Sono bastati una decina d’anni per dissolvere la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia che per una trentina d’anni Tito, con pugno di ferro e una politica sociale, era riuscito a tenere unità nella sua differenza culturale e religiosa, ma con la sua morte, nel 1980, hanno prevalso le diffidenze che si sono trasformate presto in acredine e poi con l’astio che raggiunge l’odio.
Tanti figli adottivi che vedono, con la morte del loro “padre” Tito, finire uno stato che garantiva a tutti un’istruzione e uno stato sociale. La paura di perdere delle garanzie che vennero poi amplificate dalla guerra intestina per la successione, trasformandosi in affermazioni personali con l’inneggiare alla separazione da Belgrado.
Fù un paternalistico ferreo pugno del socialismo “reale” ad aver tenuto coesi differenti popoli per la religione e la cultura di riferimento che componevano il mosaico jugoslavo di allora ed ora, a più di vent’anni dalle Guerre Balcaniche, potrebbe essere il Capitalismo ha mettere in secondo piano i privati convincimenti per poter ampliare le prospettive lavorative.
L’astio per un’identità persa con la scomparsa della Jugoslavia ha portato a confondere la religione professata con un’etnia di appartenenza essendo in gran parte legati al ceppo slavo.
Niente più istruzione garantita, lo stato sociale dissolto, la pensione inconsistente, il lavoro di prestigio sempre pertinenza del gruppo sociale dominante nell’area.
È difficile pensare che il Maresciallo Tito potesse immaginare che la sua scomparsa innescasse una reazione a catena, popolazioni invogliate lasciare le loro case per rendere “culturalmente” omogenee le città e le campagne, per evitare una presenza a macchia di leopardo in zone croate, bosniache e kosovare.
La Slovenia si è tenuta lontana dai conflitti, la Serbia ha subito i bombardamenti della Nato, la Macedonia è in cerca di un futuro e il Montenegro cerca di uscire una reputazione di stato malavitoso al pari del Kosovo per il contrabbando e il traffico di stupefacenti, armi e quant’altro.
Un conflitto di stragi e distruzioni culturali, di eccidi e fosse comuni, di monasteri ortodossi, chiese cattoliche e mosche fatte saltare come il ponte di Mostar o l’annientamento della Biblioteca nazionale di Sarajevo che solo nel 2014 si potrà scoprire, con il completamento del recupero, a cosa sarà destinato l’edificio austro moresco che ha perso milioni di libri.
È la nostalgia di quell’epoca dove lo Stato pensava a tutto, anche alla Libertà, e l’invenzione della Jugoslavia come uno stato federale che appariva come una unica comunità, che a Lubiana si propone una mostra, visitabile sino al 28 febbraio 2014, Tito: il volto della Jugoslavia , con oggetti provenienti dal Museo della Storia della Jugoslavia di Belgrado. Una storia che nel Terzo millennio si mostra in equilibrio tra marchio commerciale o icona politica nel rileggere la figura di Tito.
Una memoria che non resta affidata solo alle testimonianze esposte nella mostra o custodite al Museo della Storia della Jugoslavia di Belgrado, ma anche per le strade di Sarajevo con il Bar Mi smo Titovi Tito je nas (Noi siamo Tito, Tito è noi). Il bar, vicino al Museo storico di Sarajevo, rappresenta un Memoriale e un monito con le numerose immagini e busti dedicati a Tito che arredano l’interno, mentre all’esterno armamentari bellici fanno scenografia ai tavolini degli avventori e su tutto regnano le varie tonalità di rosso.
Sarajevo è sicuramente il simbolo della città martire, con l’assedio subito per 43 mesi e il viale dei cecchini, come Sebrenica lo è per uno degli eccidi dei Balcani.
Dalle macerie di una Bosnia, governata da una forma di triunvirato, la speranza di una ritrovata unità d’intenti, superando momentaneamente ogni divisione religiosa germoglia dalla favola dell’ottenuta la qualificazione ai Mondiale di Calcio 2014 in Brasile.
Un’unità d’intenti che la squadra ha dimostrato di poter perseguire, superamento le diffidenze religiose, sperando nell’archiviazione dei treni come quello che collega Sarajevo a Belgrado, con i suoi tre comparti per la separazione confessionale, nonostante sia fondamentalmente lo stesso Dio.