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Un Surrealista visionario

I “Racconti del signor Dido” di Alberto Savinio. Li leggo tra la filigrana della pioggia e il plumbeo delle stanze in penombra. A distanza di tanti anni mi svelano i labirinti dolorosi e sorprendenti delle ultime invenzioni di Savinio. E sembra la stessa pioggia,lo stesso quartiere “rispettabile” e desolato,gli stessi filtri e li stessi alambicchi dei nostri pomeriggi domenicali, lunghissimi e torpidi.
Magnifici racconti,di una malinconia preziosa e forte, la malinconia d’un genio satirico,la malinconica discesa d’un vecchio genio surrealista, il crepuscolo d’un antico fauno che ancora morde e sorprende.
Le verità astratte e concretissime d’uno strano poeta cresciuto tra le ghette e i papillon d’una generazione privilegiata,solare e geniale,baciata dagli accordi d’un Orfeo col viso di Apollinaire, raccolta e svezzata dalle vesti cubiste di angeli smaniosi e birichini…


Il signor Dido Condividi
di Alberto Savinio
Adelphi, 1978, pp. 166
Prezzo: 11,40 €

EAN: 9788845903441


Leggendo del conflitto in Ucraina

Il 24 febbraio 2022 fissa lo spartiacque tra due epoche: dopo la seconda G.M. l’Europa ha goduto 77 anni di pace e la fine della Guerra fredda aveva fatto credere che la guerra come strumento di pressione politica non fosse più una scelta praticabile. Il libro inizia in un modo insolito: una scena teatrale con due possibili finali, protagonisti Putin e i suoi generali alla vigilia dell’”operazione speciale”. Puntavano in realtà su Kiev per far cadere il governo Zelensky e imporne uno loro: storicamente i sovietici puntavano sempre sulla capitale per imporre un loro uomo (Budapest, Praga, Varsavia, Kabul), ma stavolta hanno fatto male i calcoli. Ora, dopo quattro mesi si può fare il punto e trarne alcune conclusioni. L’autore è un generale ora in congedo, con una lunga esperienza nella NATO e nelle missioni internazionali.
Si comincia dalla storia: l’Ucraina, estesa nazione slava per secoli ha gravitato fra Est e Ovest per poi essere assorbita nell’orbita russa almeno fino al 2014, quando l’Ucraina decide di gravitare verso l’Occidente. Si tende a giustificare l’aggressiva politica russa come reazione all’espansione della NATO a Est, ma l’adesione era libera, come libere erano le nazioni che volevano entrare in un’alleanza difensiva. Stranamente, un processo negoziale così importante ha lasciato pochi documenti ufficiali, né provocava una decisa reazione diplomatica da parte russa, nonostante Putin fosse già al potere e potesse esercitare pressioni sulla NATO, con la quale si manteneva un rapporto di collaborazione. Quindi è verosimile pensare che la saturazione risalga al 2014, quando l’Ucraina cambia governo e la Russia si riprende la Crimea, peraltro assegnata nel 1954 all’Ucraina da Krus’ev in un contesto diverso, tutto interno all’URSS. A seguire, il problema del Donbass, vasta e popolata regione ucraina ricca di risorse, ma abitata anche da una forte componente russa, alla quale non si riconosce un’autonomia simile a quella da noi concessa ai sud-tirolesi. Risultato: 4000 morti in 8 anni e una guerra civile strisciante, con l’uso spregiudicato di milizie irregolari.
Nell’”operazione speciale” in realtà di fantasia se ne è vista poca: i russi si sono mossi in modo schematico, con disfunzioni logistiche e tattiche ben sfruttate dalle fanterie leggere ucraine nel contrasto dinamico. L’ossatura tattica dei russi si basa sui BTG (pag.30-31), battaglioni meccanizzati con mezzi, armi e autonomia. Non sono in realtà un’invenzione russa, ispirati piuttosto ai Kampfgruppe tedeschi. Nei primi tre mesi ne sono stati impiegati 90 sui 180 teoricamente disponibili: una forza di manovra 90.000 uomini, più 150.000 tra regolari e miliziani per tenere le retrovie e rimpiazzare le perdite. Le forze ucraine – 250.000 uomini – hanno dovuto dislocare almeno 150.000 soldati lungo il fronte, anche se solo in parte ben addestrati. Dunque il rapporto attaccante/attaccato è 1:1, quando dovrebbe essere 3:1 per riuscire efficace, a meno di non avere Rommel o von Manstein al comando. Qui invece nessuno ha individuato il punto dove aprire un varco e penetrare in profondità. In più le forze ucraine – più agili – si sono valse di armi moderne ed efficaci: droni armati Bayraktar TB2, missili controcarro Javelin, Le operazioni sono comunque ben illustrate nelle pagine 39-48, con tanto di cartine. In alcune zone sono stati conquistati 200 km in 6 giorni, altrove dai 10 ai 100 km., salvo poi dover affrontare i grossi centri abitati, dove rastrellare blocchi di 20 piani o industrie grandi quanto l’Ilva di Taranto ha trasformato l’avanzata in una guerra di assedio, dove i civili pagano il conto: i russi non fanno sconti e procedono alla russificazione immediata delle zone conquistate, secondo l’archetipo della seconda GM.
Nel frattempo si è chiarita la strategia russa: non solo conquistare tutto il Donbass, ma saldarlo alla Crimea conquistando uno dopo l’altro i porti del Mar Nero – Cherson e Mariupol – e chiudendo il Mar d’Azov. L’assedio dell’acciaieria Azovstal ha avuto effetti mediatici, ma più logico sarebbe stato esfiltrare le forze per tempo e riorganizzarle altrove. Odessa a tutt’oggi (luglio 2022) non è ancora stata conquistata, ma l’Ucraina non vuole perdere l’accesso al mare e quindi affonda le navi russe e difende l’Isola dei Serpenti. Le forze da sbarco in realtà non hanno la capacità offensiva e la forza di penetrazione in profondità richiesta da un’operazione del genere. Ma nel frattempo le operazioni sul terreno sono cambiate: sguarnito il fronte di Kiev (ma con la pressione dell’alleato/vassallo bielorusso) le forze russe sono state concentrate nel Donbass e lungo la costa del Mar Nero. Per risparmiare gli uomini i russi ora combattono come 50 anni fa, facendo uso massiccio dell’artiglieria – quasi 5000 colpi al giorno più i missili – per spianare tutto quello che c’è davanti, città comprese, per poi far avanzare i carri e infine la fanteria. Dall’altra trincea si chiede agli alleati europei e americani artiglieria a lunga gittata, mentre i mezzi corazzati arrivano dai depositi degli ex membri del Patto di Varsavia. Non esistono per ora fonti ufficiali sicure, ma finora i due contendenti hanno verosimilmente perso ognuno 1000 corazzati e almeno 6000 soldati. Un conflitto ad alta intensità fra forze convenzionali simmetriche logora le forze in modo rapido: è la classica Materialschlacht, guerra di logoramento che dura finché è possibile alimentare il fronte. Solo in caso di esaurimento delle risorse uno dei due nemici è disposto a negoziare. In realtà gli ucraini non vincono: resistono.
Nel capitolo successivo (p.71) l’autore analizza invece la questione del comando, che secondo l’autore risente ancora del retaggio del centralismo sovietico. Dopo poche settimane tanti generali sono stati mandati a casa, ma la decisione di attaccare su 1500 km di fronte con 90 BTG non era solo militare: la guerra è una funzione della politica.
Il capitolo successivo (p.89-99) è un’analisi dei rispettivi armamenti (mezzi e organici) e mostra un certo squilibrio quantitativo a favore dei russi, compensato da una migliore tecnologia occidentale, tangibile p.es. nel controllo del campo di battaglia, nella direzione di tiro e nelle armi controcarro. Ma l’evoluzione del campo di battaglia può oggi portare solo a un consolidamento delle conquiste sul terreno. Dipende dalle forze in campo, dalla resilienza della società civile e dalla capacità industriale; questo vale per tutti. Una guerra lunga non fa comodo a nessuno e il Gas ne è il paradigma. Il problema è che chi scatena una guerra punta sempre sulla sua brevità, e in questo la storia militare è piena di exempla.
L’ultima domanda: le forze armate italiane e/o europee sono preparate a un conflitto ad alta intensità? La risposta è negativa: finita la Guerra Fredda si è investito molto sulle “missioni di pace” e poco sulle forze di terra. Italia e Germania hanno una componente carri pesanti ormai ridotta e ci vorranno anni per ricostruirne una credibile. Si parla poi da anni di Difesa Europea, ma finora restano i problemi di sempre (chi paga e chi comanda?), mentre la NATO è invece rinata proprio perché c’è la guerra in casa. Purtroppo lo spostamento del fulcro al centro dell’Europa penalizza il Mediterraneo, anche se il ruolo strategico della Turchia e la gestione delle rotte del grano dovrebbero aprire gli occhi a chi ragiona come se esistesse solo il Sacro Romano Impero.


Il conflitto in Ucraina
Una cosa troppo seria per certi generali ma specialmente per certi politici
Luigi Chiapperini
Francesco d’Amato Editore, 2022, pp. 240
ISBN 978-88-5525-136-5
Prezzo 12 euro.


ZIA DOT

Noi italiani da sempre siamo grandi appassionati di letteratura americana, al punto… da produrne. Se il giovane esordiente Riccardo D’Aquila (n. 1992) si fosse firmato Eagle Richard, sfido chiunque a capire che questo frenetico romanzo on the road figlio della grande narrativa americana è stato scritto a Chieti: i personaggi s’iscrivono nella serie delle figure viste in tanti romanzi e film ormai classici. La California s’incrocia qui con l’Arizona. Il mondo di zia Dorothy (Dot), lesbica, diretta e pratica di mondo è quello delle ville di Bel Air, mentre quello di Marvin è l’Arizona delle aziende di allevatori e dei nomadi del lavoro. Marvin prima ripassa la frontiera dal Messico con documenti falsi e l’aiuto di un compare – in Arizona avrebbe guai con la giustizia per via di una rapina maldestra – e si presenta nella residenza dove zia Dot e le sue sorelle e tutto il clan risiedono. Erano quindici anni che non si era fatto vivo e propone alla zia di venire con lei in Arizona per sistemare una faccenda privata. Marvin è figlio di farmer rovinati e la sua è una famiglia sfasciata; ha fatto diversi lavori e gente come lui è stata descritta decine di volte. Marvin e zia Dot partono dunque insieme, come nella migliore tradizione dei road movie e durante il viaggio vengono approfonditi i loro caratteri, Ma fino alla fine non sapremo come e perché Marvin si era avvicinato a quel mondo di ricchi, cosa va a sistemare in Arizona e perché vuole con sé zia Dot, che in effetti è una simpatica donna capace di sistemare tutto e si vede fin dall’inizio, quando una sua giovane nipote teme di essere rimasta incinta. Non anticipiamo nulla al lettore – niente spoileraggio -, riconoscendo invece al nostro giovane autore la capacità di creare personaggi credibili e un intreccio avvincente, alternato da descrizioni d’ambiente forse pure costruite con un certo manierismo, ma familiari. Per chi ama il cinema direi che nell’incrocio tra i due mondi americani descritti nel romanzo si vede da un lato la mano di Robert Altman, dall’altro quella di John Ford: l’ironica descrizione del dorato mondo californiano si confronta con quella degli spazi desertici punteggiati da motel e stazioni di servizio e dei casuali incontri on the road.

Il libro è stato passato al vaglio della PAL, Piccola Agenzia Letteraria fondata nel 2020 dalla scrittrice Melissa Panarello, attiva nella selezione e revisione di testi di esordienti e non, da proporre agli editori.

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Zia Dot
Autore: Riccardo D’Aquila
Editore: Fandango Libri, 2022, pp. 270
Prezzo: € 18,00

EAN: 9788860448118

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Un brano a caso:

La farmacia più vicina era fuori città. Chiusa. Dovette accontentarsi del distributore.

Dopo aver infilato i dieci dollari, sentì una presenza, proprio dietro di lei, mentre si stava specchiando sul vetro della macchinetta, per levarsi i segni del vino dai denti. Il cappello e gli occhiali le davano un’aria quasi seria.

Si girò, con la confezione del test in mano.

Dietro di lei c’era un ragazzetto ben pettinato, in un cappotto beige, alto almeno un metro e ottanta, che sghignazzava.

«Che ridi?» gli fece Dot.

Il ragazzo non rispondeva.

«Voglio sapere che cazzo ridi, imbecille. Non lo sai come sei nato?»

Il ragazzo annuì. Aveva una polo e le chiavi della macchina in mano.

«Sei sicuro?» continuò Dot.

Il ragazzo parlò.

«Lei è Dorothy Roth, vero?»

La donna alzò il cappello e abbassò gli occhiali da sole, per squadrarlo meglio. Quello sguardo le diceva qualcosa.

«Sì.» gli fece «Allora?»

L’altro rise ancora.

«Niente, mi fa ridere una lesbica che compra un test di gravidanza.» disse con un ghigno.

Storie di sottomarini sovietici

Siamo in piena Guerra Fredda. Gli Americani hanno varato il sottomarino a propulsione nucleare Nautilus e l’Unione Sovietica non vuole rimanere indietro e promuove un’ambiziosa cantieristica navale. I battelli a doppio scafo a propulsione diesel/elettrica erano basati sui modelli tedeschi preda di guerra, ma per il nucleare mancava ovviamente l’esperienza. Gli ingegneri erano preparati, ma i marinai (diversamente dalla nostra leva di mare) provenivano dai posti più sperduti dell’URSS e vedevano nella Marina un’occasione sociale. In più mancavano – e mancano tuttora, come si è visto nell’affondamento del “Moskva” – i “petty officers”, i nostri esperti marescialli con anni di imbarco. Ma torniamo al nostro battello. Sin dalla sua costruzione nel 1958, la storia del sottomarino sovietico di classe Hotel K-19, il primo a essere equipaggiato con missili nucleari, è stata costellata di luci e ombre. Varato l’8 aprile 1959, il K-19 fu costruito in un periodo in cui l’Unione Sovietica era intenzionata a eguagliare la potenza nucleare degli Stati Uniti, sino ad allora in netto vantaggio. Tuttavia, nella volontà di proiettare la dimostrazione di potenza, furono messi in secondo piano diversi requisiti di sicurezza, determinando così una serie di malfunzionamenti nei battelli prodotti in serie (il libro è pieno di esaurienti dettagli tecnici, che qui omettiamo). Prudenza avrebbe suggerito di collaudare un paio di battelli per un anno o due prima di passare alla produzione in serie, ma le motivazioni politiche e le pressioni dell’industria prevalsero sulle esigenze della Marina, col risultato di mettere sotto stress gli equipaggi. Gli incidenti più comuni erano dovuti a guarnizioni difettose, a valvole bloccate, a strumenti tarati male e/o inesperienza degli equipaggi. Ma il peggio doveva causarlo una carenza strutturale: a differenza dei battelli della US Navy, il circuito di raffreddamento primario del reattore nucleare non era affiancato da un circuito d’emergenza. Il 4 luglio 1961 avvenne il più tragico degli incidenti: dopo alcune esercitazioni nell’Atlantico, a 45 metri di profondità, l’equipaggio del K-19, agli ordini del capitano Nikolaj Zateev, si trovò a fronteggiare un incubo nucleare. Una grave perdita nel reattore aveva causato il guasto del sistema di raffreddamento, portando a un pericoloso aumento della temperatura all’interno del nucleo. Esattamente quello che successe anni dopo a Chernobyl, con la differenza che intervenire d’urgenza negli spazi ristretti e scomodi di un sottomarino è un’impresa complicata anche in porto, figurarsi in immersione. Ad aggravare la situazione si accompagnò anche il malfunzionamento del sistema radio, che lasciò l’equipaggio isolato e senza la possibilità di contattare Mosca. Il sottomarino fu costretto a emergere e alcuni degli uomini furono testimoni di un grande atto di coraggio, sacrificandosi per riparare l’avaria prima che causasse un disastro nucleare. Nel 2006, l’ex presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbacëv ha proposto l’equipaggio del sottomarino al Nobel per la pace, per le azioni compiute il 4 luglio 1961. L’incidente, fu secretato per quasi trent’anni. Ma non fu l’unico: nel 1968 il K-129 (Golf II in codice NATO) a propulsione diesel/elettrica sparì nel Pacifico con due siluri a carica nucleare e tre missili balistici intercontinentali tipo SS-N-5 “Serb”. I Sovietici ignoravano la sua posizione ma non gli Americani, che nel 1974 con un’operazione coperta affidata a una ditta privata specializzata riuscirono a recuperare parte dello scafo sepolto a 5000 metri di profondità. Bottino: due siluri a carica nucleare, le macchine crittografiche e i corpi di sei marinai, a cui fu data sepoltura con gli onori militari. Sul Kursk invece non c’è molto da dire: nel 2000 i Russi erano meno chiusi e per il recupero chiesero l’aiuto di palombari norvegesi. Verosimilmente era scoppiato un siluro a propellente liquido, ma i ritardi nei soccorsi non salvarono ben 23 uomini che si erano rifugiati in un compartimento stagno. Alcuni avevano scritto un diario che aggiunse molti dettagli alla comprensione del disastro.
Va detto comunque che anche la US Navy perse due sottomarini nucleari: nel 1963 il Tresher (SSN-593) e nel 1968 lo Scorpion (SSN-589) sparirono nell’Atlantico. Il Tresher subì un guasto ad un sistema di tubazioni di acqua salata, che risultarono brasate invece che saldate. Durante l’immersione profonda, una tubatura interna si era rotta ed aveva allagato la sala macchine; lo spegnimento automatico del reattore nucleare aveva tolto l’alimentazione elettrica al battello, impedendone la riemersione. Tra i 129 morti si contano anche i tecnici collaudatori, mentre a bordo dello Scorpion c’era solo l’equipaggio di 99 uomini. Quanto allo Scorpion, le successive indagini e foto da batiscafo fanno pensare a un’esplosione di un siluro, cosa che del resto successe al Kursk nel 2000. Due siluri nucleari giacciono ancora sul fondo, aumentando la già ricca discarica nucleare oceanica. In più ci sono tutte le scorie radioattive della base subpolare di Murmansk, quando negli anni ’90 mancavano i soldi per la manutenzione della flotta. Circolava una battuta sui sommergibilisti della base: di notte si riconoscevano perché brillavano. Quanti di loro sono morti di leucemia nessuno lo saprà mai.


K19
La storia segreta del sottomarino sovietico Condividi

Autore: Peter Huchthausen
Traduttore: Kollektiv Ulyanov
Postfazione di Kathryn Bigelow.
Editore: Odoya, 2021, pp. 208
EAN: 9788862886901
Prezzo: € 16,00


Relazione di Moscovia

In questi giorni drammatici sentiamo il bisogno di capire la vera natura della Russia e del suo sistema di potere. Per curiosità consiglio di leggere la relazione che nel 1565 Raffaello Barberini, rampollo della nota famiglia romana, scrisse dopo aver percorso per un anno le vaste lande di quella che all’epoca era chiamata Moscovia, nazione dai confini indefiniti, più Oriente che Occidente, governata da un sovrano dispotico e imprevedibile e da una classe di antiquati proprietari terrieri. Raffaello parte dal porto di Anversa, il suo è un viaggio di affari, né deve stupirci: in quei paesi remoti si andava per motivi diplomatici o per sviluppare commercio dove abbondavano le materie prime ma non le attività produttive. Le lettere patenti del nostro Raffaello sono firmate dal re d’Inghilterra, il quale sviluppa il commercio navigando sopra la Norvegia ed evita così i pedaggi anseatici sul Baltico. I nomi dei viaggiatori italiani oggi dicono poco: Francesco da Collo (1518-19), Paolo Cantelli Centurione (1520, 1523), Gian Francesco Citus (1525), Giovanni Tedaldi (1550). L’ultimo era un mercante e agrario toscano, il primo era un diplomatico veneto al servizio di Massimiliano I d’Asburgo, con la missione di coalizzare Polacchi e Moscoviti contro la minaccia ottomana. La Moscovia si collocava infatti in una posizione strategica nelle lotta contro la Sublime Porta, ma l’annoso conflitto con la Polonia era ovviamente d’intralcio. In più – da geografo – doveva verificare la veridicità delle affermazioni di Maciejz Miechowa che nel suo Tractatus de duabus Sarmatiis (1517) dava una descrizione dell’Europa Orientale assai diversa da quanto riportava a suo tempo Claudio Tolomeo. Paolo Cantelli centurione era invece un mercante genovese interessato a trovare una via commerciale che aggirasse l’Impero Ottomano: dall’Indo al Mar Caspio, di qui, risalendo il Volga e i suoi affluenti, a Mosca e poi a Riga per giungere definitivamente nei porti dell’Europa settentrionale attraverso il Mar Baltico. Non era un diplomatico, anche se aveva lettere di presentazione firmate da papa Leone X. Gian Francesco da Potenza o Citus era invece un ecclesiastico d’alto rango e riveste un ruolo di primo piano nello scambio diplomatico, che porterà alla missione a Roma del negoziatore russo Dmitri Guérasimov (omonimo del generale di Putin). Le questioni sono complesse: i Polacchi contendono Smolensk ai Russi, ma i Veneziani vedono nel clero ortodosso un alleato nei Balcani, mentre papa Clemente VII appoggia i Polacchi (cattolici, ovvio) di Sigismondo, ma spera in un’alleanza con lo Zar contro i Turchi e nel primato di Roma, ma come sempre la Chiesa russa diffida dei Latini e i Polacchi temono i loro vicini Russi. Tutto poi si complica per le varie pretese dinastiche europee, del tutto estranee al potere assoluto del Gran Principe, sovrano di un paese enorme e dai fluidi confini. Nelle carte geografiche la Moscovia non ha mai contorni precisi e alcune zone in prossimità con Tatari e Mongoli non si capisce bene chi è suddito dell’altro e a chi si devono pagare le tasse. Nella relazione del Barberini – scritta a titolo personale e curata ora da una sua discendente, nota storica dell’arte – viene descritta in modo brillante una struttura di potere priva di strutture intermedie: clero a parte, c’è il Gran Principe (in questo caso era Ivan il Terribile) e intorno a lui i Boiari, a metà tra il proprietario terriero e l’alto funzionario di burocrazia. Orientale è il protocollo di corte, umiliante l’anticamera degli ambasciatori stranieri, di fatto segregati dai contatti con l’esterno e costretti a lunghe attese. Assolutamente arbitraria la giustizia, rapida la capacità di mobilitazione della cavalleria (cosacca?), efficienti le comunicazioni di stato tramite corrieri e cavalli e stazioni di posta. Ma se il Palazzo del Cremlino è bello e fortificato (anche con l’aiuto di italiani), le case della gente sono di legno e povere. In più, in occasione di feste, tutti sono ubriachi. Le strade poi non sono praticabili in tutte le stagioni, ma gran parte del traffico e delle comunicazioni avviene lungo i grandi fiumi…. Pur nella lontananza storica, nelle descrizioni di Raffaello Barberini sentiamo ancora qualcosa di familiare: diffidenza verso gli stranieri, potere autocratico, spazi enormi. In più, se al posto di “Boiari” mettiamo “Oligarchi”, cosa cambia?


Relazione di Moscovia scritta da Raffaello Barberini (1565)
di Maria Giulia Barberini
Editore: Sellerio, 1996, pp. 111
Prezzo: 6,00 €

EAN: 2561744009783