Serpeggia da anni il pensiero che ricollega la crisi dei beni culturali alla Legge detta di Ronchey, ma è ingiusto addossare tutta la responsabilità ad un solo uomo. Tanti sono i pregi di quella Legge, prima fra tutti di aver obbligato i musei a spolverare le loro collezioni, ma la sua applicazione ha permesso agli oscuri burocrati di dare il loro peggio estremizzando ogni visione privatista e autosufficiente del sistema museale.
Affidare alcuni servizi alla gestione privata può essere stato un incentivo per il pubblico, ma sicuramente è incomprensibile assegnare al privato l’organizzazione della Didattica. Un servizio quello della Didattica che non può essere un ambito dove si può confondere l’utente con il cliente. E proprio questa osmosi tra utente in cliente che è il vero nocciolo del cambiamento dei Beni Culturali da strumento di istruzione e conoscenza a giacimento culturali, al pari di una riserva di idrocarburi. Una visione stimolata dalla prorompenza “socialista” dell’era craxiana.
Da utenti a clienti è la vera questione dello svilimento della missione che a suo tempo era nel pensiero di Giovanni Spadolini quando “estrasse” dal Ministero della pubblica Istruzione oltre che le funzioni del Ministero degli Interni e della Presidenza del Consiglio dei Ministri gran parte delle competenze per la tutela dei Beni Culturali, intesi come musei, monumenti e ambiente, oltre che delle biblioteche e degli archivi.
Era la fine di gennaio 1975 e neanche vent’anni dopo Alberto Ronchey riesce a far approvare la Legge che porta il suo nome, aprendo a deviazioni liberaliste del patrimonio culturale, non solo aprendo all’iniziativa privata e al merchandising a tutti i costi, ma spalancando le porte all’idea di una cultura che possa produrre ricchezza per chi v’investe e non per chi ne dovrebbe usufruire.
Si è svecchiato il modo di gestire il patrimonio, ma non si è ritenuto importante riconoscere a tale patrimonio il ruolo educativo e di crescita. Un ruolo che i musei e le biblioteche dovrebbero svolgere per far conoscere a ogni cittadino la storia italiana.
I musei e le biblioteche non potranno mai autofinanziarsi, non vi riescono gli americani, ma possono creare ricchezza nel territorio. La soluzione non è nel manifesto lanciato nel 2012 dal Sole 24 Ore domenicale per una Costituente della cultura. La cultura non è un deodorante.
Il recente rapporto dell’EuroStat relega l’Italia nelle ultime posizioni in Europa per spesa pubblica dedicata alla scuola e alla cultura, ben lontana dal primo posto dell’Estonia che non ha come l’Italia oltre il 40% del patrimonio mondiale.
Forse il problema è che l’Italia continua ad avere troppo patrimonio, nonostante i crolli e il degrado nel quale versano. Dovrebbe avere meno per potersene prendere cura.
Un’analisi critica delle politiche culturali dell’Italia viene proposta da Tomaso Montanari nel suo recente libro Le pietre e il popolo (Minimum Fax), politiche basate su grandi eventi che poco hanno a che fare con un museo o un’area archeologica, trasformandoli in luna park o vetrine di moda solo per racimolare qualche euro per il restauro di un’opera o provvedere alla riparazione del soffitto.
Scelte che fanno transitare ancora di più il cittadino dall’essere utente a consumatore, non partecipi ma passivi alla vita culturale.
Il libro non è solo una critica contro la retorica del Bello che copre lo sfruttamento delle città d’arte, ma è un manuale di resistenza capace di ricordarci che la funzione civile del patrimonio storico e artistico è uno dei principi fondanti della nostra democrazia, e che l’Italia può risorgere solo se si pensa come a una “Repubblica basata sul lavoro e sulla conoscenza”.
Sul quotidiano La Stampa del 6 aprile 2013 un’inchiesta sui beni culturali, Bellezza, sprechi e scempi dei dodici gioielli d’Italia, tende a un certo ottimismo basato sul nostro patrimonio più conosciuto del centro-nord, tranne per un salto a Pompei e alla Reggia di Caserta che non sprizzano di salute, ma senza far menzione di Venezia o Bologna, come si ignora Napoli e Palermo.
Dodici musei e siti più visitati corredati da una scheda dei servizi e dove vi sono delle mancanze è il personale a sopperire con la loro disponibilità.
Luoghi di cultura con una missione, tra paradossi e occasioni perse, che difficilmente possono svolgere se l’ingresso è permesso solo attraverso i contanti, vedendo i visitatori come clienti e non utenti.
Realtà gestite con regole codificate e con la volontà di farle rispettare, senza tollerare i truffatori.
Lontano da ogni ottimismo è invece l’articolo Tutti i musei pubblici d’Italia guadagnano meno del Louvre di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera di cinque giorni dopo.
Anche da oltreoceano, e non è la prima volta, giungono critiche sulla cattiva gestione del patrimonio, coma ad esempio quello di Pompei con l’articolo The Latest Threat to Pompeii’s Treasures: Italy’s Red Tape, corredato dal video, del New York Times del 20 aprile. Un Tesoro, quello di Pompei che sta cadendo in disgrazia, minacciato dalla burocrazia italiana, dopo essere sopravvissuto alla distruzione del Vesuvio, agli scavi, per non dimenticare i traffici camorristici, e sopportato stoicamente i milioni di turisti.
Contemporaneamente il quotidiano britannico The Independent si domanda se la camorra sia la causa di tutti i problemi e crolli di Pompei o molto è dovuto all’insufficiente manutenzione. Una negligenza simile che accomuna Pompei ad altri monumenti come il crollo che ha coinvolto la Domus Aurea nel 2010.
La ricchezza dell’Italia non è solo Pompei che crolla o il Colosseo assediato dagli ambulanti, ma Selinunte o Alba Fucens, Sibari reduce da un allagamento o San Vincenzo al Volturno sulla via della transumanza, Buccino in Volcei o Aquileia, Pitinum Pisaurense o San Galgano
A cosa può servire in questa situazione svolgere il Forum Universale delle Culture a Napoli, sul quale peraltro i tagli sono calati come una mannaia?
Fortunatamente il fine settimana di metà aprile ha rivitalizzato il panorama culturale da due assemblee sul patrimonio comune come quella tenutasi a Roma presso il Teatro Valle Occupato per la Costituente beni comuni e il patrimonio culturale è un bene comune come l’acqua e l’aria, trovando giuristi e realtà sociali riunite per discuterne.
Mentre il dopo il voto e costruzione dell’alternativa economica è l’argomento a Firenze dell’assemblea che l’incompiuto soggetto politico denominato Alba (Alleanza per i beni comuni) ha riunito intellettuali tuttologhi e specialisti in vari campi, ma anche sindacalisti e politici, riafferma la sua esistenza con l’analisi sul risultato elettorale e sul governo Monti.