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Saper vedere Trieste

Una città si può descrivere attraverso pochi luoghi emblematici, magari non scontati. E’ quanto fa Pietro Spirito, scrittore e collaboratore del quotidiano triestino Il piccolo, il quale ben conosce la sua città di adozione e ci propone in meno di cento pagine una guida insolita di una città già diversa di suo. S’inizia dal Porto Vecchio e dai suoi monumentali magazzini oggi diruti, ma una volta collegamento tra la città e una frenetica attività commerciale. Oggi tutto si svolge nel Porto Nuovo, dove presto attraccheranno anche i cargo cinesi provenienti dalla nuova Via della Seta (1) . Ma chi arriva a Trieste in treno, da Miramare fino alla stazione centrale vede sulla destra solo un vasto, continuo demanio ferroviario assai degradato e una serie di enormi, spettrali docks, di cui uno (il numero 26) è oggi un enorme spazio espositivo per l’arte contemporanea, grazie all’iniziativa di Vittorio Sgarbi. L’autore descrive uno per uno gli impianti del Porto Vecchio, vero campionario di archeologia industriale, e lasciamo al lettore il piacere della visita guidata, con un occhio a Metropolis di Fritz Lang.

E passiamo al secondo frammento: la stazione di Rozzol-Montebello, a ridosso del costone carsico. Chiusa da anni, mantiene ancora gli arredi originali e addirittura le scritte bilingui austro-ungariche. Nel dopoguerra Trieste per quasi cinquant’anni non è più cresciuta; le zone periferiche essendo troppo vicine al confine militare, e molti tronchi ferroviari semplicemente non avevano più traffico. La Stazione Centrale di Trieste era il punto d’arrivo (dal 1858) delle Ferrovie meridionali (Sudbahn) che univano Vienna al suo porto, ma c’era anche (per l’Est) la stazione di Campo Marzio, oggi museo ferroviario. Ma ricordo ancora i binari della ferrovia della val Rosandra (oggi pista ciclabile), che univa la città al contado istriano sulla strada di Fiume. Per costruire le strade ferrate qui gli Austriaci hanno scavato nella roccia carsica trincee, superato pendenze e aggirato quote. E non solo a Trieste: la ferrovia istriana che parte da Divaccia (SLO), da Pisino fino a Pola è tutta una trincea scavata nella roccia. L’insieme è quindi ardito e tortuoso, ma all’epoca la gestione almeno era unica, mentre oggi è frazionata tra Austria, Slovenia ed Italia. E quella che chiamavamo all’epoca “la camionale” ora è la trafficata superstrada dei Tir tra est e ovest.

Il viaggio a Trieste continua in via Fabio Severo 79, non lontano dall’Università. Giuro che non sapevo che un austero condominio borghese ospitasse all’epoca La casa degli sposi, un’istituzione privata che offriva una dimora alle coppie sposate povere purché di provata onestà. Se nasceva un figlio, potevano abitarvi per tre anni. Tale pio istituto funzionò fino alla Grande Guerra. In sostanza, a Trieste l’assistenza sociale passa presto dalla Chiesa ai ricchi privati, i quali volevano anche attutire le differenze sociali create dallo sviluppo del porto. E al porto ritorniamo per parlare di Ursus, una gigantesca gru-pontone da duemila tonnellate ormai in disuso ma popolare simbolo del Porto Vecchio. Tornando a terra, passiamo ora all’ ex-Hotel Balkan, poi Narodni Dom (casa del popolo) slovena e oggi Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori dell’Università di Trieste. Ottima soluzione, visti i non sempre facili rapporti con la minoranza slovena: nel 1920 un primo assalto dei fascisti aprì la strada alla loro snazionalizzazione, pagata poi cara dopo il 1943. Ma dal dopoguerra la minoranza slovena è protetta, inizialmente grazie all’amministrazione alleata, nonostante essa potesse esser vista come quinta colonna comunista, pur divisa al suo interno tra “cominformisti” e titini. C’è sempre il tentativo di imporre lo sloveno come seconda lingua ufficiale, ma Trieste non è Bolzano, dove i germanofoni sono una maggioranza reale. Trieste è italiana e ha sempre avuto paura della demografia slava; direi persino che l’Irredentismo mirava più a escludere in futuro gli slavi dal potere che a sostituire la classe dirigente germanica, in fondo una stupenda sovrastruttura. Sloveno è sempre stato il contado dell’altopiano, sloveni sono molti operai portuali, e ho sempre avuto l’impressione che nell’atteggiamento triestino contasse molto la differenza di classe sociale. Oggi è diverso: gli sloveni sono più istruiti, le giovani coppie italiane comprano casa dalla parte slovena dell’altopiano perché i prezzi sono più bassi e addirittura mandano i figli alle scuole primarie slovene, rovesciando di fatto il trend. E le ragazze slovene in gita a Barcola o sul lungomare sono figlie del benessere, si vede. E se la tirano meno delle “mule”.

Torniamo ora al Porto Vecchio, nel Magazzino 18, per parlare dell’esilio istriano e dalmata: almeno 350.000 italiani “cacciati da un regime che non li amava e che loro non amavano”. Regime – aggiungo io – comunque in sintonia con i rancori e le aspirazioni dei nazionalisti sloveni e croati. Il Magazzino 18 è noto a noi anche grazie allo spettacolo di Simone Cristicchi: vi sono conservati tutti gli oggetti depositati dai profughi e mai ritirati; masserizie ora archiviate e valorizzate, ma per anni dimenticate come i loro proprietari. E che la materia sia ancora scottante, lo sappiamo anche a Roma, da quando nel 2004 è stato istituito il Giorno del Ricordo. Dal 10 febbraio 1947 , firma del Trattato di pace che assegnava a Tito l’Istria e gran parte della Venezia Giulia, sono passati 70 anni (2).

Il capitolo successivo potremmo intitolarlo “Le fortezze Bastiani”. Durante la Guerra Fredda la lunga frontiera del Carso triestino era una teoria ininterrotta ma discreta di fortificazioni: bunker, falsi fienili, false case cantoniere e torrette cannoniere, coordinate in una rete di gallerie e depositi. I reggimenti di Fanteria d’arresto erano reclutati in genere tra gli abitanti della zona, in modo da aver riserve pronte e addestrate. Ormai è tutto chiuso e sigillato: dopo la caduta del Muro e la fine della Jugoslavia tutto il dispositivo è stato smontato in pochi mesi per risparmiare soldi da dare ad altri. Eppure un Museo della Guerra Fredda dovrebbe partire proprio da lì, da quel lungo confine presidiato per cinquant’anni da migliaia di soldati di leva (3). Confine preso molto sul serio, vista la tortuosità della linea di frontiera, la vegetazione non curata e soprattutto la presenza dei graniciari, le guardie di confine jugo, reclutate fra duri guerrieri totalmente privi di humour. Era facile sconfinare per sbaglio e sentirsi urlare “Stoj” (fermo!) da una pattuglia armata, quasi sempre accompagnata da un grosso cane nero. Chi ne ha fatta esperienza se la ricorda bene, a partire dall’autore. Oggi si passa dall’altra parte liberamente, è ormai la gita fuori porta (4). Confine che si apriva però in alcuni giorni per permettere il commercio con i sciàvi. Ponte Rosso e la stazione delle autocorriere (oggi Sala Tripcovich) diventavano realmente la Fiera dell’Est, dove la merce più ambita erano le scarpe, l’abbigliamento, i pezzi di ricambio, le bambole e i cowbojka, cioè i jeans, e dove le donne si mettevano indosso dodici gonne per passarle alla frontiera. Oggi i negozi di “strazze” sono un ricordo e i cinesi hanno preso il posto dei triestini e napoletani, ma all’epoca Ponte Rosso era la valvola di compensazione tra capitalismo e socialismo (5). La merce comprata era poi ridistribuita per tutto l’Est; si dice che i jeans comprati a Trieste arrivassero fino in Siberia.

Il libro continua poi parlando del “Pedocin”, uno stabilimento balneare dopo le Rive, da sempre diviso in due settori riservati: uomini e donne. No, l’Islam non c’entra niente, è una vecchia tradizione triestina, voluta dalle donne per stare in pace a prendere il sole, fare il bagno e “ciacolàr” con le amiche. L’ultimo capitolo, come Gente di Dublino, è infine dedicato ai defunti. Andiamo dunque al Cimitero monumentale di Sant’Anna, alla ricerca dei triestini illustri: Svevo, Saba, i fratelli Stuparich, Anita Pittoni…

Così l’autore. Io invece parlo solo ora di Tetsutada Suzuki, un ricercatore di sociologia conosciuto nel capitolo sui confini. Come vede i triestini? Come “gente di confine”, e fin qui non bisogna venire dal Giappone per capirlo. Forte però della scrittura ideografica, scinde la parola “confine” in “con” e “fine”: stare insieme ma definire il punto di arrivo, di separazione. Nell’epoca in cui l’Italia ha rinunciato a difendere i propri confini – nazionali, militari, etici – la lezione dunque ce la dà chi viene da lontano. Solo chi ha vissuto a Trieste può capire cos’è un confine e perché va difeso, ma la novità viene sempre da fuori e quindi l’identità si rimette di nuovo in gioco…

Fin qui il libro di Antonio Salerno. Ma l’insolito viaggio potrebbe continuare, e qui propongo alcuni spunti: la targa che alla Stazione Centrale ricorda la partenza nel 1914 dell’Imperial-Regio 97° reggimento di fanteria per la Galizia. Oppure il cancello ormai chiuso della bella, enorme caserma Vittorio Emanuele in via Rossetti, dove ha fatto il militare mezza Italia, compreso il sottoscritto. Oppure l’elenco delle farmacie, sproporzionato per chi non sa che Trieste è anagraficamente vecchia. Infine, mi ha sempre affascinato la vita di Diego de Henriquez, strambo collezionista di militaria – treni corazzati compresi – morto nel 1974 in circostanze poco chiare (6)

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Trieste è un’altra
di Pietro Spirito
Editore: Mauro Pagliai Editore, 2011, pp. 96

Prezzo: € 9,00
EAN: 9788856401691

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NOTE

  • Ricordo bene i lunghi treni merci che ancora nel 1976 partivano la sera dalla stazione e sfilavano lentamente lungo piazza dell’Unità diretti al Porto Nuovo.
  • Per dovere di cronaca, va detto che mentre l’Istria è da sempre geograficamente definita, la Venezia Giulia è sempre stata una terra dai confini continuamente riformulati e non sempre coincidenti con una precisa identità etnica o linguistica.
  • Quando ho potuto visitare la Jugoslavia, una volta finita la naia, ho scoperto che dall’altra parte del fronte il dispositivo militare jugo era praticamente simmetrico al nostro.
  • A Gorizia mi hanno raccontato di uno scherzo di caserma che ha del surreale: hanno mandato un tenentino di prima nomina in pattuglia notturna, non prima di aver arretrato di trecento metri il confine di Stato, ovviamente d’accordo con il colonnello. Il malcapitato fu arrestato, interrogato e maltrattato da falsi granizzari per tutta la notte. Chi conosce Gorizia, all’epoca divisa come Berlino, sa che uno scherzo simile era possibile.
  • http://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2016/12/28/news/trieste-yugoslavia-al-tempo-dei-jeans-1.14631376
  •  L’argomento comunque è stato già sfruttato, sia in biografie come Diego de Henriquez. Il testimone scomodo, di Vincenzo Cerceo e altri (2015), Le lunghe ombre della morte, del giallista Veit Heinichen (2007) e infine il romanzo Non luogo a procedere, di Claudio Magris (2015).

Curdi: Il difensore di ben altre frontiere

Nella guerra civile spagnola del ’36 e durante la Resistenza migliaia di giovani sono partiti come volontari per combattere armi alla mano il Fascismo e il Nazismo, ma oggi un giovane che rischiasse la propria vita per fare lo stesso sarebbe considerato uno spostato, un instabile mentale o nel migliore dei casi un disadattato sociale. Purtroppo la prima impressione è quella che conta, e Karim Franceschi – che pur ammiro – non riesce a convincermi: le sue purissime motivazioni ideologiche di figlio tardivo di un partigiano toscano classe 1927 sposato con una donna marocchina e amante della democrazia contro ogni fascismo sono qualcosa di anacronistico. Sia chiaro: ho il massimo rispetto di chi rischia di persona la propria vita invece di fare inutili cortei o firmare inutili petizioni, ma la sua esperienza resta ancora un caso isolato, visto che a fare la guerra noi ci mandiamo gli altri, e visto pure che i giovani non riescono ancora a odiare i tagliagole dell’ISIS più di quanto non sappiano fare con romanisti e laziali.

In realtà Karim, classe 1989, non ha mai fatto il militare e neanche si è iscritto a un poligono: tutto quello che sa sulle armi lo ha imparato sull’Internet. E’ sportivo, attivo nel sociale e in contatto con gruppi politici che aiutano i profughi e la resistenza dei curdi, di cui esalta il progetto politico democratico, egualitario e federalista. Vede nell’ISIS (che lui chiama IS o Daesh) una forza politica contraria alla pace, alla democrazia e alla tolleranza, e fin qui nessuno gli darebbe torto. Ma da qui a partire volontario per combattere in prima linea a Kobane assediata ce ne corre, e Karim lo fa. Non sa il curdo ma parla inglese e arabo (è nato e vissuto a Marrakech prima di tornare con la famiglia a Senigallia) e in fondo è una personalità borderline: troppo italiano in Marocco, troppo marocchino in Italia, ma difensore di ben altre frontiere. Varcare quella fra Turchia e Siria è facile, si direbbe che è fin troppo porosa, mentre quella vera passa per Kobane assediata, città fin troppo vicina al confine turco ma difesa dai soli curdi, visto che al governo turco fa comodo che qualcuno elimini sia i curdi che il governo siriano. Ma i guerrieri di Al Baghdadi a Kobane hanno trovato pane per i loro denti. A suo tempo ho descritto in un mio articolo il modo di fare la guerra degli arabi: tattica fluida gestita da piccoli gruppi ben addestrati, mobili e determinati, organizzati sulla base di rapporti personali. Ma è esattamente quello che fanno anche i curdi nei cui ranghi si arruola il nostro eroe. Al fuoco di copertura ci pensano gli aerei e i droni americani, mentre i collegamenti sono assicurati da radio, telefoni cellulari e staffette. L’organizzazione dell’Ypg (la milizia curda) è informale ma efficiente: le squadre dipendono da un capo e sono coordinate a livello superiore da un ufficiale esperto, ma è normale il passaggio di combattenti da un gruppo all’altro secondo le esigenze del momento. Le donne combattono da sempre come gli uomini e sono rispettate da tutti. Gli arabi le temono, anche perché essere uccisi in combattimento da una donna significa perdere il “bonus” delle vergini a disposizione in paradiso. L’armamento è buono – comprende anche visori notturni per i fucili – ma non ci sono mezzi pesanti, mentre Daesh ha pure cannoni e carri armati di fabbricazione russa. E la situazione a Kobane è disperata, tant’è vero che Karim viene addestrato in una settimana (!) e mandato in prima linea. I volontari stranieri non tengono famiglia, quindi sono i più esposti da entrambe le parti. Fatto sta che Karim se la cava sia nelle guardie che nel combattimento, anche se un fucile vero l’ha visto solo pochi giorni prima. Sente freddo, ha fame e dorme poco come tutti i soldati, ma dimostra di saper combattere e di essere disciplinato. Vede cadaveri ovunque, spesso mutilati dagli arabi (lo facevano anche i marocchini sul fronte italiano, ndr.). Ha comunque fortuna, perché alla fine tutto quello che ha visto può raccontarlo.

Già, ma come si combatte a Kobane? Il libro ci fornisce informazioni precise: nella città distrutta la linea di demarcazione fra le fazioni è labile e tra le macerie si combatte benissimo: il panorama è un continuo di cecchini in agguato, punti di osservazione, pattuglie di esploratori, guardie fisse. Di giorno e di notte vanno prevenute le infiltrazioni, mentre un attacco nemico (numericamente superiore) va contrastato immediatamente. E qui, dove non arrivano le bombe americane, è un frenetico spostamento da una zona all’altra, dove squadre coordinate via radio aggirano i palazzi o ci passano dentro per prendere il nemico alle spalle o dar man forte alla squadra in difficoltà. Nessuno sembra mai aver problemi di munizioni e tutte le armi a disposizione sembrano funzionare sempre. Ciononostante anche i nostri amici hanno perdite e anche Karim scopre cosa significa perdere un commilitone. Al resto si direbbe che faccia il callo, anche se non sempre va d’accordo con tutti. In fondo il suo reparto è stato messo su in pochi giorni e non sempre le motivazioni e le personalità del gruppo sono coerenti con le sue. Per fortuna i capi sono esperti e sanno trattare con i loro uomini: come in tutte le milizie tribali, le gerarchie nascono sul campo e non esistono sergenti. In più, ci sono forme assembleari dove tutti i guerrieri riuniti in circolo discutono dei problemi, una specie di consiglio degli anziani allargato. Sono tradizioni ancestrali, ma funzionano anche oggi.

Il salto di qualità Karim lo fa quando gli viene proposto di diventare un cecchino. Sull’argomento c’è ormai una ricca letteratura e cinematografia, quindi inutile dilungarsi, com’è inutile riportare le pagine dove si parla di munizionamento, tacche di tiro e correzioni balistiche. Karim è comunque freddo e preciso nel suo lavoro. Rimorsi? Pochi. Ecco un suo commento: “così il nazista domani non ucciderà il bambino ebreo”. E vai!

Alla fine, alla scadenza del visto turistico di tre mesi, “Marcello” (il suo nome di battaglia) potrà riavere il suo cellulare (intasato di messaggi) e riprenderà l’aereo da Istanbul. Tanto abbiamo capito che quella frontiera è un colabrodo a corrente alternata. Come abbiamo capito che – volontario per la libertà, mercenario, contractor o foreign fighter – chiunque può comprare un biglietto low cost e andare a combattere per qualche mese le guerre che gli eserciti regolari non sanno o non vogliono fare. Che armi e munizioni non mancano da nessuna parte, e in questo papa Francesco ha ragione da vendere. Ragione che sembra ormai merce sempre più rara.

Nota: l’autore donerà parte dei proventi del libro alla ricostruzione di Kobane. Il sito di riferimento, www.helpkobane.com non funziona, ma cercando “help Kobane” su google ci sono siti alternativi.

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Il combattente. Storia dell’italiano che ha difeso Kobane dall’Isis
Karim Franceschi, Fabio Tonacci
Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2016, pp. 350.

Prezzo: € 17,00

EAN: 9788817085540

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Mediterraneo, una storia di conflitti

Sulla storia del Mare nostrum c’è una stupenda letteratura: dall’opera di Pirenne a quella di Braudel passando per Matvejevic, Quilici e Cardini (1). Questo breve libro di Luciano Canfora (2016) in meno di cinquanta pagine li sottende e aggiunge di suo. Era in realtà il testo di una conferenza – un po’ come le Lezioni americane di Calvino – e in fondo, diciamolo, i piccoli libri sono sempre i migliori: leggibili, concisi, razionali.
Intanto, il Mediterraneo è un mare chiuso dalle colonne d’Ercole; il canale di Suez prima non c’era, al punto che nella geografia di Tolomeo l’oceano Indiano era visto come chiuso e simmetrico. Platone però affermava (2) che il Mediterraneo è solo una piccola parte della terra, in cui “abitiamo come formiche o rane attorno allo stagno”, dimostrando dunque di vedere molto più in là degli altri. Ma quando è stato unificato il Mediterraneo? Un primo tentativo lo fanno i Greci di Siracusa per eliminare i Fenici dalla Sicilia, seguiti dagli Elleni ateniesi che cercano di conquistare Siracusa (3). Ma Atene e Sparta possedevano risorse limitate: una aveva la flotta, l’altra la fanteria. Con la prima si possono esigere tributi dai porti, con la seconda si tiene il terreno, ma per governare sul serio ci vuole un Impero. La risposta è quindi ovvia: il Mediterraneo diventa un lago quando Roma prima unifica prima l’Italia e poi elimina Cartagine e trasforma lo spazio intorno alla penisola in Mare nostrum. Quando discuto con uno straniero non è facile spiegare per quale motivo l’Italia è da secoli e anche oggi luogo d’invasione invece che padrona di un mare nel quale occupa una posizione assolutamente centrale. E l’ultima figuraccia risale a ieri, quando il nostro vuoto politico è stato occupato dalla Francia di Macron. Ma le invasioni sono di antica data: il Mediterraneo è come un ampio anello le cui rive e isole sono state raggiunte prima o poi da tutte le migrazioni afro-asiatiche. “Rodon”, la rosa, è una parola che i Greci hanno trovato sul posto, e chissà quante altre. Se l’Europa è un concetto medievale, il ratto di Europa è ancestrale: come a dire che ciò che vien da fuori, una volta varcati i Dardanelli diventa altro. Ma proprio sul Bosforo – a Troia – si svolge la guerra più antica di cui abbiamo testimonianza grazie a Omero. L’Iliade è la guerra degli Achei – Elleni, non asiatici – contro i popoli d’Anatolia. Gli stessi Elleni secoli dopo bloccheranno i Persiani di Serse e i loro discendenti romanizzati saranno sconfitti e occupati per sempre dai Turchi solo nel 1453, quando cade dopo mille anni l’Impero Romano d’Oriente. Alessandro Magno aveva orientalizzato il proprio potere per proiettarlo in Asia ma il suo impero fu breve, mentre l’impianto fondato dall’imperatore Costantino si dimostrò ben più solido e duraturo. Questo per dire che il Mediterraneo presenta una frattura originaria che non contrappone solo nord a sud, ma piuttosto ovest contro est. Canfora nota con preoccupazione la recente, progressiva egemonia della Turchia di Erdogan su Siria, Egitto e Libia, sviluppata ora appoggiando l’Isis, ora proponendosi nella mediazione fra le parti in conflitto (è di oggi il vertice di Tunisi), e la vede come una costante: al mare cercano di arrivare i popoli che scendono dalle aride montagne, mentre i popoli civilizzati cercano sempre di combattere i barbari, anche se prima o poi l’esito è scontato. Anche la guerra moderna vive di proiezione ancestrale, e non importa se non sappiamo più combattere e apriamo la porta all’invasore: è il principio quello che conta, la memoria è indelebile. Ovviamente parlo per metafore, quindi nessuno si offenda.
La frattura tra nord e sud si deve invece all’espansione dell’Islam, e qui la tesi di Pirenne, anche se formulata nel 1939, resta valida, nonostante il revisionismo di Cardini, il quale sembra rimuovere il concetto stesso di conflitto per trasformarlo in uno scambio tra culture diverse. E’ vero che certi traffici non si sono mai interrotti del tutto, ma la storia del Mediterraneo è una storia di guerre, di uomini finiti in fondo al mare e di rotte commerciali da difendere o sfruttare a tutti i costi. I secoli bui si devono anche all’interruzione del flusso di cultura e merci tra Oriente e Occidente, come la rinascita segue la ripresa dei flussi arabi che dall’Oriente tornano in Spagna, fin quando i Turchi – musulmani ma alieni – s’impongono prima su Baghdad e poi su Bisanzio. Una storia di lacerazione, ma anche d’incroci e scambi di ogni genere. L’essenza del Mediterraneo è la mescolanza, come diceva il compianto Pino Daniele.
A ricomporre l’unità del Mediterraneo sarà nel secolo XIX il colonialismo europeo: Marocco, Algeria e Tunisia diventano francesi, la Libia italiana, l’Egitto inglese. Ma è un dominio che dura poco più di un secolo, e si dimostrerà per quello che era: superficiale. Come un secolo – dal 1918 a oggi – dura l’assetto del Medio Oriente, seguìto alla dissoluzione dell’Impero Ottomano (accordi Sykes-Picot) e la nascita di nuovi stati. Fino all’attuale rinascita del Califfato o Daesh che sia, che spazza i confini geometrici tirati sulla carta con squadra e compasso. E una storia non finita, visto che ora si prevede il riflusso dei guerrieri verso la Libia e l’Africa subsahariana. L’autore ovviamente non è un indovino, quindi non può dire come andranno le cose. Fa comunque un’ultima osservazione: la Siria – tirannide minacciata da ben altra tirannide – è il paradigma della fine di un progresso laico, di quel nazionalismo militare modernista che aveva avuto nell’Egitto di Nasser il suo più ambizioso protagonista. Sogno infranto – aggiungo io – dall’unico stato realmente moderno e “occidentale”: Israele.
Infine, è inquietante pensare a una frase di Braudel, già citato: “L’unico destino dell’Africa è invadere l’Europa. L’unico destino dell’Europa è accoglierla”. E’ solo questione di tempo? In mancanza di una vera politica, sicuramente.

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Mediterraneo, una storia di conflitti.
Della difficile unificazione politica del mare nostrum in età classica (e oggi?)
Luciano Canfora
Editore: Castelvecchi (Irruzioni), 2016, pp. 43.
Prezzo: € 5,00
EAN: 9788869447129

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NOTE
1. Maometto e Carlomagno / Henry Pirenne, 1939 e ristampe; Il Mediterraneo : lo spazio e la storia, gli uomini e la tradizione / Fernand Braudel ; con la collaborazione di Georges Duby, 1987; Breviario mediterraneo / Predrag Matvejevic ; introduzione Claudio Magris, 1988; Mediterraneo / Folco Quilici, 1980; Incontri (e scontri) mediterranei : il Mediterraneo come spazio di contatto tra culture e religioni diverse / Franco Cardini, 2014. – sono cinque libri di cui non si può fare a meno, che e offrono una scelta di documenti e opinioni affascinanti.
2. Fedone, 109 b
3. “Greci” erano chiamati esattamente gli Elleni che avevano colonizzato la Magna Grecia, come dire “Americani” invece che “Inglesi”. Se volete far felici i vostri amici greci, chiamateli sempre “voi Elleni”.

Caporetto – una storia diversa

A ottobre di quest’anno ricorre il centenario della più grande sconfitta militare rimasta nella memoria italiana, e il libro di Claudio Razeto cerca di fare il punto su una vicenda tuttora controversa. Lo fa in maniera molto chiara, seguendo gli avvenimenti dal 1916 al 1918 e oltre, corredando la narrazione con una scelta accurata di mappe e fotografie d’epoca. In questo l’autore è uno specialista, vista la sua esperienza di ricercatore di archivi storico-fotografici e il suo lavoro all’ANSA. La dodicesima battaglia dell’Isonzo – così gli Austriaci chiamano Caporetto – portò il nemico a occupare Veneto, Friuli e Carnia in pochi giorni, fino alla linea del Piave, dalla quale è partita la nostra riscossa finale. Il fronte italiano correva per 600 km lungo l’arco alpino, ottimo per difendersi ma non per attaccare. In più, il Trentino (austriaco) s’incuneava in modo tale da minacciare lo schieramento italiano tutto proteso a est. Per ben due volte – nel 1916 con la Battaglia degli Altopiani o Strafexpedition e nel 1918 con la Battaglia del Solstizio – l’Italia rischiò l’invasione dalle valli del nord. A est le vie d’accesso all’Impero Austro-Ungarico erano solo due: la via per Vienna, cioè il valico del Tarvisio (dove era passato Napoleone) e la via per Lubiana, ovvero Gorizia e le gole d’Isonzo. Trieste era invece naturalmente difesa dal Carso, un ampio, arido rilievo prossimo alla costa ma ben difendibile. Scartato stranamente il Tarvisio, Cadorna per due anni e mezzo attaccherà sistematicamente su due soli punti: verso la val d’Isonzo e verso Trieste. Direttrici obbligate: la valle dell’Isonzo scende parallela all’arco orientale delle Alpi e l’accesso per Gorizia passa per un’ampia gola scavata dal fiume tra due montagne, di fronte a Tolmino. La presa di Gorizia (1916) è l’unica conquista significativa: le undici battaglie dell’Isonzo, tutte combattute su due soli fulcri, portarono a guadagni di terreno minimi a fronte di perdite enormi. Trieste non fu mai presa e nell’alta val d’Isonzo – circondata dalle montagne – ci attestiamo già dal 1916 nel saliente fra Caporetto e Tolmino. Ed è dal luogo fisico che dobbiamo partire: Caporetto, Kobarid per gli Sloveni, è un villaggio che occupa un’ampia conca lungo la valle dell’Isonzo dalla parte slovena, all’incrocio fra il fiume e la piana del Friuli. Noi, incuneati nel saliente, potevamo al massimo prendere Tolmino e risalire la ferrovia sino a Lubiana, mentre il nemico, una volta sfondato il varco verso Gorizia, avrebbe visto aperta la piana del Veneto, costringendo l’intero schieramento italiano ad arretrare per tutto l’arco alpino. E questo è esattamente quanto avvenne il 24 ottobre del 1917.

Il libro si apre immergendoci nello scenario che di poco precede la battaglia: si è conclusa la sanguinosa undicesima battaglia dell’Isonzo (agosto 1917) e l’esercito austroungarico ritiene di non poter resistere a un’altra offensiva italiana: al 31 agosto ha lasciato sul campo 85.000 uomini contro 144.000 nostri soldati. Abbiamo pagato un duro prezzo per pochi chilometri di terreno, ma restano ancora le risorse per un altro attacco frontale, mentre le riserve nemiche sono logorate. Il generale tedesco Ludendorff se ne rende conto e decide di intervenire a favore dell’esercito austro-ungarico. La situazione è favorevole: i Russi sono stati sconfitti e usciranno di scena, quindi è possibile spostare truppe dal fronte orientale. La 14° Armata di Otto von Bulow, marciando di notte, manovra dunque verso la Slovenia, mentre il generale austriaco Boroevic’, detto appunto “il Leone dell’Isonzo” rinforza le linee difensive. Cadorna insiste da anni con attacchi frontali sempre sulle stesse posizioni e Boroevic’ su quelle resiste e rincalza di continuo le perdite. La sua strategia è puramente difensiva, forse l’unica possibile, ma ha logorato il suo esercito. Entrambi i generali sono duri e privi di fantasia e combattono una guerra moderna col cervello antico. I tedeschi invece sono tatticamente più moderni e l’hanno già dimostrato su entrambi i fronti, coordinando artiglieria e fanteria e addestrando formazioni di assaltatori – Sturmtruppen – capaci di infiltrarsi in pochi punti dello schieramento e penetrarlo in profondità, superando così la guerra di trincea. Proprio nelle trincee di Caporetto regna una calma irreale: lo schieramento italiano è tutto proteso in avanti, la dodicesima battaglia dell’Isonzo sarà combattuta in primavera, ma Cadorna ha buone informazioni e rinforza le difese. Non può sapere però che i Tedeschi hanno mandato il generale Konrad Krafft von Delmensingen, comandante degli alpini tedeschi, l’Alpenkorps. I suoi uomini hanno un ordine preciso: infiltrarsi, trascurare le cime e sfondare a valle; al rastrellamento ci penseranno le successive ondate di fanteria. Per capirne il senso, consiglio un libro scritto dall’allora tenente Erwin Rommel, la futura Volpe del deserto: Fanteria all’attacco (1 ). Il suo reparto alpino di assalto addirittura prende le nostre posizioni aggirandole alle spalle e penetra per chilometri in profondità, mentre il nostro Comando ancora non ha capito la reale portata dell’offensiva. Colpa nostra: il fronte italiano è tutto proteso verso un saliente, ma poco scaglionato in profondità. E’ uno schieramento anomalo: offensivo ma costretto in uno spazio chiuso e serrabile a tenaglia. Ma Cadorna, pur cosciente del pericolo, non accetta di cedere il terreno conquistato a caro prezzo, mentre il generale Capello, a capo della 2° Armata, non è d’accordo e pianifica una controffensiva che non solo va contro gli ordini di Cadorna, ma che non sarà mai sferrata. Sui contrasti fra i due generali è stato scritto molto, ma senz’altro Capello è più moderno del suo capo. Anche Badoglio, comandante del 27° corpo d’Armata, è fiducioso, ma il giorno dopo i suoi cannoni non spareranno neanche un colpo (2). Questo scoordinamento al vertice sarà disastroso.

Nel libro, l’attacco iniziato alle 02.00 del 24 ottobre 2017 viene descritto come in una radiocronaca, citando anche fonti austro-tedesche (3). Bombardamento intenso e preciso, uso dei gas, seguito dalle 06.20 dall’assalto duro e deciso delle truppe d’assalto contro Plezzo (Bovec) da nord e da Tolmino (a sud), favorite dalla nebbia. Questo comunica una nostra postazione avanzata:

Gli austriaci sono usciti dalle trincee, li vediamo, tra la nebbia, che vengono avanti, passano i reticolati. Noi ci ritiriamo.”

Le linee italiane crollano subito e il sistema di comunicazioni entra nel caos; la resistenza si tramuta in rotta e lo sfondamento del fondovalle spalanca al nemico la pianura friulana e veneta. L’artiglieria italiana non spara un colpo e tutto lo schieramento italiano si ritira in disordine. Ai soldati trincerati sulle quote il nemico ci penserà dopo: le avanguardie vanno avanti, senza preoccuparsi dei collegamenti. Gli stessi tedeschi e austriaci sono sorpresi dal successo. Così scrive un ufficiale austriaco, il tenente Weber:

Neppure la notte impedì agli attaccanti di accrescere a ritmo vertiginoso i successi già ottenuti, di trasformare lo sfondamento in un disastro totale, la ritirata del nemico in una fuga”

Il 28 ottobre, quando Udine non era ancora caduta, il generale Cadorna dirama il discutibile comunicato, passato alla storia, nel quale accusava i soldati di viltà:

La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della 2° Armata vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, hanno permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia.”

Giudizio ingiusto, sfruttato anche dalla propaganda austro-ungarica. Presto ricorretto ma noto a tutti, questo comunicato fu la Caporetto anche di Cadorna, destituito dal nuovo capo del Governo, Vittorio Emanuele Orlando. Il nemico aveva applicato tattiche più moderne, ma il motivo della sconfitta era tutto interno allo Stato Maggiore. Cadorna in realtà non era diverso da Haig, Joffre, Nivelle e Hamilton: tutti i generali della Grande Guerra erano anziani, aristocratici e disprezzavano le masse quanto il parlamento, quindi incolpare la propaganda disfattista e socialista era per loro normale, solo che in Italia nessun movimento politico d’opposizione – Chiesa cattolica compresa – aveva una reale influenza sui soldati e sulle masse. Piuttosto, la vera carenza della politica italiana – e non solo italiana – era lo scarso controllo sui militari: oggi Cadorna e Badoglio sarebbero destituiti entro un mese e la struttura di SM è più articolata. Quanto ai soldati, ormai ci si chiede piuttosto come hanno fatto a resistere per tanti anni in condizioni di vita inaccettabili anche all’epoca. La risposta sta nelle tante, significative foto che Razeto ha scelto per accompagnare la narrazione: trincee, paesaggi devastati, ma soprattutto uomini. E’ impressionante il contrasto fra Sturmtruppen e fanteria di linea, fra i duri volti degli Schuetzen che difendono casa loro e lo sguardo straniato del contadino italiano mandato su un altro pianeta. Ma è proprio quel tipo di soldato – oggi introvabile – che alla fine ha resistito e vinto.

La narrazione continua: dopo l’Isonzo e il Tagliamento, alla fine – è il 9 novembre – resta la linea del Piave. Abbiamo perso circa 12.000 morti, 30.000 feriti e 265.000 prigionieri (nota: i morti sono 12 volte meno dell’undicesima battaglia dell’Isonzo) e l’invasore dilaga in tutta la pianura veneta. La ritirata ora si ricompone, l’avanzata nemica ormai raggiunge la zona di esaurimento dell’offensiva. Nel frattempo il comando passa al generale napoletano Armando Diaz, più umano con i soldati. Anche qui Razeto ci fa praticamente marciare insieme ai soldati, con testimonianze di entrambi i fronti. Alla fine del 1918 l’ago della bilancia penderà dalla nostra parte. Per sempre. Ma il regolamento di conti interno al nostro esercito sarà lungo: la commissione d’inchiesta costituita il 19 gennaio 1918 pubblicherà i risultati nel 1919 e i suoi tre volumi rimangono tuttora un documento fondamentale (4). E infatti l’ultimo capitolo del libro s’intitola: Processo a Caporetto.

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Caporetto. Una storia diversa
Claudio Razeto
Editore: Edizioni del Capricorno, 2017, p. 166

Caporetto – una storia diversa

Prezzo: EUR 9,90

ISBN-10: 8877073330
ISBN-13: 9788877073334

EAN: 9788877073334

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NOTE

  1. Fanteria all’attacco / Erwin Rommel . Longanesi, 1982. Il libro uscì in tedesco nel 1937, quando Rommel insegnava all’Accademia militare di Potsdam.
  2. Badoglio, duca di Caporetto / Carlo De Biase. Roma, edizioni del Borghese, 1965
  3. Dal Monte Nero a Caporetto : le dodici battaglie dell’Isonzo, 1915-1917 / Fritz Weber Milano : Mursia, 1972. L’autore è un tenente di artiglieria austriaco, il quale stima i nostri soldati molto più di quanto non facessero i nostri generali.
  4. Dall’Isonzo al Piave : 24 ottobre-9 novembre 1917 / relazione della Commissione d’inchiesta R. D. 12 gennaio 1918, n. 35 Roma, 1919.    3 volumi: · 1: Cenno schematico degli avvenimenti . 2: Le cause e le responsabilità degli avvenimenti · 3 / relazione della Commissione d’inchiesta

 

Il Vento dei Balcani

Kosava è il nome di un freddo vento balcanico che origina dai Carpazi e attraverso le Porte di Ferro dilaga fino all’Adriatico: metafora del male perverso che sconvolse l’allora Jugoslavia negli anni ’90 e che ora abbiamo rimosso, anche se da anni manteniamo truppe in Kosovo e la ricostruzione civile in Bosnia non è mai realmente avvenuta.

Il libro è complesso, si snoda per 25 capitoli che coprono gli anni dal 1992 al 1999 e scorre su tre livelli paralleli: le vicende di un gruppo di giovani di Sarajevo, una serie di ricostruzioni storiche e infine – in corsivo – alcune note autobiografiche su quanto l’autore ha visto quando era in servizio. Progetto ambizioso; eppure la narrazione scorre agile, integrata da mappe e foto che aiutano a districarsi nel caos balcanico originato dalla fine di quella Jugoslavia che Tito orgogliosamente descriveva: “Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti, un partito”. Il libro inizia a Sarajevo nel 1992, quando la Repubblica di Bosnia-Erzegovina decide di staccarsi dalla Federazione Jugoslava, dopo che Slovenia e Croazia l’hanno già fatto l’anno prima senza troppi traumi. Qui conosciamo i nostri baldi giovani: Milan o Milo (serbocroato di Knin), Vesna (croata di Vukovar), Vesely (di Mostar), Alex (musulmano di Sarajevo), Anja (croata zaratina), Miriam (musulmana di Sarajevo), Branko (serbo), Vlady (serbo di Belgrado), Jadranka (kosovara musulmana di Pristina), Ivan (fratello di Milo). Tutti amici o fidanzati tra di loro, prenderanno strade diverse, tragiche, intrecciando e loro vite con la storia di una barbara guerra civile. Questo mi ricorda proprio un film jugoslavo, Okupacja u 26 slika (L’occupazione in 26 quadri), dove tre giovani amici – un croato, un italiano e un ebreo – seguono strade diverse dopo che nel 1941 Ragusa viene occupata (1). Anche qui i personaggi sono di fantasia, ma verosimili. Seguirne le vicende non è facile (sono una decina!), intrecciate come sono nella brutale, confusa storia balcanica degli anni ’90: gli uomini si arruolano nei rispettivi eserciti o milizie, mentre le ragazze seguono strade più tortuose: Vesna, infermiera a Vukovar, viene stuprata dai miliziani serbi (nel 1991 l’esercito croato quasi non esisteva) ma li denuncia; Anja e Miriam sopravvivranno nella Sarajevo assediata per tre anni (la città fu liberata dalla NATO nel 1995), Jadranka andrà a Pristina ma solo per trovare una situazione peggiore (in Kosovo i Serbi rifecero lo stesso errore di ripetere in piccolo la Grande Serbia). Ma lasciamo al lettore il piacere della sorpresa

Se le vicende dei nostri giovani sono intricate, la descrizione degli avvenimenti storici è invece molto chiara: ordinata cronologicamente per paragrafi, rende quasi comprensibile una storia quanto mai complicata. Ma non è un’asettica sinossi scolastica: il nostro generale non fa sconti a nessuno, neanche alla civile Europa che è intervenuta tardi e male. La guerra civile è stata brutale, al di là di ogni standard di civiltà, combattuta da quattro eserciti regolari e un numero imprecisato di milizie canaglia al di fuori di ogni controllo (2). Tito aveva costruito uno stato rispettato da tutti, mentre i vari Tudjman, Izbegovic’, Milosevic’ e Karadzic’ hanno cercato solo di creare impossibili nazioni omogenee, purificate attraverso ‘pulizie etniche’ (3), che hanno anche aperto gli occhi di noi italiani sull’esilio istriano e dalmata. Anja, uno dei personaggi di finzione, è di Zara e attraverso di lei ricostruiamo la storia della sua famiglia, che è poi quella – sorpresa! – del generale Di Grazia.

E con questo passiamo al terzo livello del libro: le memorie personali del generale, il quale ha avuto dal 1991 al 1999 una serie di incarichi di responsabilità nelle zone toccate dal conflitto. Tutti noi lo ricordiamo quando nel 1996 appariva in tv parlando dal comando della brigata „Garibaldi“ a Sarajevo. Ma è stato anche capo ufficio operazioni della inadeguata ECMM (Missione di monitoraggio della Comunità Europea) che doveva controllare gli accordi tra serbi e croati ed è stato addetto militare a Belgrado nel 1999, sotto le bombe anche nostre (4) : per un’alchimia tutta italiana, la nostra ambasciata non ha mai chiuso i battenti. Il nostro generale ha aspettato la pensione per dire la sua, ma è un testimone onesto: scrive solo di quello che ha visto di persona. E ne ha viste di tutti i colori: a Brcko e Velika Kladusa (Krajina) i Serbi non permettono ispezioni nelle zone contese tra Croazia e Bosnia; nel 1996 visita il campo di concentramento di Omarska, teatro di stupri e violenze di ogni genere; descrive le distruzioni di Vukovar, città martire croata nel 1991 ma martire serba nel 1995 (nell’ex-Jugo vittime e carnefici si scambiano spesso le parti) ; nel 1995 viene accolto a Zara come un doge veneziano, mentre a Sarajevo l’aereo deve scendere in picchiata per evitare i cecchini appostati sulle alture (egli.  ispezionerà il „viale dei cecchini“ ad assedio finito, nel 1996). Ispeziona la zona del mercato di piazza Markale dopo la strage (con i giornalisti già sul posto!), per dedurne che non si trattava di un colpo di mortaio ma di una bomba messa di proposito. Riesce a parlare con ambienti vicini ai mujaheddin, i miliziani musulmani stranieri venuti in aiuto di Izbegovic, verso i quali prova un’istintiva diffidenza, ed ora sappiamo di averla scampata bella (5). Non crede alla morte del comandante Arkan o almeno ha ancora qualche dubbio (forse è esfiltrato come Pavelic’). Descrive il tunnel che dall’aeroporto di Sarajevo conduceva alla città e ne permetteva il rifornimento, e che può vedere solo quando diventa vicecomandante del contingente italiano e responsabile di una delle JMC (Joint Military Committee, Commissioni militari miste); descrive il palazzo distrutto del giornale Oslobodjenje (libertà), che continuò fino all’ultimo a informare la gente. Discute spesso con generali serbi peraltro intelligenti ma tarati dall’ossessione della Grande Serbia, mentre invece a Knin i Croati negano che esistano le Krajine (all’origine: marche di frontiera abitate da soldati-contadini serbi). Ma le menzogne si sprecano, soprattutto quando – mappe alla mano – non si capisce dove siano finite centinaia di abitanti registrati in precedenza ma fuori del conto dei profughi: fosse comuni ne salteranno fuori per decenni. Descrive il ponte di Mostar distrutto, simbolo per secoli della convivenza etnica; discute le responsabilità della strage di Srebrenica voluta dal generale serbo Mladic’ (1995), affermando che, anche se i caschi blu olandesi hanno fatto male il loro lavoro, le regole d’ingaggio ONU erano troppo vincolanti (p.es. permettevano l’autodifesa ma non il combattimento), ben diverse da quelle della missione IFOR della NATO, che solo in quel di Sarajevo distrugge 20.000 tonnellate di munizioni. Quelli del nostro generale sono tutti incarichi delicati, del cui funzionamento poco o nulla sapevamo ed ora vediamo descritti dall’interno. Nell’ultima parte del libro gli Italiani proteggeranno i Serbi che lasciano Grbavica, il loro quartiere di Sarajevo: ormai hanno perso, anche se Milosevic’ ci riproverà in Kosovo, dimostrando di non aver capito niente e attirandosi le bombe della NATO. E proprio a Belgrado si consumerà a fine secolo l’ultimo atto della tragedia iniziata dieci anni prima.

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Titolo: Kosava. Vento di odio etnico nella ex Jugoslavia da Tito a Milosevic
Autore: Biagio Di Grazia
Editore: ilmiolibro self publishing
Collana: La community di ilmiolibro.it
Editore: Pubblicato dall’Autore, 2016
Pagine:264

ISBN 8892312200
EAN:9788892312203

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NOTE

  • https://www.youtube.com/watch?v=oHmSX9Z-5B0&spfreload=10 Il film è del 1978, opera del regista croato Lordan Zafranovic’. L’ho visto in un festival, ma non ha mai circolato in Italia. Ora per fortuna è su Youtube.
  • L’Armata popolare federale (JNA), l’esercito della neo Repubblica di Bosnia, quello della Repubblica Srpska, più quello della Repubblica croata dell’Erzeg Bosnia. Difficile fare invece il conto delle milizie, armate e finanziate neanche di nascosto dai vari attori politici.
  • Pulizia etnica significa trasformare una minoranza relativa in maggioranza assoluta cacciando tutti gli altri. Il termine appare negli anni ‘90.
  • Ufficialmente i nostri Tornado erano ricognitori fotografici
  • http://www.nytimes.com/2009/06/24/world/middleeast/24saudi.html