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Curdi: Il difensore di ben altre frontiere

Nella guerra civile spagnola del ’36 e durante la Resistenza migliaia di giovani sono partiti come volontari per combattere armi alla mano il Fascismo e il Nazismo, ma oggi un giovane che rischiasse la propria vita per fare lo stesso sarebbe considerato uno spostato, un instabile mentale o nel migliore dei casi un disadattato sociale. Purtroppo la prima impressione è quella che conta, e Karim Franceschi – che pur ammiro – non riesce a convincermi: le sue purissime motivazioni ideologiche di figlio tardivo di un partigiano toscano classe 1927 sposato con una donna marocchina e amante della democrazia contro ogni fascismo sono qualcosa di anacronistico. Sia chiaro: ho il massimo rispetto di chi rischia di persona la propria vita invece di fare inutili cortei o firmare inutili petizioni, ma la sua esperienza resta ancora un caso isolato, visto che a fare la guerra noi ci mandiamo gli altri, e visto pure che i giovani non riescono ancora a odiare i tagliagole dell’ISIS più di quanto non sappiano fare con romanisti e laziali.

In realtà Karim, classe 1989, non ha mai fatto il militare e neanche si è iscritto a un poligono: tutto quello che sa sulle armi lo ha imparato sull’Internet. E’ sportivo, attivo nel sociale e in contatto con gruppi politici che aiutano i profughi e la resistenza dei curdi, di cui esalta il progetto politico democratico, egualitario e federalista. Vede nell’ISIS (che lui chiama IS o Daesh) una forza politica contraria alla pace, alla democrazia e alla tolleranza, e fin qui nessuno gli darebbe torto. Ma da qui a partire volontario per combattere in prima linea a Kobane assediata ce ne corre, e Karim lo fa. Non sa il curdo ma parla inglese e arabo (è nato e vissuto a Marrakech prima di tornare con la famiglia a Senigallia) e in fondo è una personalità borderline: troppo italiano in Marocco, troppo marocchino in Italia, ma difensore di ben altre frontiere. Varcare quella fra Turchia e Siria è facile, si direbbe che è fin troppo porosa, mentre quella vera passa per Kobane assediata, città fin troppo vicina al confine turco ma difesa dai soli curdi, visto che al governo turco fa comodo che qualcuno elimini sia i curdi che il governo siriano. Ma i guerrieri di Al Baghdadi a Kobane hanno trovato pane per i loro denti. A suo tempo ho descritto in un mio articolo il modo di fare la guerra degli arabi: tattica fluida gestita da piccoli gruppi ben addestrati, mobili e determinati, organizzati sulla base di rapporti personali. Ma è esattamente quello che fanno anche i curdi nei cui ranghi si arruola il nostro eroe. Al fuoco di copertura ci pensano gli aerei e i droni americani, mentre i collegamenti sono assicurati da radio, telefoni cellulari e staffette. L’organizzazione dell’Ypg (la milizia curda) è informale ma efficiente: le squadre dipendono da un capo e sono coordinate a livello superiore da un ufficiale esperto, ma è normale il passaggio di combattenti da un gruppo all’altro secondo le esigenze del momento. Le donne combattono da sempre come gli uomini e sono rispettate da tutti. Gli arabi le temono, anche perché essere uccisi in combattimento da una donna significa perdere il “bonus” delle vergini a disposizione in paradiso. L’armamento è buono – comprende anche visori notturni per i fucili – ma non ci sono mezzi pesanti, mentre Daesh ha pure cannoni e carri armati di fabbricazione russa. E la situazione a Kobane è disperata, tant’è vero che Karim viene addestrato in una settimana (!) e mandato in prima linea. I volontari stranieri non tengono famiglia, quindi sono i più esposti da entrambe le parti. Fatto sta che Karim se la cava sia nelle guardie che nel combattimento, anche se un fucile vero l’ha visto solo pochi giorni prima. Sente freddo, ha fame e dorme poco come tutti i soldati, ma dimostra di saper combattere e di essere disciplinato. Vede cadaveri ovunque, spesso mutilati dagli arabi (lo facevano anche i marocchini sul fronte italiano, ndr.). Ha comunque fortuna, perché alla fine tutto quello che ha visto può raccontarlo.

Già, ma come si combatte a Kobane? Il libro ci fornisce informazioni precise: nella città distrutta la linea di demarcazione fra le fazioni è labile e tra le macerie si combatte benissimo: il panorama è un continuo di cecchini in agguato, punti di osservazione, pattuglie di esploratori, guardie fisse. Di giorno e di notte vanno prevenute le infiltrazioni, mentre un attacco nemico (numericamente superiore) va contrastato immediatamente. E qui, dove non arrivano le bombe americane, è un frenetico spostamento da una zona all’altra, dove squadre coordinate via radio aggirano i palazzi o ci passano dentro per prendere il nemico alle spalle o dar man forte alla squadra in difficoltà. Nessuno sembra mai aver problemi di munizioni e tutte le armi a disposizione sembrano funzionare sempre. Ciononostante anche i nostri amici hanno perdite e anche Karim scopre cosa significa perdere un commilitone. Al resto si direbbe che faccia il callo, anche se non sempre va d’accordo con tutti. In fondo il suo reparto è stato messo su in pochi giorni e non sempre le motivazioni e le personalità del gruppo sono coerenti con le sue. Per fortuna i capi sono esperti e sanno trattare con i loro uomini: come in tutte le milizie tribali, le gerarchie nascono sul campo e non esistono sergenti. In più, ci sono forme assembleari dove tutti i guerrieri riuniti in circolo discutono dei problemi, una specie di consiglio degli anziani allargato. Sono tradizioni ancestrali, ma funzionano anche oggi.

Il salto di qualità Karim lo fa quando gli viene proposto di diventare un cecchino. Sull’argomento c’è ormai una ricca letteratura e cinematografia, quindi inutile dilungarsi, com’è inutile riportare le pagine dove si parla di munizionamento, tacche di tiro e correzioni balistiche. Karim è comunque freddo e preciso nel suo lavoro. Rimorsi? Pochi. Ecco un suo commento: “così il nazista domani non ucciderà il bambino ebreo”. E vai!

Alla fine, alla scadenza del visto turistico di tre mesi, “Marcello” (il suo nome di battaglia) potrà riavere il suo cellulare (intasato di messaggi) e riprenderà l’aereo da Istanbul. Tanto abbiamo capito che quella frontiera è un colabrodo a corrente alternata. Come abbiamo capito che – volontario per la libertà, mercenario, contractor o foreign fighter – chiunque può comprare un biglietto low cost e andare a combattere per qualche mese le guerre che gli eserciti regolari non sanno o non vogliono fare. Che armi e munizioni non mancano da nessuna parte, e in questo papa Francesco ha ragione da vendere. Ragione che sembra ormai merce sempre più rara.

Nota: l’autore donerà parte dei proventi del libro alla ricostruzione di Kobane. Il sito di riferimento, www.helpkobane.com non funziona, ma cercando “help Kobane” su google ci sono siti alternativi.

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Il combattente. Storia dell’italiano che ha difeso Kobane dall’Isis
Karim Franceschi, Fabio Tonacci
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2016, pp. 350.

Prezzo: € 17,00

EAN: 9788817085540

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Mediterraneo, una storia di conflitti

Sulla storia del Mare nostrum c’è una stupenda letteratura: dall’opera di Pirenne a quella di Braudel passando per Matvejevic, Quilici e Cardini (1). Questo breve libro di Luciano Canfora (2016) in meno di cinquanta pagine li sottende e aggiunge di suo. Era in realtà il testo di una conferenza – un po’ come le Lezioni americane di Calvino – e in fondo, diciamolo, i piccoli libri sono sempre i migliori: leggibili, concisi, razionali.
Intanto, il Mediterraneo è un mare chiuso dalle colonne d’Ercole; il canale di Suez prima non c’era, al punto che nella geografia di Tolomeo l’oceano Indiano era visto come chiuso e simmetrico. Platone però affermava (2) che il Mediterraneo è solo una piccola parte della terra, in cui “abitiamo come formiche o rane attorno allo stagno”, dimostrando dunque di vedere molto più in là degli altri. Ma quando è stato unificato il Mediterraneo? Un primo tentativo lo fanno i Greci di Siracusa per eliminare i Fenici dalla Sicilia, seguiti dagli Elleni ateniesi che cercano di conquistare Siracusa (3). Ma Atene e Sparta possedevano risorse limitate: una aveva la flotta, l’altra la fanteria. Con la prima si possono esigere tributi dai porti, con la seconda si tiene il terreno, ma per governare sul serio ci vuole un Impero. La risposta è quindi ovvia: il Mediterraneo diventa un lago quando Roma prima unifica prima l’Italia e poi elimina Cartagine e trasforma lo spazio intorno alla penisola in Mare nostrum. Quando discuto con uno straniero non è facile spiegare per quale motivo l’Italia è da secoli e anche oggi luogo d’invasione invece che padrona di un mare nel quale occupa una posizione assolutamente centrale. E l’ultima figuraccia risale a ieri, quando il nostro vuoto politico è stato occupato dalla Francia di Macron. Ma le invasioni sono di antica data: il Mediterraneo è come un ampio anello le cui rive e isole sono state raggiunte prima o poi da tutte le migrazioni afro-asiatiche. “Rodon”, la rosa, è una parola che i Greci hanno trovato sul posto, e chissà quante altre. Se l’Europa è un concetto medievale, il ratto di Europa è ancestrale: come a dire che ciò che vien da fuori, una volta varcati i Dardanelli diventa altro. Ma proprio sul Bosforo – a Troia – si svolge la guerra più antica di cui abbiamo testimonianza grazie a Omero. L’Iliade è la guerra degli Achei – Elleni, non asiatici – contro i popoli d’Anatolia. Gli stessi Elleni secoli dopo bloccheranno i Persiani di Serse e i loro discendenti romanizzati saranno sconfitti e occupati per sempre dai Turchi solo nel 1453, quando cade dopo mille anni l’Impero Romano d’Oriente. Alessandro Magno aveva orientalizzato il proprio potere per proiettarlo in Asia ma il suo impero fu breve, mentre l’impianto fondato dall’imperatore Costantino si dimostrò ben più solido e duraturo. Questo per dire che il Mediterraneo presenta una frattura originaria che non contrappone solo nord a sud, ma piuttosto ovest contro est. Canfora nota con preoccupazione la recente, progressiva egemonia della Turchia di Erdogan su Siria, Egitto e Libia, sviluppata ora appoggiando l’Isis, ora proponendosi nella mediazione fra le parti in conflitto (è di oggi il vertice di Tunisi), e la vede come una costante: al mare cercano di arrivare i popoli che scendono dalle aride montagne, mentre i popoli civilizzati cercano sempre di combattere i barbari, anche se prima o poi l’esito è scontato. Anche la guerra moderna vive di proiezione ancestrale, e non importa se non sappiamo più combattere e apriamo la porta all’invasore: è il principio quello che conta, la memoria è indelebile. Ovviamente parlo per metafore, quindi nessuno si offenda.
La frattura tra nord e sud si deve invece all’espansione dell’Islam, e qui la tesi di Pirenne, anche se formulata nel 1939, resta valida, nonostante il revisionismo di Cardini, il quale sembra rimuovere il concetto stesso di conflitto per trasformarlo in uno scambio tra culture diverse. E’ vero che certi traffici non si sono mai interrotti del tutto, ma la storia del Mediterraneo è una storia di guerre, di uomini finiti in fondo al mare e di rotte commerciali da difendere o sfruttare a tutti i costi. I secoli bui si devono anche all’interruzione del flusso di cultura e merci tra Oriente e Occidente, come la rinascita segue la ripresa dei flussi arabi che dall’Oriente tornano in Spagna, fin quando i Turchi – musulmani ma alieni – s’impongono prima su Baghdad e poi su Bisanzio. Una storia di lacerazione, ma anche d’incroci e scambi di ogni genere. L’essenza del Mediterraneo è la mescolanza, come diceva il compianto Pino Daniele.
A ricomporre l’unità del Mediterraneo sarà nel secolo XIX il colonialismo europeo: Marocco, Algeria e Tunisia diventano francesi, la Libia italiana, l’Egitto inglese. Ma è un dominio che dura poco più di un secolo, e si dimostrerà per quello che era: superficiale. Come un secolo – dal 1918 a oggi – dura l’assetto del Medio Oriente, seguìto alla dissoluzione dell’Impero Ottomano (accordi Sykes-Picot) e la nascita di nuovi stati. Fino all’attuale rinascita del Califfato o Daesh che sia, che spazza i confini geometrici tirati sulla carta con squadra e compasso. E una storia non finita, visto che ora si prevede il riflusso dei guerrieri verso la Libia e l’Africa subsahariana. L’autore ovviamente non è un indovino, quindi non può dire come andranno le cose. Fa comunque un’ultima osservazione: la Siria – tirannide minacciata da ben altra tirannide – è il paradigma della fine di un progresso laico, di quel nazionalismo militare modernista che aveva avuto nell’Egitto di Nasser il suo più ambizioso protagonista. Sogno infranto – aggiungo io – dall’unico stato realmente moderno e “occidentale”: Israele.
Infine, è inquietante pensare a una frase di Braudel, già citato: “L’unico destino dell’Africa è invadere l’Europa. L’unico destino dell’Europa è accoglierla”. E’ solo questione di tempo? In mancanza di una vera politica, sicuramente.

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Mediterraneo, una storia di conflitti.
Della difficile unificazione politica del mare nostrum in età classica (e oggi?)
Luciano Canfora
Editore: Castelvecchi (Irruzioni), 2016, pp. 43.
Prezzo: € 5,00
EAN: 9788869447129

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NOTE
1. Maometto e Carlomagno / Henry Pirenne, 1939 e ristampe; Il Mediterraneo : lo spazio e la storia, gli uomini e la tradizione / Fernand Braudel ; con la collaborazione di Georges Duby, 1987; Breviario mediterraneo / Predrag Matvejevic ; introduzione Claudio Magris, 1988; Mediterraneo / Folco Quilici, 1980; Incontri (e scontri) mediterranei : il Mediterraneo come spazio di contatto tra culture e religioni diverse / Franco Cardini, 2014. – sono cinque libri di cui non si può fare a meno, che e offrono una scelta di documenti e opinioni affascinanti.
2. Fedone, 109 b
3. “Greci” erano chiamati esattamente gli Elleni che avevano colonizzato la Magna Grecia, come dire “Americani” invece che “Inglesi”. Se volete far felici i vostri amici greci, chiamateli sempre “voi Elleni”.

Caporetto – una storia diversa

A ottobre di quest’anno ricorre il centenario della più grande sconfitta militare rimasta nella memoria italiana, e il libro di Claudio Razeto cerca di fare il punto su una vicenda tuttora controversa. Lo fa in maniera molto chiara, seguendo gli avvenimenti dal 1916 al 1918 e oltre, corredando la narrazione con una scelta accurata di mappe e fotografie d’epoca. In questo l’autore è uno specialista, vista la sua esperienza di ricercatore di archivi storico-fotografici e il suo lavoro all’ANSA. La dodicesima battaglia dell’Isonzo – così gli Austriaci chiamano Caporetto – portò il nemico a occupare Veneto, Friuli e Carnia in pochi giorni, fino alla linea del Piave, dalla quale è partita la nostra riscossa finale. Il fronte italiano correva per 600 km lungo l’arco alpino, ottimo per difendersi ma non per attaccare. In più, il Trentino (austriaco) s’incuneava in modo tale da minacciare lo schieramento italiano tutto proteso a est. Per ben due volte – nel 1916 con la Battaglia degli Altopiani o Strafexpedition e nel 1918 con la Battaglia del Solstizio – l’Italia rischiò l’invasione dalle valli del nord. A est le vie d’accesso all’Impero Austro-Ungarico erano solo due: la via per Vienna, cioè il valico del Tarvisio (dove era passato Napoleone) e la via per Lubiana, ovvero Gorizia e le gole d’Isonzo. Trieste era invece naturalmente difesa dal Carso, un ampio, arido rilievo prossimo alla costa ma ben difendibile. Scartato stranamente il Tarvisio, Cadorna per due anni e mezzo attaccherà sistematicamente su due soli punti: verso la val d’Isonzo e verso Trieste. Direttrici obbligate: la valle dell’Isonzo scende parallela all’arco orientale delle Alpi e l’accesso per Gorizia passa per un’ampia gola scavata dal fiume tra due montagne, di fronte a Tolmino. La presa di Gorizia (1916) è l’unica conquista significativa: le undici battaglie dell’Isonzo, tutte combattute su due soli fulcri, portarono a guadagni di terreno minimi a fronte di perdite enormi. Trieste non fu mai presa e nell’alta val d’Isonzo – circondata dalle montagne – ci attestiamo già dal 1916 nel saliente fra Caporetto e Tolmino. Ed è dal luogo fisico che dobbiamo partire: Caporetto, Kobarid per gli Sloveni, è un villaggio che occupa un’ampia conca lungo la valle dell’Isonzo dalla parte slovena, all’incrocio fra il fiume e la piana del Friuli. Noi, incuneati nel saliente, potevamo al massimo prendere Tolmino e risalire la ferrovia sino a Lubiana, mentre il nemico, una volta sfondato il varco verso Gorizia, avrebbe visto aperta la piana del Veneto, costringendo l’intero schieramento italiano ad arretrare per tutto l’arco alpino. E questo è esattamente quanto avvenne il 24 ottobre del 1917.

Il libro si apre immergendoci nello scenario che di poco precede la battaglia: si è conclusa la sanguinosa undicesima battaglia dell’Isonzo (agosto 1917) e l’esercito austroungarico ritiene di non poter resistere a un’altra offensiva italiana: al 31 agosto ha lasciato sul campo 85.000 uomini contro 144.000 nostri soldati. Abbiamo pagato un duro prezzo per pochi chilometri di terreno, ma restano ancora le risorse per un altro attacco frontale, mentre le riserve nemiche sono logorate. Il generale tedesco Ludendorff se ne rende conto e decide di intervenire a favore dell’esercito austro-ungarico. La situazione è favorevole: i Russi sono stati sconfitti e usciranno di scena, quindi è possibile spostare truppe dal fronte orientale. La 14° Armata di Otto von Bulow, marciando di notte, manovra dunque verso la Slovenia, mentre il generale austriaco Boroevic’, detto appunto “il Leone dell’Isonzo” rinforza le linee difensive. Cadorna insiste da anni con attacchi frontali sempre sulle stesse posizioni e Boroevic’ su quelle resiste e rincalza di continuo le perdite. La sua strategia è puramente difensiva, forse l’unica possibile, ma ha logorato il suo esercito. Entrambi i generali sono duri e privi di fantasia e combattono una guerra moderna col cervello antico. I tedeschi invece sono tatticamente più moderni e l’hanno già dimostrato su entrambi i fronti, coordinando artiglieria e fanteria e addestrando formazioni di assaltatori – Sturmtruppen – capaci di infiltrarsi in pochi punti dello schieramento e penetrarlo in profondità, superando così la guerra di trincea. Proprio nelle trincee di Caporetto regna una calma irreale: lo schieramento italiano è tutto proteso in avanti, la dodicesima battaglia dell’Isonzo sarà combattuta in primavera, ma Cadorna ha buone informazioni e rinforza le difese. Non può sapere però che i Tedeschi hanno mandato il generale Konrad Krafft von Delmensingen, comandante degli alpini tedeschi, l’Alpenkorps. I suoi uomini hanno un ordine preciso: infiltrarsi, trascurare le cime e sfondare a valle; al rastrellamento ci penseranno le successive ondate di fanteria. Per capirne il senso, consiglio un libro scritto dall’allora tenente Erwin Rommel, la futura Volpe del deserto: Fanteria all’attacco (1 ). Il suo reparto alpino di assalto addirittura prende le nostre posizioni aggirandole alle spalle e penetra per chilometri in profondità, mentre il nostro Comando ancora non ha capito la reale portata dell’offensiva. Colpa nostra: il fronte italiano è tutto proteso verso un saliente, ma poco scaglionato in profondità. E’ uno schieramento anomalo: offensivo ma costretto in uno spazio chiuso e serrabile a tenaglia. Ma Cadorna, pur cosciente del pericolo, non accetta di cedere il terreno conquistato a caro prezzo, mentre il generale Capello, a capo della 2° Armata, non è d’accordo e pianifica una controffensiva che non solo va contro gli ordini di Cadorna, ma che non sarà mai sferrata. Sui contrasti fra i due generali è stato scritto molto, ma senz’altro Capello è più moderno del suo capo. Anche Badoglio, comandante del 27° corpo d’Armata, è fiducioso, ma il giorno dopo i suoi cannoni non spareranno neanche un colpo (2). Questo scoordinamento al vertice sarà disastroso.

Nel libro, l’attacco iniziato alle 02.00 del 24 ottobre 2017 viene descritto come in una radiocronaca, citando anche fonti austro-tedesche (3). Bombardamento intenso e preciso, uso dei gas, seguito dalle 06.20 dall’assalto duro e deciso delle truppe d’assalto contro Plezzo (Bovec) da nord e da Tolmino (a sud), favorite dalla nebbia. Questo comunica una nostra postazione avanzata:

Gli austriaci sono usciti dalle trincee, li vediamo, tra la nebbia, che vengono avanti, passano i reticolati. Noi ci ritiriamo.”

Le linee italiane crollano subito e il sistema di comunicazioni entra nel caos; la resistenza si tramuta in rotta e lo sfondamento del fondovalle spalanca al nemico la pianura friulana e veneta. L’artiglieria italiana non spara un colpo e tutto lo schieramento italiano si ritira in disordine. Ai soldati trincerati sulle quote il nemico ci penserà dopo: le avanguardie vanno avanti, senza preoccuparsi dei collegamenti. Gli stessi tedeschi e austriaci sono sorpresi dal successo. Così scrive un ufficiale austriaco, il tenente Weber:

Neppure la notte impedì agli attaccanti di accrescere a ritmo vertiginoso i successi già ottenuti, di trasformare lo sfondamento in un disastro totale, la ritirata del nemico in una fuga”

Il 28 ottobre, quando Udine non era ancora caduta, il generale Cadorna dirama il discutibile comunicato, passato alla storia, nel quale accusava i soldati di viltà:

La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della 2° Armata vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, hanno permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia.”

Giudizio ingiusto, sfruttato anche dalla propaganda austro-ungarica. Presto ricorretto ma noto a tutti, questo comunicato fu la Caporetto anche di Cadorna, destituito dal nuovo capo del Governo, Vittorio Emanuele Orlando. Il nemico aveva applicato tattiche più moderne, ma il motivo della sconfitta era tutto interno allo Stato Maggiore. Cadorna in realtà non era diverso da Haig, Joffre, Nivelle e Hamilton: tutti i generali della Grande Guerra erano anziani, aristocratici e disprezzavano le masse quanto il parlamento, quindi incolpare la propaganda disfattista e socialista era per loro normale, solo che in Italia nessun movimento politico d’opposizione – Chiesa cattolica compresa – aveva una reale influenza sui soldati e sulle masse. Piuttosto, la vera carenza della politica italiana – e non solo italiana – era lo scarso controllo sui militari: oggi Cadorna e Badoglio sarebbero destituiti entro un mese e la struttura di SM è più articolata. Quanto ai soldati, ormai ci si chiede piuttosto come hanno fatto a resistere per tanti anni in condizioni di vita inaccettabili anche all’epoca. La risposta sta nelle tante, significative foto che Razeto ha scelto per accompagnare la narrazione: trincee, paesaggi devastati, ma soprattutto uomini. E’ impressionante il contrasto fra Sturmtruppen e fanteria di linea, fra i duri volti degli Schuetzen che difendono casa loro e lo sguardo straniato del contadino italiano mandato su un altro pianeta. Ma è proprio quel tipo di soldato – oggi introvabile – che alla fine ha resistito e vinto.

La narrazione continua: dopo l’Isonzo e il Tagliamento, alla fine – è il 9 novembre – resta la linea del Piave. Abbiamo perso circa 12.000 morti, 30.000 feriti e 265.000 prigionieri (nota: i morti sono 12 volte meno dell’undicesima battaglia dell’Isonzo) e l’invasore dilaga in tutta la pianura veneta. La ritirata ora si ricompone, l’avanzata nemica ormai raggiunge la zona di esaurimento dell’offensiva. Nel frattempo il comando passa al generale napoletano Armando Diaz, più umano con i soldati. Anche qui Razeto ci fa praticamente marciare insieme ai soldati, con testimonianze di entrambi i fronti. Alla fine del 1918 l’ago della bilancia penderà dalla nostra parte. Per sempre. Ma il regolamento di conti interno al nostro esercito sarà lungo: la commissione d’inchiesta costituita il 19 gennaio 1918 pubblicherà i risultati nel 1919 e i suoi tre volumi rimangono tuttora un documento fondamentale (4). E infatti l’ultimo capitolo del libro s’intitola: Processo a Caporetto.

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Caporetto. Una storia diversa
Claudio Razeto
Editore: Edizioni del Capricorno, 2017, p. 166

Caporetto – una storia diversa

Prezzo: EUR 9,90

ISBN-10: 8877073330
ISBN-13: 9788877073334

EAN: 9788877073334

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NOTE

  1. Fanteria all’attacco / Erwin Rommel . Longanesi, 1982. Il libro uscì in tedesco nel 1937, quando Rommel insegnava all’Accademia militare di Potsdam.
  2. Badoglio, duca di Caporetto / Carlo De Biase. Roma, edizioni del Borghese, 1965
  3. Dal Monte Nero a Caporetto : le dodici battaglie dell’Isonzo, 1915-1917 / Fritz Weber Milano : Mursia, 1972. L’autore è un tenente di artiglieria austriaco, il quale stima i nostri soldati molto più di quanto non facessero i nostri generali.
  4. Dall’Isonzo al Piave : 24 ottobre-9 novembre 1917 / relazione della Commissione d’inchiesta R. D. 12 gennaio 1918, n. 35 Roma, 1919.    3 volumi: · 1: Cenno schematico degli avvenimenti . 2: Le cause e le responsabilità degli avvenimenti · 3 / relazione della Commissione d’inchiesta

 

Il Vento dei Balcani

Kosava è il nome di un freddo vento balcanico che origina dai Carpazi e attraverso le Porte di Ferro dilaga fino all’Adriatico: metafora del male perverso che sconvolse l’allora Jugoslavia negli anni ’90 e che ora abbiamo rimosso, anche se da anni manteniamo truppe in Kosovo e la ricostruzione civile in Bosnia non è mai realmente avvenuta.

Il libro è complesso, si snoda per 25 capitoli che coprono gli anni dal 1992 al 1999 e scorre su tre livelli paralleli: le vicende di un gruppo di giovani di Sarajevo, una serie di ricostruzioni storiche e infine – in corsivo – alcune note autobiografiche su quanto l’autore ha visto quando era in servizio. Progetto ambizioso; eppure la narrazione scorre agile, integrata da mappe e foto che aiutano a districarsi nel caos balcanico originato dalla fine di quella Jugoslavia che Tito orgogliosamente descriveva: “Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti, un partito”. Il libro inizia a Sarajevo nel 1992, quando la Repubblica di Bosnia-Erzegovina decide di staccarsi dalla Federazione Jugoslava, dopo che Slovenia e Croazia l’hanno già fatto l’anno prima senza troppi traumi. Qui conosciamo i nostri baldi giovani: Milan o Milo (serbocroato di Knin), Vesna (croata di Vukovar), Vesely (di Mostar), Alex (musulmano di Sarajevo), Anja (croata zaratina), Miriam (musulmana di Sarajevo), Branko (serbo), Vlady (serbo di Belgrado), Jadranka (kosovara musulmana di Pristina), Ivan (fratello di Milo). Tutti amici o fidanzati tra di loro, prenderanno strade diverse, tragiche, intrecciando e loro vite con la storia di una barbara guerra civile. Questo mi ricorda proprio un film jugoslavo, Okupacja u 26 slika (L’occupazione in 26 quadri), dove tre giovani amici – un croato, un italiano e un ebreo – seguono strade diverse dopo che nel 1941 Ragusa viene occupata (1). Anche qui i personaggi sono di fantasia, ma verosimili. Seguirne le vicende non è facile (sono una decina!), intrecciate come sono nella brutale, confusa storia balcanica degli anni ’90: gli uomini si arruolano nei rispettivi eserciti o milizie, mentre le ragazze seguono strade più tortuose: Vesna, infermiera a Vukovar, viene stuprata dai miliziani serbi (nel 1991 l’esercito croato quasi non esisteva) ma li denuncia; Anja e Miriam sopravvivranno nella Sarajevo assediata per tre anni (la città fu liberata dalla NATO nel 1995), Jadranka andrà a Pristina ma solo per trovare una situazione peggiore (in Kosovo i Serbi rifecero lo stesso errore di ripetere in piccolo la Grande Serbia). Ma lasciamo al lettore il piacere della sorpresa

Se le vicende dei nostri giovani sono intricate, la descrizione degli avvenimenti storici è invece molto chiara: ordinata cronologicamente per paragrafi, rende quasi comprensibile una storia quanto mai complicata. Ma non è un’asettica sinossi scolastica: il nostro generale non fa sconti a nessuno, neanche alla civile Europa che è intervenuta tardi e male. La guerra civile è stata brutale, al di là di ogni standard di civiltà, combattuta da quattro eserciti regolari e un numero imprecisato di milizie canaglia al di fuori di ogni controllo (2). Tito aveva costruito uno stato rispettato da tutti, mentre i vari Tudjman, Izbegovic’, Milosevic’ e Karadzic’ hanno cercato solo di creare impossibili nazioni omogenee, purificate attraverso ‘pulizie etniche’ (3), che hanno anche aperto gli occhi di noi italiani sull’esilio istriano e dalmata. Anja, uno dei personaggi di finzione, è di Zara e attraverso di lei ricostruiamo la storia della sua famiglia, che è poi quella – sorpresa! – del generale Di Grazia.

E con questo passiamo al terzo livello del libro: le memorie personali del generale, il quale ha avuto dal 1991 al 1999 una serie di incarichi di responsabilità nelle zone toccate dal conflitto. Tutti noi lo ricordiamo quando nel 1996 appariva in tv parlando dal comando della brigata „Garibaldi“ a Sarajevo. Ma è stato anche capo ufficio operazioni della inadeguata ECMM (Missione di monitoraggio della Comunità Europea) che doveva controllare gli accordi tra serbi e croati ed è stato addetto militare a Belgrado nel 1999, sotto le bombe anche nostre (4) : per un’alchimia tutta italiana, la nostra ambasciata non ha mai chiuso i battenti. Il nostro generale ha aspettato la pensione per dire la sua, ma è un testimone onesto: scrive solo di quello che ha visto di persona. E ne ha viste di tutti i colori: a Brcko e Velika Kladusa (Krajina) i Serbi non permettono ispezioni nelle zone contese tra Croazia e Bosnia; nel 1996 visita il campo di concentramento di Omarska, teatro di stupri e violenze di ogni genere; descrive le distruzioni di Vukovar, città martire croata nel 1991 ma martire serba nel 1995 (nell’ex-Jugo vittime e carnefici si scambiano spesso le parti) ; nel 1995 viene accolto a Zara come un doge veneziano, mentre a Sarajevo l’aereo deve scendere in picchiata per evitare i cecchini appostati sulle alture (egli.  ispezionerà il „viale dei cecchini“ ad assedio finito, nel 1996). Ispeziona la zona del mercato di piazza Markale dopo la strage (con i giornalisti già sul posto!), per dedurne che non si trattava di un colpo di mortaio ma di una bomba messa di proposito. Riesce a parlare con ambienti vicini ai mujaheddin, i miliziani musulmani stranieri venuti in aiuto di Izbegovic, verso i quali prova un’istintiva diffidenza, ed ora sappiamo di averla scampata bella (5). Non crede alla morte del comandante Arkan o almeno ha ancora qualche dubbio (forse è esfiltrato come Pavelic’). Descrive il tunnel che dall’aeroporto di Sarajevo conduceva alla città e ne permetteva il rifornimento, e che può vedere solo quando diventa vicecomandante del contingente italiano e responsabile di una delle JMC (Joint Military Committee, Commissioni militari miste); descrive il palazzo distrutto del giornale Oslobodjenje (libertà), che continuò fino all’ultimo a informare la gente. Discute spesso con generali serbi peraltro intelligenti ma tarati dall’ossessione della Grande Serbia, mentre invece a Knin i Croati negano che esistano le Krajine (all’origine: marche di frontiera abitate da soldati-contadini serbi). Ma le menzogne si sprecano, soprattutto quando – mappe alla mano – non si capisce dove siano finite centinaia di abitanti registrati in precedenza ma fuori del conto dei profughi: fosse comuni ne salteranno fuori per decenni. Descrive il ponte di Mostar distrutto, simbolo per secoli della convivenza etnica; discute le responsabilità della strage di Srebrenica voluta dal generale serbo Mladic’ (1995), affermando che, anche se i caschi blu olandesi hanno fatto male il loro lavoro, le regole d’ingaggio ONU erano troppo vincolanti (p.es. permettevano l’autodifesa ma non il combattimento), ben diverse da quelle della missione IFOR della NATO, che solo in quel di Sarajevo distrugge 20.000 tonnellate di munizioni. Quelli del nostro generale sono tutti incarichi delicati, del cui funzionamento poco o nulla sapevamo ed ora vediamo descritti dall’interno. Nell’ultima parte del libro gli Italiani proteggeranno i Serbi che lasciano Grbavica, il loro quartiere di Sarajevo: ormai hanno perso, anche se Milosevic’ ci riproverà in Kosovo, dimostrando di non aver capito niente e attirandosi le bombe della NATO. E proprio a Belgrado si consumerà a fine secolo l’ultimo atto della tragedia iniziata dieci anni prima.

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Titolo: Kosava. Vento di odio etnico nella ex Jugoslavia da Tito a Milosevic
Autore: Biagio Di Grazia
Editore: ilmiolibro self publishing
Collana: La community di ilmiolibro.it
Editore: Pubblicato dall’Autore, 2016
Pagine:264

ISBN 8892312200
EAN:9788892312203

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NOTE

  • https://www.youtube.com/watch?v=oHmSX9Z-5B0&spfreload=10 Il film è del 1978, opera del regista croato Lordan Zafranovic’. L’ho visto in un festival, ma non ha mai circolato in Italia. Ora per fortuna è su Youtube.
  • L’Armata popolare federale (JNA), l’esercito della neo Repubblica di Bosnia, quello della Repubblica Srpska, più quello della Repubblica croata dell’Erzeg Bosnia. Difficile fare invece il conto delle milizie, armate e finanziate neanche di nascosto dai vari attori politici.
  • Pulizia etnica significa trasformare una minoranza relativa in maggioranza assoluta cacciando tutti gli altri. Il termine appare negli anni ‘90.
  • Ufficialmente i nostri Tornado erano ricognitori fotografici
  • http://www.nytimes.com/2009/06/24/world/middleeast/24saudi.html

 

 

Caporetto per due

Cento anni fa noi italiani subimmo la più pesante sconfitta militare del secolo e ce ne ricordiamo ancora, visto che nel lessico comune la parola indica un collasso nazionale, una sconfitta completa e improvvisa. Ora, nel centenario, sono molti i contributi in argomento, i quali hanno analizzato migliaia di documenti inediti o di foto d’archivio (1), e sarebbe in effetti ora di metter ordine e giungere a conclusioni definitive. In questa sede ho scelto un libro che si fa apprezzare per la sua sintesi: Caporetto. Il prezzo della riscossa, di Alessandro Gualtieri (2): in sole cento pagine inquadra la battaglia e i suoi retroscena, ne descrive lo svolgimento e infine ne analizza le componenti politiche: il rimpallo delle responsabilità, lo “sciopero militare”, il disfattismo, la commissione d’inchiesta del 1919. Polemiche mai sopite: troppo spesso l’ideologia ha condizionato un’indagine storica indipendente. In più noi italiani abbiamo sempre cercato al nostro interno le cause della sconfitta, senza studiare gli archivi del nemico. Lo stesso libro che ho qui davanti, in bibliografia cita solo testi italiani.

Ma cominciamo dal luogo fisico: per capire una battaglia bisogna calpestarne il terreno. Caporetto, Kobarid per gli Sloveni, è un villaggio che occupa un’ampia conca lungo la valle dell’Isonzo dalla parte slovena, all’incrocio fra il fiume e la piana del Friuli. L’arco alpino, che ben delimita l’Italia geografica, offre da nord a est solo tre accessi: il valico del Brennero, da sempre la porta tedesca, quello del Tarvisio (dov’è passato Napoleone per entrare a Vienna) e infine la valle dell’Isonzo, che da Gorizia apre la strada per Lubiana. Il resto sono solo montagne, ottime per difendersi, pessime per attaccare. La valle dell’Isonzo scende parallela all’arco orientale delle Alpi e l’accesso per Gorizia passa per un’ampia gola scavata dal fiume tra due montagne, di fronte a Tolmino. Caporetto sta a metà valle dell’alto Isonzo e da lì un valico porta verso Cividale del Friuli. Lo scrivo perché senza un inquadramento geografico è difficile capire le battaglie, e così ho voluto passare le vacanze proprio in val d’Isonzo, seguendo la memoria di famiglia: mio nonno combatteva da quelle parti e mio zio bersagliere cadde sul campo. Ebbene, la prima impressione che ho avuto sul posto è che sfondando quella vallata, la strada per l’Italia non era aperta ma spalancata (vedi foto). Noi invece, forzando lo stesso varco in senso inverso, dove saremmo arrivati? Al massimo a Lubiana, mai a Vienna. Eppure le undici battaglie dell’Isonzo sono state combattute proprio per sfondare in Slovenia e – più a sud – – per prendere Trieste, e in tutte e undici il guadagno di terreno – a parte Gorizia – è stato minimo. Viceversa, dopo Caporetto e Tolmino al nemico si è aperta tutta la piana del Veneto; per la stessa forma dell’arco alpino, il fronte italiano dovette arretrare per intero, incalzato dai nemici, per stabilizzarsi infine lungo la linea del Piave. Poteva il nemico andare oltre? No, perché il grosso delle truppe non ce la faceva più a star dietro alle avanguardie: si era entrati in quella che von Clausewitz chiama esattamente la zona di esaurimento dell’offensiva. Vent’anni dopo avrebbero potuto farlo le Panzerdivisionen, ma nel 15-18 si andava ancora a piedi. In più, il generale Cadorna si dimostrò più abile sulla difensiva che in attacco e – soprattutto – noi italiani difendevamo ormai casa propria, quindi eravamo più motivati. In ogni caso, i nostri soldati erano migliori di quanto non credesse Cadorna, che imputò loro la colpa della sconfitta parlando di viltà, tradimento e propaganda disfattista. Oggi invece ci si chiede piuttosto come hanno fatto i soldati a resistere per tanti mesi, e questo non vale solo per la nostra fanteria: la Grande Guerra è stata unica nel suo genere.

Ma torniamo al fronte. Dopo la sanguinosa undicesima battaglia dell’Isonzo (agosto 1917) l’esercito austroungarico riteneva di non poter resistere a un’altra offensiva italiana. Al 31 agosto 1917 avevamo lasciato sul campo144.000 uomini, pagando un duro prezzo per pochi chilometri di terreno, mentre gli austro-ungarici avevano perso “solo” 85.000 uomini. Ma le loro riserve erano state logorate, mentre noi potevamo alimentare ancora la guerra. In aiuto degli Austro-ungarici intervennero allora gli alleati tedeschi, forti anche del ritiro della Russia dalla guerra e quindi della possibilità di spostare truppe da un fronte all’altro. Nel frattempo Cadorna stava preparando la dodicesima offensiva dell’Isonzo, che avrebbe dovuto far crollare il fronte tenuto con ostinazione dal generale Boroevic’, detto appunto “il Leone dell’Isonzo”, la cui strategia puramente difensiva era forse l’unica possibile, ma aveva logorato il suo esercito. Da qui l’iniziativa tedesca di attaccare in anticipo. E soprattutto, di attaccare in profondità con le innovative tattiche da poco sperimentate sul fronte occidentale e sul Carso (a Flondar nell’estate del 1917) (3) : attacco di sorpresa su un punto solo del fronte, condotto da truppe d’assalto (Sturmtruppen) appositamente addestrate, trascurando le quote e sfondando a valle. Per capirne il senso, consiglio un libro scritto dall’allora tenente Erwin Rommel, la futura Volpe del deserto: Fanteria all’attacco (4), ma da noi tradotto solo nel 1982. Il suo reparto di assalto addirittura prese le nostre posizioni aggirandole alle spalle e penetrò per chilometri in profondità fino a Lavarone. Tutto questo mentre il nostro Comando ancora non aveva capito la reale portata dell’offensiva nemica. Offensiva preparata con cura e in gran segreto, anche se i movimenti delle truppe tedesche non erano passati inosservati: la 14° Armata di Otto von Bulow, pur muovendosi di notte, non era una formica. Il nostro comandante supremo, generale Luigi Cadorna, sapeva bene che l’uscita dei Russi dalla guerra significava un prevedibile spostamento di riserve dal fronte orientale a quello occidentale. Ma l’offensiva italiana era prevista per la primavera del 1918, quindi lo schieramento italiano era al momento puramente difensivo e fu consolidato per l’inverno. Ma almeno su una cosa le fonti concordano: eravamo troppo sbilanciati in avanti. Aver occupato parte di una vallata per avere le quote di fronte e un saliente incuneato da nord e indifendibile significava rischiare la tenaglia in caso di controffensiva nemica. L’artiglieria era in posizione avanzata, il grosso degli uomini era sulle prime linee, ma la seconda linea era sguarnita, le riserve lontane e impreparate. Ora, concentrare tutte le forze in un punto avanzato è un errore, perché una volta sfondata la prima linea, dietro non ci sono forze di manovra per una controffensiva. Von Clausewitz su questo punto è chiaro: nella guerra di montagna non si deve concentrare tutta la difesa sul valico: prima o poi il tappo salta, quindi è meglio scaglionare le difese in profondità. Ma la manovra era un concetto entrato tardi nel cervello dei generali della Grande Guerra, ossessionati tutti dalla difesa esasperata della posizione. Più moderni i tedeschi, come Ludendorff, il quale nel 1917 introdusse il principio della difesa elastica e del contrattacco da linee fortificate arretrate, contro cui s’infransero tutti gli attacchi alleati dal 1917 in poi.

Dalla parte nostra, queste due teorie avevano al fronte i loro campioni: i generali Cadorna e Capello, simili per tenacia ma sempre in attrito fra di loro; attaccato il primo in modo maniacale all’attacco frontale e alla difesa ad oltranza della posizione statica, più orientato il secondo verso la manovra. Luigi Capello era dunque più moderno e in caso di offensiva nemica avrebbe voluto lanciare una controffensiva strategica, ma comandava solo la seconda Armata, mentre Luigi Cadorna era il comandante supremo di tutto lo schieramento. Nessuno dei due aveva capito in realtà cosa fare esattamente e lo scarso coordinamento tra i due portò solo guai. In più va registrata la presenza del generale Badoglio, in assoluto il militare più dannoso della storia italiana: il XXVII corpo d’Armata da lui comandato, che teneva la zona di Tolmino – la più esposta, visto che gli austro-ungarici tenevano saldamente l’altra riva dell’Isonzo – rimarrà praticamente inerte di fronte all’attacco nemico. Badoglio se la caverà sempre e invece di andare a casa farà ancora danni fino all’8 settembre del 1943 e oltre.

Ma passiamo ora alla battaglia vera e propria. L’attacco inizio la notte del 24 ottobre, e qui consiglio un libro scritto dal nemico – perlomeno è imparziale: Dal monte Nero a Caporetto : le dodici battaglie dell’Isonzo, del tenente di artiglieria austriaco Fritz Weber (5). Senza entrare nei dettagli, questi i punti saldi della storia: l’attacco fu condotto con largo uso di gas e colse di sorpresa le prime linee. Il pesante bombardamento, accompagnato quasi subito dall’attacco delle truppe d’assalto, sconvolse lo schieramento avanzato, tutto proteso dentro ardui salienti. Cadorna non si rese conto subito della situazione, sia perché sclerotizzato sulle proprie idee, sia perché fino allora le fanterie non seguivano immediatamente le linee di fuoco raggiunte man mano dall’artiglieria. Questo stretto coordinamento tra fuoco e movimento era uno sviluppo tutto tedesco, come pure l’uso di truppe d’assalto ben addestrate e decise. Altra novità nell’arte della guerra: sfondare a valle e trascurare le quote: le posizioni italiane furono aggirate o semplicemente lasciate indietro. Il resto fu panico generale, malamente controllato dagli ufficiali, anche se la ritirata non si tradusse in una rotta: alcuni reparti si sacrificarono per coprire il ripiegamento e alla fine Cadorna riuscì a riorganizzare le file. Quindi i motivi della sconfitta vanno ricercati da un lato nella rigidità dello schieramento italiano, troppo avanzato e con riserve mal posizionate e un sistema di comunicazioni sconvolto dall’attacco; dall’altra nella superiorità tattica e strategica non tanto degli austro-ungarici, quanto dei loro alleati tedeschi. Gli stessi austro-ungarici furono infatti spiazzati dalla rapidità delle operazioni – come risulta dai loro rapporti – e anche se dilagarono per tutto il Veneto e Friuli, alla fine dovettero fermarsi anche loro per esaurimento. La disfatta di Caporetto ci costò circa 12.000 morti, 30.000 feriti e 265.000 prigionieri, nonché un clima di caos, distruzioni, razzie e violenze gratuite (drammaticamente descritte da Ernest Hemingway in “Addio alle Armi”) che seguirono al dilagare del nemico, ora realmente “invasore”, in tutta la pianura veneta. Al 9 novembre la linea del Piave era il nuovo fronte consolidato e da lì sarebbe partita la riscossa (6).

Questo in sintesi. Tralascio per brevità l’analisi dei movimenti sul terreno dei singoli reparti; chi vuole se li può guardare sui tanti libri in argomento. Perché il piatto forte di Caporetto non è tanto la battaglia in sé, ma la polemica interna al nostro esercito, che dura realmente da cento anni. La superiorità tattica e strategica germanica alla base della nostra sconfitta è sempre passata in secondo piano rispetto alle nostre polemiche interne. Intanto, il nostro comando era mal coordinato: il generale Capello disobbedì a Cadorna avendo in mente una manovra controffensiva, mentre Badoglio non intervenne con la sua artiglieria. Nella realtà era saltato tutto il sistema di comunicazioni campale, ma proprio per questo vennero alla luce i contrasti tra i capi, ognuno dei quali conduceva una guerra propria senza informare l’altro: Capello voleva manovrare mentre Cadorna si ostinava invece a tenere la posizione, mentre Badoglio era assente dalla prima linea. Sono comunque i difetti tipici della guerra di posizione, che funziona fino a quando qualcuno sfonda e spazza tutto. Tutto questo fu studiato e sviscerato a fondo dalla commissione d’inchiesta che presto si riunì, e i cui atti sono tuttora una fonte storiografica (7). Forse il generale Capello avrebbe potuto contrastare l’offensiva nemica, viste le sue concezioni più moderne di quelle di Cadorna, che insieme ad Haig, Joffre e Nivelle rappresentava invece la sclerosi tattica strategica: attacco frontale e difesa a oltranza, rimpinguando di carne da macello sempre e solamente quelle stesse prime linee avanzate. Sicuramente Badoglio fece peggio, anche se ne uscì bene grazie alle sue amicizie.

La colpa però non era dei soldati. E qui passiamo a un altro aspetto della storia. Cadorna fin dall’inizio accusò i soldati di codardia, di tradimento e non risparmiò accuse alla propaganda disfattista e al fronte interno. Atteggiamento ingeneroso, tipico dei generali della sua epoca, ma che non fu subito rispedito al mittente: ai militari faceva comodo scaricare sulla truppa e sui politici le responsabilità, quando l’unica vera carenza della politica italiana (ma anche francese e inglese) consisteva proprio nello scarso controllo sui generali onnipotenti: Cadorna fu sostituito dal Governo solo dopo Caporetto e in assoluto è stato il comandante italiano più potente della storia nazionale. Dal canto loro i movimenti socialisti e pacifisti poco avevano fatto per impedire la guerra e l’onda lunga della Rivoluzione Russa del 1917 ancora era lontana. Piuttosto, in tutta Europa nel 1917 c’erano stati scioperi nelle industrie belliche, ma questo perché per alimentare il fronte intere popolazioni erano ormai alla fame e ogni famiglia aveva almeno un figlio caduto in guerra. La società civile non era parte del conflitto come nella seconda Guerra Mondiale, ma stava al collasso. Sempre nel 1917 alcuni reggimenti francesi si ammutinarono e la repressione non bastò a calmare il malcontento. Dare quindi la colpa alla propaganda pacifista e disfattista è riduttivo: almeno in Italia non era influente, nonostante la presenza della Chiesa cattolica. Semplicemente, ai soldati era stato chiesto troppo e alla fine la struttura ha collassato. Ma il fante italiano alla fine si è rialzato e ha vinto, quindi le accuse di Cadorna sono tipiche dell’epoca, ma ingiuste. Oggi poi i tempi sono cambiati e la domanda che ci si pone a cento anni di distanza è piuttosto un’altra: ma come hanno fatto i soldati a resistere per anni in quelle condizioni? La fanteria sapeva che una volta uscita dalle trincee sarebbe stata fatta a pezzi, eppure andava all’attacco. I soldati di tutti gli eserciti della Grande Guerra hanno dimostrato doti di sopportazione alle fatiche e alla vita di trincea oggi improponibili, comandati da generali che oggi finirebbero alla corte marziale dopo un mese e che invece all’epoca furono celebrati come eroi. Nelle foto della Guerra Mondiale i fanti di tutti gli eserciti hanno lo sguardo straniato del contadino mandato su un altro pianeta, mentre nelle immagini della guerra successiva il mestiere delle armi sembra esercitato da professionisti competenti, vista anche la meccanizzazione delle forze armate sviluppata nel frattempo. Caporetto appartiene davvero a un’altra epoca. Ma se ne parla ancora.

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Caporetto. Il prezzo della riscossa
Alessandro Gualtieri
Editore: Mattioli 1885, 2014, p. 101, ill.

Prezzo: € 6,00
EAN: 9788862614313

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NOTE

  • es. le opere di Paolo Gaspari: Le bugie di Caporetto. La fine della memoria dannata (2011); La verità su Caporetto (2012); La battaglia dei generali. Da Codroipo a Flambro il 30 ottobre 1917 (2013); La battaglia dei gentiluomini. Pozzuolo e Mortegliano il 30 ottobre 1917 (2013); – tutte stampate da Gaspari editore di Udine. Recentissimo poi è Caporetto una storia diversa, di Claudio Razeto, Edizioni del Capricorno, 2017., corredato da centinaia di foto anche inedite provenienti dagli archivi ANSA e collegati..
  • Il prezzo della riscossa. / Alessandro Gualtieri. – Mattioli 1885 editore, 2014

 Flondar 1917 .Il presagio di Caporetto / Mitja Juren, Nicola Persegati, Paolo Pizzamus . Gaspari editore, 2017