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Gangs of New… Laven

Come avrete notato il titolo rimanda al famoso film di Martin Scorsese, a sua volta tratto dal libro di Herbert Asbury, “Le gang di New York: una storia informale della malavita”. Citazione non casuale questa perchè è lo stesso Jon Skovron, autore del libro qui recensito, a citare il romanzo New Yorkese nei ringraziamenti.
Andando con ordine però iniziamo col dire che, a differenza del film e della storia di New York, il romanzo di Skovron intitolato “Il potere e la vendetta” è un cento per cento fantasy condito da pirati, stregoni, esseri abominevoli, sacerdoti guerrieri e chi più ne ha più ne metta. L’ambientazione poi è ovviamente immaginaria e senza tempo. Cosa c’è in comune allora con “Gangs of New York”? Bè… le Gangs appunto. In questo immaginario luogo chiamato New Laven dove è ambientata gran pare della storia, la legge se la fanno le varie Gangs che lo abiatano, da Quartiere Paradiso a Capo Martello tanto per citarne due. Ed è in mezzo a questa lotta tra gang che si incontrano i protagonisti del romanzo, Red e Hope, il primo noto come il più famoso ladro di Quartiere Paradiso, la seconda è invece una formidabile guerriera in cerca di vendetta. Vendetta contro chi? Ovviamente contro gli stregoni cattivi chiamati Biomanti che, al soldo dell’impero, si divertono a sterminare interi villaggi (tra cui quello di Hope) alla ricerca di un’arma segreta. Arma segreta? Certo, perché l’autore per non farci mancare nulla ha messo in sottofondo una misteriosa minaccia proveniente da chissà dove, anticipata ma mai spiegata, che probabilmente sarà protagonista dei prossimi due seguiti. Avete capito bene, trattasi di trilogia, la buona notizia però è che entrambi i romanzi successivi al presente sono già scritti e pubblicati in terra d’autore, si tratta quindi di aspettare traduzione e pubblicazione italiana da parte, presumibilmente, dalla stessa casa editrice Armenia che ha curato l’edizione di “Il potere e la vendetta”.
Entrando nello specifico del romanzo iniziamo col dire che, nell’ormai vastissimo panorama fantasy editoriale, è sempre piacevole trovare nuove storie con contenuti diversi e dai ritmi sostenuti, una di quelle storie dove “una pagina tira l’altra”. Sarà il caratteristico lessico inventato dall’autore di cui tra poco parleremo, saranno le avventure piratesche che hanno sempre il loro fascino, o saranno forse questi luoghi ben descritti tali da trascinare il lettore tra le vie malfamate di New Laven, insomma, con un po’ di tutto Skovron è riuscito a dare vita ad un interessante universo.
Come avrete capito la storia non si ferma mai, ed è anzi fatta di storie nella storia perché se è chiaro quale sia il fine del racconto, sono altresì belle le vicende che, prese singolarmente si susseguono collegandosi l’una con l’altra, partendo dalle storie individuali di Red e Hope fino al loro congiungimento, per proseguire poi verso un primo epilogo che apre le porte alla vera e propria lotta contro l’impero.
Si parlava del lessico perché, con tanto di vocabolario a fine racconto, l’autore ha pensato bene di inventare un modo tutto loro di parlare dei personaggi che, tra Vag, Pat, Tom, Molly, Voltolare, Pisc’inferno e chi più ne ha più ne metta, riesce anche a strappare sorrisi per il modo in cui utilizza queste parole. Val la pena di sottolineare che dopo poche pagine il vocabolario serve a ben poco perché i contesti parlano e spiegano da sé il senso di ogni parola.
Non meno interessanti dei due protagonisti sono i personaggi di contorno che si uniscono ai due nella loro imprese disperate, trai quali si evidenzia Sadie La Capra, citata anch’essa nei ringraziamenti per una presunta reale esistenza.
“Il potere e la vendetta” è un libro corposo con le sue 500 e passa pagine che scorrono veloci in capitoli abbastanza brevi e ben inframezzati dai cambi di scena. Forse non sarebbe stata malvagia come idea quella di lasciare come titolo il suo originale “Hope and Red”, ma è appunto solo un’idea che non va per nulla ad intaccare il buon prodotto finale.
Jon Skovron è nuovo sul mercato editoriale italiano ma non su quello americano, suo paese d’origine, dove ha già pubblicato in passato alcuni romanzi per ragazzi. Sarà il tempo a dirci se anche qua riuscirà a raccogliere il suo seguito, l’inizio sembra promettente.

Non fosse che… Oltretutto… Un bel giorno poi…

Correva l’anno 2008 e la casa editrice Fanucci lanciava sul mercato un romanzo intitolato “Il nome del vento” scritto dall’autore statunitense Patrick Rothfuss, primo capitolo della trilogia “Le cronache dell’assassino del re”. Un ottimo romanzo, corposo, ben strutturato, accolto positivamente dalla critica e dagli esperti del settore.
Il libro in chiave fantasy narra in flashback le vicende del giovane Kvothe, ora celato sotto le false vesti del taverniere Kote, il cui passato nasconde ben più di quel che il suo aspetto lascia credere.
Figlio di artisti nomadi e con ottima predisposizione all’apprendimento, Kvothe rimane orfano a causa dello sterminio della sua famiglia avvenuto per mano di oscuri e misteriosi esseri, i Chandrian.
Deciso più che mai a vendicarsi il giovane protagonista trova sulla sua strada un mentore che lo inizia alle arti “simpatiche”, una sorta di magia legata alla scienza. Da lì all’accademia il passo è breve e, passati i test di ingresso, Kvothe inizia la sua vita da studente poco modello, tra compagni altezzosi, professori diffidenti e amori mancati che, complice il suo carattere irruento, rendono non poco difficoltoso il suo percorso.
Le sue avventure dentro e fuori dall’accademia scorrono veloci tra le pagine, dove l’autore mette in mostra le sue ottime doti di narratore e il racconto si chiude lasciando presagire dei seguiti ancor più avvincenti.
Passano tre anni e nel 2011 Fanucci pubblica il secondo romanzo intitolato “La paura del saggio”, più lungo del precedente ma ancor più ricco ed avvincente, con Kvothe al suo secondo anno di accademia che viene allontanato a causa di gravi comportamenti che hanno messo in discussione la sua posizione. Il protagonista si ritrova alla corte di un ricco signore dove pian piano riesce a ritagliarsi un ruolo di spicco nell’ambiente, arrivando a svolgere anche importanti missioni. È nel corso di una di queste che incontra una dama del bosco che per un tempo indefinito lo trasporta in un mondo magico finché, ripresosi dal torpore insinuato dalla magia, riesce a tornare in sé per proseguire il suo percorso, ricco di ulteriori colpi di scena fino all’ultima pagina.
Arrivati a questo punto e grazie allo stile coinvolgente di Rothfuss, l’attesa per il terzo ed ultimo romanzo si preannuncia dura da sopportare e non resta che aspettare, con la speranza che il tempo scorra velocemente.
Le recensioni dei più esperti parlano chiaro, questa serie ha tutte le carte in tavola per ottenere un gran successo, tanto da venire paragonata alla saga di Harry Potter con tanto di possibile trasposizione televisiva o cinematografica, non fosse che…

Non fosse che passano uno, due, tre, quattro, cinque, sei e ormai sette anni ma del terzo romanzo non c’è traccia, se non qualche speculazione sul titolo prontamente smentita dall’autore. Capite? Neanche un titolo, chissà se almeno una storia… Rothfuss non ne fa parola da nessun parte, nessuna anticipazione né sul suo sito, né sui social, addirittura arriva a chiedere di non fare domande in merito. Morale? Molti pensano che il terzo libro mai arriverà e giunti a questo punto è un pensiero più che comprensibile. Oltretutto…
Oltretutto alzi la mano chi si ricorda per filo e per segno gli altri due romanzi!

Un bel giorno poi… Un bel giorno poi (2016) Mondadori salta fuori con la riedizione del primo romanzo passato sotto le sue grinfie, seguito a ruota a ottobre 2017 dal secondo romanzo. Al che sorge spontanea una domanda… Mondadori sa qualcosa che noi non sappiamo? È forse in arrivo un terzo romanzo? Dall’America nessuna notizia e nessun indizio.
Risposta: per non rischiare meglio non comprarne nessuno dei due perché, per quanto belli, il rischio che l’elenco dei lettori delusi si allunghi è alto. Consiglio: prendete nota e state all’erta, dovesse uscire il terzo sarà quello il momento giusto per comprarli tutti e tre. Fino ad allora potete unirvi anche voi al coro di voci che sui social dell’autore spinge per avere risposte e, soprattutto, pagine!

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Serie: Le cronache dell’assassino del re
(The Kingkiller Chronicles)
Autore: Patrick Rothfuss
Editore: Fanucci, 2008/2011 – Mondadori, 2016/2017

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Meglio soli che…

Trovi un romanzo intitolato “La solitudine del ghiaccio” e pensi di leggere un libro ambientato in luoghi come la Groenlandia, o l’Alaska magari. Invece no, l’ambientazione spazia ampiamente, partendo da Vancouver, per poi andare in montagna tra la neve, in una riserva naturale e perfino in mare, nell’oceano; di ghiaccio insomma, molto ma molto poco.
Al che torni al titolo e ti chiedi: “Ma quindi dove sta questa fredda solitudine?”.
La risposta, o le risposte, stanno tutte nella protagonista di questa storia che è anche la narratrice, Nora Watts, quarantenne, receptionist e assistente di un giornalista e di un investigatore privato che condividono lo stesso studio. Segni particolari: lineamenti da nativa americana il cui aspetto insignificante la rende invisibile agli occhi della gente, o almeno lei lo crede.
Per come si racconta fin dall’inizio si capisce da subito che la protagonista è l’emblema della solitudine, tale status le appartiene completamente salvo la strana compagnia del suo cane, altro personaggio molto interessante. Pagina dopo pagina diviene sempre più evidente che passato e presente si fondono in questa condizione che sempre ha afflitto Nora, abbandonata dalla madre, con un padre defunto e rifiutata dalla sorella. Non dimentichiamoci però della figlia data in affidamento subito dopo la nascita, anche perchè quest’ultimo fattore è quello intorno a cui gira tutto il romanzo, del resto si sa, il passato torna sempre a bussare alla tua porta e quando lo fa per dirti che tua figlia è scomparsa la questione diventa seria, soprattutto se a farlo sono i genitori che l’hanno adottata e cresciuta.
Da quel che inizialmente può sembrare un caso di scomparsa per problemi in famiglia, la situazione inizia a ingigantirsi quando saltano fuori società di sicurezza e investigazione privata, industrie di estrazione mineraria e, peggio di tutto, giornalisti assassinati.
La storia di Nora è triste e lei non risparmia i dettagli nel raccontarla e il più importante di questi, lo stupro subito da giovane, è il filo conduttore di tutta la storia, è la genesi di una ricerca che ha riportato i genitori adottivi a lei, i rapitori alla figlia e i mandanti a entrambe. Il romanzo è talmente ben scritto che sarebbe un peccato anticipare qui tutti i motivi che hanno portato la protagonista ad adottare quel suo stile di vita, così come i punti di forza su cui l’autrice ha costruito la trama.
Eh già c’è anche un autrice, ma è stata talmente convincente nel raccontare la storia che alla fine Nora sembra reale, rendendo il romanzo quasi autobiografico.
L’autrice si chiama Sheena Kamal ed è al suo debutto editoriale. Nata ai Caraibi e cresciuta in Canada la scrittrice ha lavorato come giornalista investigativa, il che rende chiare le tematiche scelte nel suo romanzo così come è evidente tra le righe il suo attivismo in favore dei senzatetto. Ebbene sì, nel passato della protagonista c’è anche quello.
Come vedete di cose da leggere ce ne sono tante nelle pagine di questo romanzo dall’aspetto noir e avvolto in una cupa atmosfera che riesce comunque a strappare anche qualche sorriso. Il carattere della protagonista è tutto fuorché amorevole, eppure riesce a suo modo a farsi apprezzare, complice forse la narrazione in prima persona.
Ci sono ovviamente anche altri personaggi che accompagnano Nora nella sua vicenda ma elencarli qua non ha senso. Meglio scoprire pagina per pagina chi sono i suoi datori di lavoro, il suo sponsor, sua figlia, i buoni e i cattivi.
Rimane da capire dove collocare la parola “ghiaccio” che tanto colpisce nel titolo… Buona lettura.

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Titolo: La solitudine del ghiaccio
Titolo originale: The lost ones
Autrice: Sheena Kamal
Traduttore: S. Arieti

Editore: HarperCollins Italia, 2017, pp. 379

ISBN-10: 8869052648
ISBN-13: 9788869052644

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Cleopatra tra realtà e divinità (ma anche un po’ di fantasia)

Sentita e risentita, studiata e ristudiata, vista e rivista… Andiamo avanti? In una parola anzi, in un nome, Cleopatra. Esiste forse qualcuno che non abbia la minima idea di chi fu questa donna? Difficile. Ciò che lei fece per l’Egitto e quelle “due storielle” d’amore di cui fu protagonista sono senza dubbio alla portata di tutti. Ma per chi non sa, per chi vuole maggiori dettagli o per gli appassionati, ci pensa lo scrittore francese Christian Jacq a raccontare in modo piacevole la storia di colei che ad oggi risulta essere probabilmente la più famosa (nonché l’ultima) dei sovrani dell’antico Egitto (o tra i più famosi per non far torto agli esperti).
Di certo non si tratta del primo romanzo sulla regina e non sarà l’ultimo, ma se temete i romanzi “troppo storici” e preferite storie più leggere questo è il libro che fa per voi.
Il racconto inizia qualche anno dopo la morte del padre di lei, con una Cleopatra già ventenne e già contestata dai fedeli del fratello minore, che minacciano la guerra civile per estromettere la regina e portare al trono come unico faraone il piccolo Tolomeo XIII, neanche quindicenne.
La storia prosegue vivendo passo per passo tutta la guerra Alessandrina, dando ampio spazio all’arrivo di Gneo Pompeo prima e di Giulio Cesare poi, con quest’ultimo che si rese grande protagonista dell’ascesa al trono di Cleopatra di cui fu grande alleato e amante. Numerose pagine vengono dedicate alla loro relazione soffermandosi spesso sui dettagli di ciò che li accomunava, rendendo evidente l’intesa che permise loro di raggiungere i grandi traguardi qui narrati.
Non mancano ovviamente i personaggi chiave della Storia, a partire da Fotino e Teodoto, rispettivamente capo del governo e precettore del piccolo re, seguiti dallo spietato generale Achilla, capo dell’esercito e alleato degli altri due. Ad essi l’autore accompagna personaggi di fantasia, alcuni dei quali “liberamente ispirati” ad altri sicuramente esistiti e non noti, che ben si sposano con la storia e si inseriscono nel contesto degli avvenimenti.
I capitoli brevi dal ritmo serrato trasportano il lettore nella splendida Alessandria d’Egitto, la gloriosa città costruita da Alessandro Magno e resa magnifica dai suoi successori, luogo di studi e di culto che divenne il punto di partenza del prestigioso regno di Cleopatra. I costumi e le usanze di quel popolo vengono resi evidenti con descrizioni ricche di particolari, tra sacerdoti e riti propiziatori che, almeno apparentemente, hanno aiutato la sovrana ad ottenere il successo.
La bellezza della regina viene raccontata attraverso il suo corpo, il suo carattere e le sue ambizioni così come i tratti noti di Cesare vengono, ancora una volta, sottolineati come egli merita.
Christian Jacq non è nuovo nell’ambiente letterario, le sue opere riscuotono sempre molto successo grazie anche al suo stile che raccoglie elementi noti e li ripropone in modo avvincente, rendendo le sue letture piacevoli. Se a scuola la storia fosse raccontata tutta così forse si studierebbe più volentieri ma, forse, si perderebbe il piacere di leggere ogni tanto romanzi come questo.
A differenza di altre saghe scritte dall’autore e suddivise in più romanzi, “Cleopatra” resterà un libro a sé, collegabile per tematiche soltanto ad un altro romanzo da lui dedicato ad una delle donne che hanno fatto la storia dell’Egitto: Nefertiti.
Visto che da cosa nasce cosa, chissà mai che non venga voglia di leggerli entrambi…

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Titolo: Cleopatra, l’ultima regina d’Egitto
Titolo originale: Le Dernier Rêve de Cléopâtre

di Christian Jacq
Traduttore: Maddalena Togliani
Editore: Tre60 (collana Tre60), 2017, pp. 336

Prezzo: € 9,90
EAN: 9788867023868

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Saper vedere Trieste

Una città si può descrivere attraverso pochi luoghi emblematici, magari non scontati. E’ quanto fa Pietro Spirito, scrittore e collaboratore del quotidiano triestino Il piccolo, il quale ben conosce la sua città di adozione e ci propone in meno di cento pagine una guida insolita di una città già diversa di suo. S’inizia dal Porto Vecchio e dai suoi monumentali magazzini oggi diruti, ma una volta collegamento tra la città e una frenetica attività commerciale. Oggi tutto si svolge nel Porto Nuovo, dove presto attraccheranno anche i cargo cinesi provenienti dalla nuova Via della Seta (1) . Ma chi arriva a Trieste in treno, da Miramare fino alla stazione centrale vede sulla destra solo un vasto, continuo demanio ferroviario assai degradato e una serie di enormi, spettrali docks, di cui uno (il numero 26) è oggi un enorme spazio espositivo per l’arte contemporanea, grazie all’iniziativa di Vittorio Sgarbi. L’autore descrive uno per uno gli impianti del Porto Vecchio, vero campionario di archeologia industriale, e lasciamo al lettore il piacere della visita guidata, con un occhio a Metropolis di Fritz Lang.

E passiamo al secondo frammento: la stazione di Rozzol-Montebello, a ridosso del costone carsico. Chiusa da anni, mantiene ancora gli arredi originali e addirittura le scritte bilingui austro-ungariche. Nel dopoguerra Trieste per quasi cinquant’anni non è più cresciuta; le zone periferiche essendo troppo vicine al confine militare, e molti tronchi ferroviari semplicemente non avevano più traffico. La Stazione Centrale di Trieste era il punto d’arrivo (dal 1858) delle Ferrovie meridionali (Sudbahn) che univano Vienna al suo porto, ma c’era anche (per l’Est) la stazione di Campo Marzio, oggi museo ferroviario. Ma ricordo ancora i binari della ferrovia della val Rosandra (oggi pista ciclabile), che univa la città al contado istriano sulla strada di Fiume. Per costruire le strade ferrate qui gli Austriaci hanno scavato nella roccia carsica trincee, superato pendenze e aggirato quote. E non solo a Trieste: la ferrovia istriana che parte da Divaccia (SLO), da Pisino fino a Pola è tutta una trincea scavata nella roccia. L’insieme è quindi ardito e tortuoso, ma all’epoca la gestione almeno era unica, mentre oggi è frazionata tra Austria, Slovenia ed Italia. E quella che chiamavamo all’epoca “la camionale” ora è la trafficata superstrada dei Tir tra est e ovest.

Il viaggio a Trieste continua in via Fabio Severo 79, non lontano dall’Università. Giuro che non sapevo che un austero condominio borghese ospitasse all’epoca La casa degli sposi, un’istituzione privata che offriva una dimora alle coppie sposate povere purché di provata onestà. Se nasceva un figlio, potevano abitarvi per tre anni. Tale pio istituto funzionò fino alla Grande Guerra. In sostanza, a Trieste l’assistenza sociale passa presto dalla Chiesa ai ricchi privati, i quali volevano anche attutire le differenze sociali create dallo sviluppo del porto. E al porto ritorniamo per parlare di Ursus, una gigantesca gru-pontone da duemila tonnellate ormai in disuso ma popolare simbolo del Porto Vecchio. Tornando a terra, passiamo ora all’ ex-Hotel Balkan, poi Narodni Dom (casa del popolo) slovena e oggi Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori dell’Università di Trieste. Ottima soluzione, visti i non sempre facili rapporti con la minoranza slovena: nel 1920 un primo assalto dei fascisti aprì la strada alla loro snazionalizzazione, pagata poi cara dopo il 1943. Ma dal dopoguerra la minoranza slovena è protetta, inizialmente grazie all’amministrazione alleata, nonostante essa potesse esser vista come quinta colonna comunista, pur divisa al suo interno tra “cominformisti” e titini. C’è sempre il tentativo di imporre lo sloveno come seconda lingua ufficiale, ma Trieste non è Bolzano, dove i germanofoni sono una maggioranza reale. Trieste è italiana e ha sempre avuto paura della demografia slava; direi persino che l’Irredentismo mirava più a escludere in futuro gli slavi dal potere che a sostituire la classe dirigente germanica, in fondo una stupenda sovrastruttura. Sloveno è sempre stato il contado dell’altopiano, sloveni sono molti operai portuali, e ho sempre avuto l’impressione che nell’atteggiamento triestino contasse molto la differenza di classe sociale. Oggi è diverso: gli sloveni sono più istruiti, le giovani coppie italiane comprano casa dalla parte slovena dell’altopiano perché i prezzi sono più bassi e addirittura mandano i figli alle scuole primarie slovene, rovesciando di fatto il trend. E le ragazze slovene in gita a Barcola o sul lungomare sono figlie del benessere, si vede. E se la tirano meno delle “mule”.

Torniamo ora al Porto Vecchio, nel Magazzino 18, per parlare dell’esilio istriano e dalmata: almeno 350.000 italiani “cacciati da un regime che non li amava e che loro non amavano”. Regime – aggiungo io – comunque in sintonia con i rancori e le aspirazioni dei nazionalisti sloveni e croati. Il Magazzino 18 è noto a noi anche grazie allo spettacolo di Simone Cristicchi: vi sono conservati tutti gli oggetti depositati dai profughi e mai ritirati; masserizie ora archiviate e valorizzate, ma per anni dimenticate come i loro proprietari. E che la materia sia ancora scottante, lo sappiamo anche a Roma, da quando nel 2004 è stato istituito il Giorno del Ricordo. Dal 10 febbraio 1947 , firma del Trattato di pace che assegnava a Tito l’Istria e gran parte della Venezia Giulia, sono passati 70 anni (2).

Il capitolo successivo potremmo intitolarlo “Le fortezze Bastiani”. Durante la Guerra Fredda la lunga frontiera del Carso triestino era una teoria ininterrotta ma discreta di fortificazioni: bunker, falsi fienili, false case cantoniere e torrette cannoniere, coordinate in una rete di gallerie e depositi. I reggimenti di Fanteria d’arresto erano reclutati in genere tra gli abitanti della zona, in modo da aver riserve pronte e addestrate. Ormai è tutto chiuso e sigillato: dopo la caduta del Muro e la fine della Jugoslavia tutto il dispositivo è stato smontato in pochi mesi per risparmiare soldi da dare ad altri. Eppure un Museo della Guerra Fredda dovrebbe partire proprio da lì, da quel lungo confine presidiato per cinquant’anni da migliaia di soldati di leva (3). Confine preso molto sul serio, vista la tortuosità della linea di frontiera, la vegetazione non curata e soprattutto la presenza dei graniciari, le guardie di confine jugo, reclutate fra duri guerrieri totalmente privi di humour. Era facile sconfinare per sbaglio e sentirsi urlare “Stoj” (fermo!) da una pattuglia armata, quasi sempre accompagnata da un grosso cane nero. Chi ne ha fatta esperienza se la ricorda bene, a partire dall’autore. Oggi si passa dall’altra parte liberamente, è ormai la gita fuori porta (4). Confine che si apriva però in alcuni giorni per permettere il commercio con i sciàvi. Ponte Rosso e la stazione delle autocorriere (oggi Sala Tripcovich) diventavano realmente la Fiera dell’Est, dove la merce più ambita erano le scarpe, l’abbigliamento, i pezzi di ricambio, le bambole e i cowbojka, cioè i jeans, e dove le donne si mettevano indosso dodici gonne per passarle alla frontiera. Oggi i negozi di “strazze” sono un ricordo e i cinesi hanno preso il posto dei triestini e napoletani, ma all’epoca Ponte Rosso era la valvola di compensazione tra capitalismo e socialismo (5). La merce comprata era poi ridistribuita per tutto l’Est; si dice che i jeans comprati a Trieste arrivassero fino in Siberia.

Il libro continua poi parlando del “Pedocin”, uno stabilimento balneare dopo le Rive, da sempre diviso in due settori riservati: uomini e donne. No, l’Islam non c’entra niente, è una vecchia tradizione triestina, voluta dalle donne per stare in pace a prendere il sole, fare il bagno e “ciacolàr” con le amiche. L’ultimo capitolo, come Gente di Dublino, è infine dedicato ai defunti. Andiamo dunque al Cimitero monumentale di Sant’Anna, alla ricerca dei triestini illustri: Svevo, Saba, i fratelli Stuparich, Anita Pittoni…

Così l’autore. Io invece parlo solo ora di Tetsutada Suzuki, un ricercatore di sociologia conosciuto nel capitolo sui confini. Come vede i triestini? Come “gente di confine”, e fin qui non bisogna venire dal Giappone per capirlo. Forte però della scrittura ideografica, scinde la parola “confine” in “con” e “fine”: stare insieme ma definire il punto di arrivo, di separazione. Nell’epoca in cui l’Italia ha rinunciato a difendere i propri confini – nazionali, militari, etici – la lezione dunque ce la dà chi viene da lontano. Solo chi ha vissuto a Trieste può capire cos’è un confine e perché va difeso, ma la novità viene sempre da fuori e quindi l’identità si rimette di nuovo in gioco…

Fin qui il libro di Antonio Salerno. Ma l’insolito viaggio potrebbe continuare, e qui propongo alcuni spunti: la targa che alla Stazione Centrale ricorda la partenza nel 1914 dell’Imperial-Regio 97° reggimento di fanteria per la Galizia. Oppure il cancello ormai chiuso della bella, enorme caserma Vittorio Emanuele in via Rossetti, dove ha fatto il militare mezza Italia, compreso il sottoscritto. Oppure l’elenco delle farmacie, sproporzionato per chi non sa che Trieste è anagraficamente vecchia. Infine, mi ha sempre affascinato la vita di Diego de Henriquez, strambo collezionista di militaria – treni corazzati compresi – morto nel 1974 in circostanze poco chiare (6)

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Trieste è un’altra
di Pietro Spirito
Editore: Mauro Pagliai Editore, 2011, pp. 96

Prezzo: € 9,00
EAN: 9788856401691

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NOTE

  • Ricordo bene i lunghi treni merci che ancora nel 1976 partivano la sera dalla stazione e sfilavano lentamente lungo piazza dell’Unità diretti al Porto Nuovo.
  • Per dovere di cronaca, va detto che mentre l’Istria è da sempre geograficamente definita, la Venezia Giulia è sempre stata una terra dai confini continuamente riformulati e non sempre coincidenti con una precisa identità etnica o linguistica.
  • Quando ho potuto visitare la Jugoslavia, una volta finita la naia, ho scoperto che dall’altra parte del fronte il dispositivo militare jugo era praticamente simmetrico al nostro.
  • A Gorizia mi hanno raccontato di uno scherzo di caserma che ha del surreale: hanno mandato un tenentino di prima nomina in pattuglia notturna, non prima di aver arretrato di trecento metri il confine di Stato, ovviamente d’accordo con il colonnello. Il malcapitato fu arrestato, interrogato e maltrattato da falsi granizzari per tutta la notte. Chi conosce Gorizia, all’epoca divisa come Berlino, sa che uno scherzo simile era possibile.
  • http://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2016/12/28/news/trieste-yugoslavia-al-tempo-dei-jeans-1.14631376
  •  L’argomento comunque è stato già sfruttato, sia in biografie come Diego de Henriquez. Il testimone scomodo, di Vincenzo Cerceo e altri (2015), Le lunghe ombre della morte, del giallista Veit Heinichen (2007) e infine il romanzo Non luogo a procedere, di Claudio Magris (2015).