Parlando con una guida turistica mia amica, il discorso è caduto sul Museo civico archeologico di Velletri. “Dottore, guardi che quel museo non se lo vedrà mai nessuno”. Incuriosito, le ho chiesto il motivo. “Semplice: non permettono di fare le foto”. Al che mi ha spiegato la sua teoria: più la gente può riprendere immagini, più queste saranno proiettate e riproposte nei vari siti e nei social network e quindi produrranno un effetto di moltiplicazione sulla popolarità e dunque sulla promozione del luogo fisico.
Il discorso non fa una piega, e bene lo ha capito il Metropolitan Museum di New York che permette lo scarico e la circolazione gratuita di 400.000 immagini prodotte dal museo. Ma io aggiungo: la singola persona aumenta il proprio prestigio personale con un monumento o un’opera d’arte per sfondo.
Parafrasando il noto saggio di Walter Benjamin (l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica), potremmo andare oltre e parlare oggi di riproducibilità tecnica *dell’immagine* dell’opera d’arte, ridotta spesso a supporto feticistico per il proprio esibizionismo. Sport di massa: se una volta educatamente mi fermavo vedendo un turista che fotografava un monumento o sua moglie in posa , oggi gli traverso la strada.
Vista la massa di gente che fotografa tutto, a far come mi ha insegnato mio padre resterei sempre fermo per strada. So benissimo di essere finito in almeno cinquecento album di turisti giapponesi e mi sono riconosciuto in una foto di Google Street View ripresa davanti al negozio di famiglia, lo stesso dove i turisti fotografavano mio padre come elemento caratteristico.
Non mi sorprenderei di rivedere un giorno la sua immagine su National Geographic. Perché in fondo la filosofia è una sola: la mia immagine è pubblica, quindi esisto. Forse questa tendenza era latente nella società, ma ora sicuramente il basso costo della riproduzione digitale e la facilità d’uso dei nuovi dispositivi hanno azzerato l’esigenza di competenze tecniche richieste dalle macchine fotografiche e dalle cineprese ancora in uso pochi anni fa. In più, la rete e i social netto hanno fatto il resto, col risultato di scatenare l’esibizionismo, la curiosità e la volontà di comunicare agli altri le proprie esperienze ed emozioni. Che poi ci sia più quantità che qualità è ovvio, ma è il principio quello che conta. Possiamo al massimo deplorare l’ossessione per la propria immagine, inizialmente adolescenziale, ora comune, al punto che il termine *selfie* è passato da poco alla lingua corrente.
Quello che sfugge a molti è poi il pericolo di effetti collaterali. A parte le ragazzine che si mettono nei guai diffondendo le loro foto private, ci sono teppisti che postano su Youtube le loro prodezze senza rendersi conto di denunciarsi da soli. Frequenti poi su facebook scene di sbornia (al nord) o saluti fascisti (da noi) che non aiuteranno quei giovani a trovar lavoro. E visto che questo esibizionismo ha contagiato tutto il mondo, sorprende la disinvoltura con cui nei filmati addestrativi dei miliziani islamisti e ucraini si vedono dettagli che potrebbero favorire l’identificazione del luogo e quindi attirare la reazione nemica.
In un video girato a Mosul si vedono benissimo sullo sfondo un ponte con una campata lunga quasi un chilometro e, più a destra, un edificio grosso quanto un ministero. Per un ufficiale osservatore di artiglieria tutto questo è un regalo. Nel filmato ucraino i miliziani sono invece accampati in un campeggio estivo lungo un fiume, con tanto di bungalow e parco giochi. Anche qui un esperto può identificare il sito e agire. Ma per finire, mi piace ricordare che qualche mese fa un fotografo di un quotidiano è stato multato per aver fotografato i binari di una stazione italiana. A norma di un regio decreto del 1940, tuttora in vigore, per motivi di sicurezza è severamente proibito fotografare gli impianti ferroviari italiani.
Inutile dire che quel decreto aveva ragion d’essere in tempo di guerra, eppure a nessun parlamentare è ancora venuto in mente di abrogarlo.