seals se non il numero e le risorse assegnate. Abbiamo comunque unificato sotto un unico comando (Confoter) i nostri corpi speciali (Arditi del 9° rgt “Col Moschin”, Rangers del 184° rgt Alpini paracadutisti, etc.), in modo da gestirne meglio risorse e addestramento. Alla fine sono sempre loro, “i soliti noti”, a fare la guerra. Sì, perché di guerra si tratta, al di là della retorica delle operazioni di pace, e qui a raccontarla è un incursore in servizio, previa autorizzazione dei superiori. Mario Chima – nome d’arte – è nato nel 1969, quindi è oggi verosimilmente un istruttore, ma è stato sul terreno in Irak, in Libano e Afghanistan almeno fino a dieci anni fa. Ora il nostro impegno è ridotto e prima o poi i nostri torneranno a casa, ma per anni eravamo molti esposti. L’autore non riporta sempre i nomi dei luoghi, ma non è difficile capire che l’impegno più duro era nella zona di Bala Mourghab, a nord di Herat e nella provincia di Farah. Nel libro si descrive la durezza dei combattimenti, il rischio continuo di morire in agguato o per un ordigno esplosivo, la scadente qualità dei soldati afghani rispetto alla capillare organizzazione tribale della guerriglia afghana (qui chiamati “Insurgents”: sono cattivi e basta). Ma abbiamo anche uno spaccato sull’addestramento dei nostri incursori, integrato dalla tecnologia ma pur sempre basato sugli uomini. Alcune operazioni descritte nel libro sembrano ricalcate dalle “librette”, i manuali usati nelle scuole militari, tale è la precisione con cui vengono descritte le procedure operative. In realtà non sempre va tutto bene, ma alla fine professionismo, armi, coraggio e reparti di appoggio evitano il peggio: oggi è più facile comunicare con la squadra o con il comando tattico, mentre prima era anche difficile sapere dove stavano i propri soldati. Ma il libro, anche se utile a chi voglia farsi una cultura sugli incursori, ha un pregio tutto suo: a differenza di Azione immediata dell’incursore inglese Andy McNab, non è solo tecnico ma anche umano. Chiunque sia, Mario Chima è un italiano che spesso pensa alla moglie e alla figlia e guarda il cielo stellato, ricordandoci che non è una macchina e che i soldati sono sognatori.

Detto questo, da parte mia consiglio solo di rivedere l’impianto tipografico in caso di ristampa: le citazioni sono riportate con un carattere in corpo troppo piccolo e le note in calce sono addirittura illeggibili perché microscopiche. Sarebbero gradite anche qualche mappa e un glossario delle tante sigle usate nel testo e decodificate in nota.


CAIMANO 69: sabbia e polvere
Mario Chima
Editore: Indipendente, 2020, pp. 579

Prezzo: € 19,76

ISBN: 979-8645118242


Piccoli paesi, grandi storie

“Terra Alta”. Non so esattamente cosa mi aspettavo quando ho scelto di leggere questo romanzo, fatto sta che il titolo evocava qualcosa di forte, tanto da sceglierlo senza neanche dare una sbirciata alla quarta di copertina. Il risultato è stato in effetti quello della sensazione iniziale: è un romanzo tosto, che non si risparmia sui contenuti e che intraprende un percorso di maturazione del personaggio che va di pari passo con la trama, come vedremo in seguito.

Javier Cercas, l’autore, non è certo nuovo nel panorama editoriale e vanta già parecchi romanzi pubblicati in Italia sempre dalla casa editrice Guanda. Con questa nuova opera egli conferma le sue ottime doti di narratore, dando vita ad un thriller che, tra un capitolo e l’altro, fa compiere al protagonista un viaggio introspettivo che trasforma la storia in un romanzo di coscienza.

Tornando al titolo, cominciamo col dire che la Terra Alta è un luogo, anzi una “comarca” (suddivisione territoriale) della Catalogna, una zona poco conosciuta ma che vanta nella sua storia la famosa “battaglia dell’Ebro”, la più lunga e sanguinosa battaglia della guerra civile spagnola.

Ma non è di guerra che si parla nel romanzo anche perché, oggi come oggi, la Terra Alta è ritenuto un posto tranquillo dove accade poco o nulla. Quel “poco” però in questo caso è un atroce assassinio compiuto ai danni di due ricchi anziani e di una domestica, i primi proprietari della più grande fabbrica della zona, la Graficas Adell, luogo dove è avvenuto il misfatto. Ed è su questo che deve indagare il giovane poliziotto Melchor Marin, il protagonista del romanzo, che si era trasferito da Barcellona in Terra Alta per far calmare un po’ le acque in seguito ad un suo atto di “eroismo” che gli avrebbe potuto causare ripercussioni.

E qui parte la vera e propria analisi della storia, una storia che viaggia su due binari, l’assassinio degli Adell e la vita di Melchor, che andranno pian piano ad intrecciarsi svelando l’animo del protagonista, il suo passato e le motivazioni che lo hanno portato a diventare un poliziotto, prima fra tutte la lettura de “I Miserabili” di Victor Hugo, un romanzo che ha profondamente colpito Melchor, cambiandolo radicalmente fino a diventare la persona che è. E’ molto importante questo aspetto del personaggio, quasi fosse la chiave di lettura per comprendere fino in fondo il suo interesse in un caso come l’uccisione di quei due anziani che, fin dall’inizio, non dava molti appigli su cui lavorare.

Come si apprende dalla lettura, nè il passato nè il presente del protagonista gli offrono la giusta dose di felicità che forse meriterebbe, neppure l’amore della moglie e della figlia, ma forse è proprio su questo che alla fine bisogna soffermarsi: la vita a volte non regala nulla, ma con la forza d’animo giusta e superando anche gli ostacoli più difficili qualcosa torna sempre indietro. Melchor lo insegna e forse tutti noi avremmo bisogno di trovare un romanzo come “I Miserabili”, capace di colpirci fin nel profondo fino a portarci a maturare anche quando pensiamo di non averne più necessità.

Non so dirvi se vi affezionerete a qualche personaggio in particolare, se ne odierete alcuni o se vi risulteranno incompresi altri perchè è una storia così, che vi prenderà di petto e vi metterà in condizione di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ciò che posso dirvi per certo di questo romanzo è che ritengo sia almeno giusto leggerlo.  


Terra Alta
Javier Cercas
Traduzione: Bruno Arpaia
Editore: Guanda, 2020, pp. 384
https://www.guanda.it/autori/javier-cercas/
prezzo: € 19,00

EAN: 9788823526136

https://www.guanda.it/autori/javier-cercas/

prezzo: € 19,00

    EAN: 9788823526136

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