Chiedersi se la vicenda che ha portato all’assassinio di Giulio Regeni sia un caso criminale, politico o un intrigo internazionale può essere plausibile, ma limitante e forse superfluo. I valenti procuratori italiani (Pignatone e Colacicco) che da mesi indagano, per nulla aiutati dalla sponda egiziana e da quella britannica, sanno perfettamente svolgere il proprio mestiere e, ci auguriamo, potranno sciogliere nodi giudiziari della questione. Che però, come dimostrano le varie tappe sviluppatesi nei ventuno mesi successivi al fatidico 25 gennaio 2016, ha valenze geopolitiche non secondarie, con tutti gli interessi, gli intrecci e gli intrighi che questa branca si trascina dietro. E non da oggi. Da osservatori delle questioni di quel Paese sin dalla crisi del regime di Mubarak, alla rivolta di Tahrir e oltre, abbiamo toccato con mano come il susseguirsi di accadimenti vede all’opera soggetti interni (strati della popolazione, partiti e movimenti politici e sindacali, attivisti d’opposizione e di regime, Forze Armate, polizie e mukhabarat) ed esterni (media internazionali, giornalisti, ricercatori, intellettuali, Intelligence e politici stranieri). Un aspetto non nuovo, che ha avuto un crescendo nei quasi settant’anni dalla nascita dell’Egitto moderno.
L’omicidio Regeni coinvolge il nostro impegno d’informazione, oltreché la coscienza civile che ci appartiene ben oltre l’identità nazionale e lo sguardo rivolto anche ai palazzi della politica nostrana ha già evidenziato i comportamenti governativi (prima con Renzi, ora con Gentiloni) nell’agire con uno squilibrato bilancino dell’opportunità economica e geostrategica. Da qui: l’iniziale voce indignata verso il Cairo, il segnale del ritiro dell’ambasciatore Massari e l’acquietamento col rinvio dell’ambasciatore Cantini. Tutt’attorno interessi economici su commesse e partenariati di varia natura (forniture di armi, sfruttamento di giacimenti di gas, lancio e rilancio dell’affarismo turistico), con l’aggiunta di attuazioni di piani di sicurezza internazionale su scenari di conflitto, riguardanti anche il jihadismo dell’Isis, e l’annosa questione del traffico di profughi e migranti. Connessione diretta con la vita e la morte dello studioso friulano? Non del tutto, ma il palcoscenico egiziano degli ultimi anni offre una buona quantità di addentellati. Perché Giulio osservava e studiava aspetti della società su cui poggia, come su altri scenari, l’attenzione dell’establishment di quel Paese. E chi ha toccato, anche solo come narratore, la realtà di questi anni ha ricevuto e riceve dalle forze della sicurezza un trattamento draconiano.
I giornalisti di Al Jazeera Greste, Fahmy, Mohamed, fino all’attuale tuttora in galera Mahmoud Hussein, ne sono un esempio. Certo, trattati con autoritarismo brutale non giunto sino alla tortura e all’uccisione, che invece, ben prima di Giulio ha stroncato l’esistenza di oppositori, attivisti e blogger, egualmente rapiti, spariti e non più ritrovati. La sequela di atrocità rivolte all’apolitico Khaled Saeed, mese dopo mese, anno dopo anno, s’è abbattuta sul copto Mina Daniel e sullo sheik Emad Effat sino a stroncare la laica Shaima Al-Sabbagh, tutte vittime di quella repressione di strada che ha affiancato e preparato il sistema dell’omicidio di Stato più o meno occulto. Fra i primi ottocento morti della rivolta di Tahrir e lo strazio di Regeni, si contano – da qualche mese lo dicono in tanti, eppure se si torna al biennio 2011-2012 l’informazione mainstream raccontava altro – migliaia di vittime e di sparizioni, decine di migliaia di arresti, in gran parte immotivati. O motivati solo dall’essere oppositori, prima di Mubarak poi di Suleiman e del Consiglio Supremo delle Forze Armate, quindi del nuovo restauratore, il generale Al-Sisi, dipinto da liberali e dalla stessa sinistra egiziana come il liberatore dallo spettro della Fratellanza Musulmana.
Oggi, sulle pagine de la Repubblica, gli ottimi Bonini e Foschini, evidenziano i contorni omertosi della tutor di Regeni presso l’Università di Cambridge: Maha Mahfouz Adbel Raham. La docente che indirizzò il dottorando friulano verso la ricerca sul sindacalismo indipendente degli ambulanti (nel cui ambiente il giovane incrociò l’informatore della polizia che lo denunciò). Secondo i sospetti dello stesso Regeni la donna sarebbe stata un’attivista e nei contatti cairoti lo avrebbe indirizzato verso un’altra attivista (la professoressa dell’American University Rabab Al Mahdi) ben nota alla polizia locale. Da quest’ottica, pur confidando in un cambio di posizione della tutor anglo-egiziana che potrebbe offrire un contributo ai nostri magistrati, il mistero sulla morte di Regeni non muta. Anzi, viene a confermare quel che da tempo è evidente nei comportamenti di Al Sisi e dei collaboratori di governo, il ministro dell’Interno Ghaffar su tutti: mettere attivisti, ricercatori, giornalisti nella condizione di non nuocere, con ogni mezzo. Crediamo all’affermazione dei genitori di Giulio che lui fosse animato dal solo desiderio di studio. Bisognerà scoprire se gli intenti di Maha Mahfouz Adbel Raham si fermassero lì. Indubbiamente nella fobìa di regime questo poteva già bastare per stroncare ricerca e ricercatore.
In tal senso Giulio diventa doppiamente vittima, dei suoi aguzzini e di chi voleva trarne vantaggio, utilizzando la ricerca sul minatissimo campo diretto, per altri fini. Questa è comunque un’ipotesi, che fra l’altro ha bisogno di un riscontro di una sua vera utilità sulla politica egiziana. Chi vive in loco, e prova ad agire politicamente, conosce benissimo la realtà e ben pochi vantaggi può trarre da una simile indagine. Utile, invece, a una lettura dall’esterno dell’attuale fase. Nel controverso rapporto di ricerca-studio-lavoro che Regeni ha avuto in terra britannica c’è anche l’ormai nota collaborazione di circa un anno (fra il 2013 e il 2014) con Oxford Analytica, una delle strutture di consulenza geostrategica mondiale. Organismo che sta nelle attenzioni dell’MI6 britannica, che in non pochi casi ha visto l’Intelligence scegliere dalle file dei ricercatori elementi a lei utili. E’ l’antefatto, indicato da alcuni cronisti anche italiani, d’un Regeni collaboratore dei Servizi, che tanto ha fatto arrabbiare i familiari dello scomparso. Se gli interessi di Giulio sono quelli ricordati dalla madre Paola, potrebbe anche qui risultare aggirato contro la sua volontà. E il suo distacco da quella collaborazione potrebbe essere scaturito dal rifiuto di prestarsi a simili scopi.
Come per il caso della tutor, potrebbe essere Graham Hutching, uomo più in vista della Oxford Analytica, a offrire agli inquirenti notizie. Sebbene si sa che se si lavora per taluni organismi difficilmente si è disposti a svelarne piani e progetti. Eppure fra triangoli e misteri, nel martirio dello studioso di Fiumicello, resta una certezza finora non indagata: la responsabilità dei vertici politici, prima che polizieschi, del Cairo. Partire da lì o all’inverso arrivarci sarebbe la giusta strada per la “verità per Giulio” e per la sua “giustizia” che incredibilmente gli attuali cartelli di Amnesty International sembrano aver archiviato.
Pubblicato giovedì 2 novembre 2017
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