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Le parole e le cose

Per un malinteso, il mio articolo sulle bandiere ha attirato su Facebook le folgori della Folgore. Ma vorrei solo ricordare che proprio i parà nel 2008 in Afghanistan furono coinvolti in un incidente di percorso: un giornalista de L’Espresso notò la palma dell’Afrika Korps dipinta sulla fiancata di un mezzo della Folgore e ciò addirittura provocò un’ interrogazione parlamentare. Per i parà quella palma con A e K ai lati era un riferimento alla battaglia di El Alamein (1942) e alle tradizioni del reparto, ma per gli altri un simbolo nazista. E all’epoca la polemica sui simboli non era ancora così feroce come oggi, quando oltre i simboli del fascismo storico si vorrebbe distruggere l’architettura stessa del Ventennio. E perché non si è fatto in questi settant’anni? Semplicemente perché, cancellati i simboli, gli edifici mantengono comunque una funzione che va oltre la forma. Solo la Roma antica è letteralmente sprofondata sottoterra per essere riscoperta e valorizzata molti secoli dopo.

Ma se le immagini sono metafore, lo sono anche le parole, e anche qui andiamo sul pesante. Mi ha sorpreso l’elenco delle parole che il presidente Trump ha bandito ufficialmente dalla comunicazione sanitaria: transessuale, feto, diversità, vulnerabile, diritto, basato sulle evidenze, basato sulla scienza: sette termini che si vuole proibire nei documenti della sanità, con un approccio ideologico senza precedenti che ha già scatenato forti polemiche nel mondo politico e scientifico. Personalmente, quello che trovo più inquietante è la censura sulle due ultime espressioni: significa dar credito non a Galileo, ma alle chiese evangeliche americane e alle paranoie dei loro predicatori nomadi. Ma – a ben guardare –  la deriva fondamentalista l’hanno a suo tempo promossa proprio i “Liberals” con la loro ossessione del politically correct, di fatto una forma di censura che ormai permea il linguaggio e i rapporti sociali e nella versione italiana scivola facilmente nell’ipocrisia. Chiamare “non vedenti” i ciechi non ne ha migliorato la vista, e infatti l’Unione Italiana Ciechi non ha ancora cambiato nome. Sui rom il discorso è diverso, perché “zingaro” ha effettivamente una connotazione negativa e non definisce l’insieme della comunità (gitani, camminanti, zingari, zigani, sinti, korakanè, etc.). E almeno sui poveracci che sbarcano sulle nostre spiagge finalmente si è arrivati a un termine linguistico condiviso: sono migranti. Trovo invece oziose le discussioni di genere: assessora? sindaca? L’italiano permette di scegliere se privilegiare il sesso o la funzione sociale, il resto è politica, la quale piuttosto dovrebbe star più attenta a cambiare le cose invece dei nomi delle cose. In questo i politici sono ostinati: il geografo Tolomei scelse con cura tutti i nomi italiani per il Tirolo meridionale acquisito dopo la Grande Guerra, nomi che ora i sudtirolesi della Volkspartei cercano in ogni modo di cancellare, salvo far scrivere Alto Adige sulle confezioni di yoghurt da vendere nei nostri supermercati. I nazionalisti sono sempre sistematici poi nel cambiare a forza i cognomi o negare addirittura l’identità di un popolo: fino a pochi anni fa i curdi stanziati in Turchia erano semplicemente “turchi di montagna”. E se noi abbiamo italianizzato i cognomi sloveni in Carnia, chi ai tempi di Tito osava dire Zara e Spalato invece di Zadar e Split doveva comunque litigare con i croati, mentre un francese sa benissimo che la sua capitale noi la chiamiamo Parigi né si offende per questo, ma graziosamente francesizza i nostri nomi e cognomi accentandoli sull’ultima sillaba. E’ evidente che nominare significa comandare, e infatti Adamo nella Genesi dà il nome a piante ed animali, ma non potrà mai pronunciare il vero nome del suo Creatore. Né questo modo di vedere il mondo è un’esclusiva dell’ebraismo, essendo presente in molte religioni e mitologie. Per concludere, è bene ricordarsi sempre della massima del filosofo Wittgenstein: attenzione, perché alle parole corrispondono le cose.

 

Dunkirk, il primo film della Brexit

Dunkirk (Dunkerque per i francesi) è il luogo dove nell’estate del 1940 i 400.000 soldati del corpo di spedizione inglese si ritirarono in massa in attesa dell’imbarco, dopo essere stati tagliati fuori dall’offensiva tedesca in Francia. Avevano ormai solo i fucili, avendo perso tutto il materiale pesante nella ritirata. Dal canto loro i Tedeschi incalzarono gli Inglesi senza usare Panzerdivisioni o artiglieria, ma limitandosi a martellare uomini e navi con Stukas e bombardieri Heinkel. Potevano far di peggio, ma Hitler nel 1940 sperava in una pace separata con gli Inglesi, a cui si oppose fermamente Churchill. Ma il grosso dei soldati inglesi fu recuperato non tanto dalle navi della Marina, ma da una miriade di pescherecci e imbarcazioni private mobilitate in fretta e condotte da comuni cittadini britannici che accolsero l’appello. Il pescaggio delle coste era infatti troppo basso per le grandi navi, le quali – lo dice un ammiraglio nel film – avrebbero poi difeso l’Inghilterra dall’invasione.

Come suggerito dal regista stesso, il film si espande in tre elementi: Terra, Mare, Aria. Nel primo elemento sopravvive la fanteria in attesa d’imbarco, inquadrata in ordinate file lungo chilometriche spiagge sabbiose ma tormentata dagli Stukas. In mare fanno invece la spola le navi che cercano di imbarcare più gente possibile, colpite dai siluri degli U-Boot e martellate quanto i soldati a terra dai bombardieri Heinkel. E qui entriamo nel terzo elemento, l’Aria, spazio per spettacolari duelli tra i mitici Spitfire (originali, ndr.) e i loro degni rivali, i Messerschmit della Luftwaffe. Il film è girato con lo stile del documentario, quindi nessun personaggio sovrasta l’altro e molti attori, pur famosi, recitano sottotono. In questo grande affresco alla fine il protagonista è il soldato semplice con l’elmo a padella, il marinaio comune, il pilota dell’aereo, il privato cittadino britannico che fa vela verso Dunkerque con la sua barchetta. In fondo non c’è neanche una vera trama, risultando il film una serie di episodi collettivi o individuali orchestrati con la classica tecnica del montaggio alternato. Certo, alla fine i fanti bagnati fradici si somigliano tutti e lo spettatore finisce per confondere le linee narrative, ma è ben resa la paura del soldato davanti agli attacchi dal cielo e dal mare, quando a farti resistere è il puro istinto alla sopravvivenza. Belle le scene di duello aereo, condotte con grande professionalità e sicuramente più spettacolari delle claustrofobiche scene girate dentro le navi, dove troppe volte si rischia di fare la fine del topo. Eroici nella loro semplicità i cittadini britannici che per puro amor di patria misero a disposizione le loro barche e barchette, yacht compresi, per accogliere a bordo i soldati rimasti a terra. In questo modo si salvarono più di 300.000 uomini, pronti per le successive battaglie.

Un’impressione però ci è rimasta: questo film è figlio primogenito della Brexit. Anche se all’epoca gli inglesi uscirono dall’Europa perché espulsi, il messaggio profondo è: noi inglesi ce l’abbiamo fatta da soli nel 1940 e possiamo dunque farcela da soli anche ora.

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Dunkirk
di Christopher Nolan
con: Tom Hardy, Cillian Murphy, Mark Rylance, Kenneth Branagh, James D’Arcy, Harry Styles, Aneurin Barnard, Jack Lowden, Barry Keoghan, Fionn Whitehead, Charley Palmer Rothwell, Elliott Tittensor, Brian Vernel, Kevin Guthrie
USA, Gran Bretagna, Francia
2017, 106 min
Distribuzione: Warner Bros.

http://www.warnerbros.it/speciali/dunkirk/sito/

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Divieti romani

Sul lato del bancomat del mio ufficio c’è affisso un adesivo, con la seguente scritta stampata: “vietato introdurre gas”. Ma, dico io, a chi mai verrebbe in mente di introdurre gas in un bancomat? La risposta l’ho avuta da un articolo di cronaca: una banda di romeni usava “gonfiare” gli sportelli bancomat per poi farli esplodere e scappare con il malloppo. Ma a questo punto uno dovrebbe scrivere pure “vietato avvicinarsi con grimaldelli, piedi di porco e altri attrezzi atti allo scasso”. O ancora più semplicemente, meglio scrivere a chiare lettere: SETTIMO COMANDAMENTO: NON RUBARE”.

Cito questo esempio perché il burocrate tende ogni volta ad aggiungere un pezzo in più alle formulazioni semplici – basta vedere le leggi italiane, inzeppate di glosse “e successive modificazioni”, al punto di risultare se non incomprensibili, almeno di difficile interpretazione. Tutto questo ricorda un po’ le nostre mogli quando si parte in viaggio: uno ha scientificamente messo tutto il necessario in una sola borsa o zaino e loro ogni volta aggiungono un oggetto o un vestito di cui non si può assolutamente fare a meno, col risultato di andare alla stazione con borse, pacchi e altri carichi squilibrati, più naturalmente la valigia o il trolley iniziale. Oppure pensate agli aeroporti: per andare da Roma a Milano la gente ormai prende il treno pur di non farsi rompere le scatole per tutto quello che è vietato portare. E’ una lista lunga, non sempre ovvia, e ogni volta c’è un nuovo articolo passibile di sequestro: le forbicine per le unghie, o i liquidi in bottiglia, visto che corre voce che i terroristi usino esplosivi liquidi (finora non se n’è trovata neanche una goccia, ndr.). Ed è così che si perde tempo tutti, noi e loro, mentre sarebbe più ovvio controllare chi viaggia senza bagaglio o si muove in modo strano, anche se ormai bisogna dire che chi deve sorvegliare è abbastanza sveglio. Ma l’albero lo vedi solo se non cominci a contare le foglie.

 

Il castello dei servizi incrociati

L’autore vive a Roma ed è un ufficiale americano in pensione, ben noto per i suoi incarichi accademici presso università private nel campo delle scienze politiche e per gli accurati suoi studi sul terrorismo internazionale (1). Sistematico e poco ideologico, il suo stile è ben diverso da quello di tante opere italiane ideologicamente orientate ma spesso carenti nella documentazione e quindi scientificamente poco attendibili. E proprio di queste ultime parla il libro, che analizza quasi cento opere italiane che riguardano il terrorismo e la politica italiana, scritte dal 1965 a oggi. L’autore in realtà si occupa espressamente delle opere dove vengono analizzati i rapporti tra Italia e Stati Uniti, lasciando ai politici italiani il compito di fare chiarezza sui nostri servizi segreti deviati, sulle trame nere, su Gladio, sulle Brigate Rosse e via discorrendo, Il suo impegno è (testuale) “esaminare il tema dell’asserita ingerenza americana con dinamiche sovversive e terroristiche degli affari interni italiani per il tramite della NATO, dei servizi d’intelligence d’oltreoceano e di altri strumenti e collegamenti” (p.63).

Tutto comincia infatti nel 1949, quando l’Italia entra nella NATO. E qui vanno chiariti alcuni elementi storici basilari: l’ingresso nell’Alleanza Atlantica trovò nemici sia a destra che a sinistra, anche se per motivi diversi; ma fece rientrare a pieno titolo l’Italia tra i paesi europei dopo una guerra persa nel peggiore dei modi. Inoltre, il distacco di Tito dall’egemonia sovietica evitò un’altra frontiera militare col Patto di Varsavia, anche se comunque lo scontro sarebbe avvenuto nelle pianure polacche e tedesche piuttosto che a Gorizia. Infine, a differenza del Sudamerica, in Europa gli Stati Uniti hanno sempre preferito rinforzare il centro piuttosto che puntare sulla destra nazionalista (a loro ostile), tenendo anche conto che l’Italia repubblicana e democratica è stata ricostruita da partiti estranei persino all’idea di nazione – penso alla DC di De Gasperi e al PCI di Togliatti. Da approfondire casomai è il rapporto tra servizi d’informazione alleati all’interno della NATO, sicuramente squilibrato a favore degli Stati Uniti, sia perché potenza egemone, sia perché la politica estera italiana talvolta si è dimostrata relativamente indipendente da quella americana, suggerendo ai nostri alleati una certa prudenza nello scambio d’informazioni: basti pensare ai rapporti diplomatici tra Aldo Moro e i Palestinesi dell’OLP o all’equilibrismo mediterraneo di Andreotti. Dunque la corrispondenza non sempre è stata biunivoca e sarebbe anzi interessante discuterne direttamente con l’autore. Alcuni storici sono convinti, p.es., che il Patto Atlantico comprendesse anche protocolli segreti sullo scambio di informazioni tra alleati. Ma da qui affermare che i servizi segreti americani o chi per loro si sono da sempre intromessi nelle faccende italiane ce ne corre: per dimostrare una tesi occorrono infatti prove documentate, e qui entriamo nel vivo. Le opere qui analizzate una per una sono state scritte in tempi diversi da una serie di autori seri e meno seri, alcuni dei quali hanno riempito anche le cronache giudiziarie ora come terroristi o collaboratori dei servizi deviati (ma esistono forse servizi segreti normali?), militari di alto grado, millantatori, ambigui avventurieri della politica e della penna; altri sono magistrati, giornalisti, funzionari, ambasciatori come Sergio Romano e persino presidenti della Repubblica, come Francesco Cossiga. Ma anche gli editori sono i più disparati: Feltrinelli e Mondadori stanno in compagnia di strani editori e oscuri tipografi e solo aver potuto leggere tanti libri ormai introvabili è già un risultato in assoluto. L’arco di tempo copre praticamente dagli anni Cinquanta a oggi, con forti accenti su Gladio, gli Anni del Piombo, il caso Moro, mentre, finita la Guerra Fredda, sembra che l’Italia non interessi più a nessuno.

Ma torniamo al problema: chiarire se e quanto gli USA hanno interferito nella politica italiana, e non solo per evitare che i comunisti arrivassero al governo. Intanto, nel centinaio di opere che l’autore ha passato al setaccio è impressionante la quantità di inesattezze e superficialità ivi contenute. Alcuni sono strafalcioni che non farebbe neanche uno studente di scienze politiche: nomi trascritti male, comandi e reparti militari inesistenti o male identificati, gradi incompatibili con le funzioni svolte o con il periodo di servizio, poteri o deleghe impossibili da ottenere. E’ una serie di errori che dimostra da parte italiana una notevole ignoranza del funzionamento della NATO, della CIA, del Vaticano e persino delle proprie istituzioni. L’altra serie di inesattezze è piuttosto una questione di metodo: ammesso che un’informazione sia documentata, viene accostata ad altri dati – documentati o meno – per confermare la tesi del complotto di turno. Perché di complotti si parla dall’inizio alla fine, dove entrano in scena – affollatissima – la CIA, le Brigate Rosse, i NAR, la NATO, la P2, l’URSS, il SID, il SIFAR, i NAR, Gladio/Stay behind, il KGB, l’NSA, il Mossad, la Massoneria e il Vaticano, qualche volta si direbbe persino tutti insieme di concerto. Che nelle trame nostrane si siano infilati anche attori stranieri è verosimile, ma a leggere tutte le schede dei libri qui citati ne esce un delirio. C’è evidentemente nell’anima italiana il gusto per l’intrigo, come nel Rinascimento descritto da Machiavelli. Già, ma le prove? Vengono accostati continuamente elementi diversi ma le conclusioni sono deboli: si parte sempre dal teorema e le prove si cercano dopo, come in certa prassi giudiziaria nostrana. Come i pentiti di mafia, troppi testimoni non raccontano quanto hanno fatto, ma cosa hanno sentito da altri, col risultato di imbrogliare le carte già confuse in partenza, invece di far luce sugli avvenimenti con prove certe e documenti attendibili. Persino le relazioni parlamentari sono piene di verbi al condizionale, di termini come “forse”, “si suppone”, “probabilmente”, etc. E quando a scrivere in questo modo non sono solo giornalisti screditati o militanti usciti dal nulla, ma anche magistrati del calibro di Edoardo Imposimato, la cosa può anche sorprendere. Più credibile Francesco Cossiga, che perlomeno come ministro degli Interni e Presidente della Repubblica ha potuto accedere a documenti attendibili.

Ma il sottotitolo del libro recita: “disinformazione”. Si tratta di una tecnica usata da sempre dai servizi segreti o meno per screditare l’avversario, e qui l’autore lascia intendere che molte opere avevano una funzione diffamatoria. Un esempio è qui documentato: il manuale FM 30-31 B datato 1970 e concepito come strumento programmatico per interventi destabilizzanti negli affari interni di paesi dove operasse un forte partito comunista. FM sta per Field Manual, manuale da campo e non “direttiva” come è stato spesso tradotto. Aggiungo pure che, a differenza delle nostre “librette”, la serie FM è sempre stata accessibile e ora è anche sul web, altro che Top Secret!. Tornando al nostro manuale, si trattava in realtà di un apocrifo ben confezionato dal KGB, ma fu preso per buono almeno per dieci anni buoni, nonostante alcune incoerenze interne. Ma disinformazione è anche insinuare coscientemente complicità non provate, ricostruire continuamente la storia al di là di un ancor tollerabile revisionismo, con uso di metodiche espositive tendenziose. E come si fa a identificare la disinformazione? L’autore lo spiega nel paragrafo 1.4 (pagine 27-35, che dovrebbe essere preso ad esempio anche dagli archivisti.

Ma quali sono alla fine le conclusioni? Vittorfranco Pisano non ha difficoltà a dire che ogni Stato usa i propri servizi d’intelligence a proprio favore: fa parte delle prerogative delegate alla Difesa, e cita anche una serie di esempi storici recenti. Parimenti, ogni Stato cerca con la diplomazia o con mezzi economici di portare a proprio vantaggio la politica estera: fa parte del gioco politico tra nazioni. Il più delle volte queste politiche vengono espresse in modo palese e anche questo rientra nella dinamica dei rapporti internazionali. La sicurezza è una funzione primaria. Ora, è chiaro che il peso strategico degli Stati Uniti può influenzare la politica di una media potenza come l’Italia e anche condizionarne gli orientamenti politici ed economici. Come dire: gli Stati Uniti non hanno mai avuto bisogno di giocare sporco con l’Italia, visto che gli stessi risultati potevano essere ottenuti con mezzi legali. L’Italia non è mai stata una “sorvegliata speciale” o “una colonia”, come si legge in alcuni dei libri analizzati, e nella NATO ci sta dal 1949. E in ogni caso, il panorama storico e politico che quel centinaio di libri vorrebbe ricostruire è spesso basato su un castello di carte. Più che storiografia è story-telling, narrazione.

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Italia Stati Uniti. Terrorismo e disinformazione
Vittorfranco Pisano
Editore: Nuova Cultura, 2016, p. 278

Prezzo: € 25,00
EAN: 9788868127459

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Italia Stati Uniti. Terrorismo e disinformazione
Vittorfranco Pisano
Editore: Nuova Cultura, 2016, p. 278

Prezzo: € 25,00
EAN: 9788868127459

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Eroe senza armi

La battaglia di Hacksaw Ridge 53449Dare la medaglia in guerra a un obiettore di coscienza è un paradosso, eppure è successo: nel 1945 il soldato Desmond T. Doss fu decorato con la medaglia d’onore per aver salvato 75 commilitoni durante la guerra del Pacifico senza sparare un colpo. Doss proveniva infatti dalla Virginia rurale ed era devoto di una delle tante bizzarre chiese cristiane riformate americane. Figlio di un agricoltore ubriacone e manesco, rifugge dalla violenza e interpreta la Bibbia alla lettera, ma come il fratello si arruola volontario per combattere i Giapponesi, disobbedendo al padre, un veterano decorato ma rimasto traumatizzato. Ma quando in caserma si rifiuta di prendere in mano il fucile, viene naturalmente preso di punta dal sergente e dai camerati: siamo in guerra e il suo gesto viene interpretato come vigliaccheria. Deferito alla giustizia militare, riesce però a spuntarla grazie all’interessamento di un alto ufficiale amico del padre, col quale aveva combattuto in Francia nel 1918. Andrà dunque in guerra, ma come aiutante di sanità (1). Nel frattempo si era anche fidanzato con una graziosa infermiera locale.

Dopo l’amena Virginia e la dura caserma, il film si sposta dunque nell’isola di Okinawa, dove si combatte da due mesi una serie di scontri sanguinosi con un nemico asserragliato nelle sue posizioni e quanto mai determinato. I nuovi arrivati dovranno attaccare di nuovo le posizioni giapponesi, incavernate in un altopiano roccioso raggiungibile solo dopo aver scalato con le corde un costone a picco sul mare. Non è impresa facile e già un reparto è stato annientato durante il primo attacco. Non va bene neanche ai nostri, che subiscono forti perdite, si trincerano per la notte ma saranno ricacciati indietro da un contrattacco all’alba. I nostri si ritirano, ma sul campo lasciano molti morti e feriti. Sarà il nostro Doss a recuperarne quanti può, uno per uno, calandoli con le corde dal costone roccioso verso le retrovie. Deve anche far presto, perché i giapponesi rastrellano e non fanno prigionieri. Ma una voce interiore gli dice “ Signore, fammene salvare ancora un altro” e lui continua sino allo sfinimento. Nel finale del film i nostri, galvanizzati, conquisteranno finalmente le posizioni dopo durissimi combattimenti. Chiude il film una serie di brevi interviste al vero soldato Doss, al sergente e a chi l’ha conosciuto. Doss è morto pochi anni fa.

Cinematograficamente parlando, il film è molto originale, nonostante sia ormai difficile dire qualcosa di nuovo sulla guerra. Anche se le scene di caserma le abbiamo viste tante volte, l’idea di partenza è unica e dimostra la vitalità di un genere ormai gestito solo dagli americani, visti i costi di produzione. Sono ormai remoti tempi in cui il soldato morente riusciva a dire tutto prima di spirare e i commandos giravano per la giungla senza graffiarsi la divisa: in questo come in altri recenti film di guerra il realismo della battaglia raggiunge livelli impensabili finanche vent’anni fa. Quello che in questo film poi sorprende non è solo la violenza dello scontro, ma il terreno: senza conoscere Okinawa, sembra di stare piuttosto dentro la prima Guerra Mondiale: attacchi a bunker e trincee, combattimenti corpo a corpo, contrattacchi feroci, fragore e confusione ovunque. I Giapponesi non arretrano di un passo e la loro sorte è segnata, ma la vittoria ha un duro prezzo. Furono proprio i combattimenti così sanguinosi ad accelerare la costruzione e il lancio della bomba atomica sul Giappone.

  • Nella versione italiana, erroneamente definito “medico”. Altra perla del doppiaggio, il solito “Esci fuori dalla mia vista!” ( = get off my sight). Ma è davvero tanto difficile dire “Soldato, levati dalle palle” ?******************************

    La battaglia di Hacksaw Ridge coverlg_homeLa battaglia di Hacksaw Ridge
    (Hacksaw Ridge)
    Anno     2016
    Durata     139 min
    Colore     colore
    Regia     Mel Gibson
    Sceneggiatura     Andrew Knight, Robert Schenkkan
    Distribuzione (Italia)     Eagle Pictures
    Fotografia     Simon Duggan
    Montaggio     John Gilbert
    Musiche     Rupert Gregson-Williams
    Scenografia     Barry Robison

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