Nei primi anni ’70 Alberto Sordi dava vita, con amarezza, al personaggio di un mercante d’armi in crisi esistenziale per quello che faceva. Un film che sintetizzava l’adagio Mors tua vita mea, con la distruzione di un’Africa dilaniata da conflitti regionali come terreno di confronto tra l’allora Comunismo e Capitalismo e dove piccoli e grandi spacciatori d’armi avevano il loro tornaconto.
A quarant’anni di distanza dal film Papa Francesco bolla quei mercanti come “pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi” che “hanno scritto nel cuore: A me che importa?”.
Una condanna gridata dal Sacrario di Redipuglia, traslitterazione dallo sloveno di “sredij polije”” (terra di mezzo), dove riposano decine di migliaia di militari della Prima guerra mondiale.
Sono gli “affaristi della guerra” che basano la loro filosofia di vita sul profitto dovuto prima alla vendita di strumenti di morte e distruzione e poi nell’offrire l’occasione di fare affari per la ricostruzione.
Cosa c’è di più capitalistico nel rendere obsoleti armi e munizioni di qualche anno e inabitabili interi quartieri e città dopo essere stati investiti da bombe e razzi, per poi ridar “vita” ad un’economia stagnante con la ricostruzione?
Sino a quando il “benessere” si basa sul consumismo – il distruggere per ricostruire ne è il nodo fondamentale – sarà difficile che la maggioranza delle persone possano essere interessate al destino dei loro simili in aree di conflitto.
Non sono bastate due Guerre Mondiali con decine di milioni di morti e di stermini, perché qualcuno riteneva qualcun altro diverso da lui e per imporre una visione della società a chi non la condivide, per poter fermare i sobillatori di conflitti e gli spacciatori di morte.
Quando il biblico “A me che importa?” potrà avere un significato per la maggior parte della popolazione che non si interessa del fatto che “La guerra non guarda in faccia a nessuno: vecchi, bambini, mamme, papà…” sino a quando non saranno loro le vittime degli altrui interessi?
Nella Striscia di Gaza ci vorranno, secondo le organizzazioni non governative Oxfam http://www.oxfamitalia.org/ e la norvegese Shelter Cluster affiliate alle Nazioni Unite, 20 anni per la ricostruzione di 17 mila unità abitative, tra edifici danneggiati o distrutti, e non meno di 4 milioni di euro, oltre agli edifici pubblici come scuole e ospedali.
Con i 2143 morti, in gran parte civili e bambini, in 50 giorni di reciproci attacchi è Gaza ad aver subito un ennesimo colpo al fragile tessuto sociale e all’economia, mentre a fare affari sono stati i trafficanti di armi prima e poi, appena Israele autorizzerà l’apertura dei varchi, gli imprenditori edili di qualsiasi nazionalità. È uno strano modo per rendere omaggio al 2014 come Anno Internazionale di Solidarietà con il popolo Palestinese.
Ora che tra il governo israeliano e Hamas si è raggiunta una tregua che sembra reggere, a chi può importare di consolidarla per dare un futuro alle popolazioni di una terra martoriata?
È faticoso e difficile a dare un volto ad ognuna delle migliaia di vittime del Medio Oriente come di altre aree di conflitto. Le persone diventano, superato il numero di cinque forse anche dieci vittime, solo un numero tra tanti, senza nome ne volto.
È più facile che l’attenzione empatica si focalizzi su di un volto e un nome, mentre un’umanità seppellita dalle bombe, trafitta da proiettili o sgozzata da algide mani ispirate dalla missione salvifica di sterminare chi ha altri comportamenti, è una moltitudine che rientra nella quotidianità degli eventi.
Cosa c’è di più tenero di un musetto d’orso reso orfano da un eccesso di zelo per sollevare l’indignazione di una folla piena di compassione per un batuffolo di pelo?
A chi importa di un mendicante quando sono sempre più numerosi gli indigenti che s’incontrano per le strade, se si evita di incrociare il loro sguardo?
Gli organi d’informazione possono veicolare l’attenzione su di una tragedia che coinvolga pochi personaggi, ma riesce a banalizzare le stragi quando diventano quotidianità.
In un mondo proteso alla separazione più che alla condivisione è palese il trionfo dell’individualismo che porta a suggellare la frase “A me che importa?” sulla lapide dell’indifferenza colpevole di Caino nei confronti di Abele.