I recenti avvenimenti turchi stanno avallando i dubbi avanzati da alcuni osservatori sulla democrazia d’impronta islamica perpetrata dal governo di Recep Tayyip Erdoğan all’indomani delle elezioni del 2002.
Erdoğan ha silenziosamente guidato la Turchia verso un’islamizzazione strisciante, limitando la laicità promossa da Moustafah Kemal Ataturk nel fondare la Turchia moderna e per una democrazia autoritaria. Una visione personalistica della democrazia molto simile a quella di Putin con l’addomesticamento della Turchia con ogni mezzo compreso l’arresto in massa di chi manifesta e di chi li difende davanti alla Legge.
Un indirizzo che non era evidente per tutti, ma le restrizioni sulla vendita degli alcolici o l’incoraggiare l’uso del velo in ogni luogo hanno ampliato lo scontento che la cementificazione di uno spazio verde di Istanbul non ha fatto che dare il segno a una protesta diffusa.
A far scendere per le strade la protesta è stata anche la scelta del governo di continuare a cementificare Istanbul con un nuovo centro commerciale, cancellando Gezi Park, uno degli ultimi luoghi verdi della città, per un progresso forzato da perseguire attraverso la strana idea occidentale che può essere realizzata con l’edificazione forzennata.
Alle porte di Istanbul la modernizzazione ha le fattezze del Teknopark, un complesso stile Silicon Valley che dal prossimo agosto, dopo oltre vent’anni d’intenzioni e lavori, ospiterà un migliaio di aziende di tecnologia avanzata.
Sembra indicato, nel caso di Gezi Park, citare il primo verso della canzone di Joni Mitchell, Big yellow taxi, (Ladies of the Canyon, 1970), anche se la folk singer si riferiva ad una cementificazione alle Hawaii “Hanno pavimentato il paradiso / e ci hanno messo su un parcheggio / con un hotel rosa, una boutique / ed un riflettore che ondeggia. […]”
La rabbia turca ormai non è solo ambientalista, ma soprattutto contro un governo che vuol sorvegliare troppo da vicino il comportamento dei singoli mettendo in discussione l’identità turca che non può essere quella araba.
La minaccia di abbattere 600 alberi è riuscita a coagulare le anime più diverse per gridare all’unisono lo scontento accumulato in anni di svolta autoritaria del governo Erdoğan che potrebbe coincidere con la crisi diplomatica con Israele e il voler assurgere a ruolo di tutore della riscossa del mondo islamico. Un’ambizione stimolata dalla nostalgia di un impero e dei suoi pascià che il progetto del complesso commerciale, con annessa ricostruzione di una caserma ottomana e una moschea, rendono Erdoğan un euroscettico per le continue richieste dell’Ue di europeizzare la Turchia e affiliarla all’Europa o la riluttanza di alcuni paesi della comunità di accettare nel proprio club uno stato islamico.
Una nostalgia per un’epoca che non era proprio di grande esempio per un musulmano con l’opulenza e le numerose deroghe alle regole all’Islam.
È più probabile che il governo Erdoğan non abbia mai avuto l’intenzione di dare seguito alla richiesta della maggioranza che lo aveva preceduto nell’aderire al Ue, ma preferire degli interlocutori commerciali più autoritari come la Cina e la Russia.
Il premier Recep Tayyip Erdoğan al suo terzo mandato, con il 52% di preferenza ben lontano dai risultati plebiscitari del 2002, ha ritenuto doveroso presentarsi poco dialogante, contraddicendo il suo schierarsi con le “Primavere” arabe e rivelandosi incapace di ascoltare le istanze dei suoi connazionali.
Una posizione muscolare quella di Erdoğan che ha sfoggiato nel gridare contro i social media e accusando la protesta di piazza di infiltrazioni straniere non ben identificate nelle proteste calandosi nella paranoia di un governante in cerca di nemici esterni per coagulare su di se il consenso, potendo contare sui suoi fan coattivi di 2.041.503 “Mi Piace” su Facebook e 2.823.762 Follower su Twitter.
Il porsi come un primo ministro autoritario gli permette di creare degli interlocutori come i capi della protesta e pensare a una consultazione referendaria sulla quale ci dovrà essere il futuro del Parco, ma gli permette anche di trovare nuove forme di censura come quella di multare le televisioni che trasmettono immagini della protesta ritenendo antieducativi i filmati.
Tutto questo mentre il movimento di protesta elegge Bella Ciao a sua colonna sonora e la ragazza in rosso che sfida il getto di gas lacrimogeni e degli idranti come suo simbolo.
Una posizione intransigente quella del primo ministro Erdoğan criticata anche dal presidente Abdullah Gül, anche lui islamico, portando in superficie i pacati contrasti tra le due alte cariche turche, marcando i contrasti all’interno della stessa compagine governativa e ponendo gli scontri non tanto tra islamismo e laicità, ma piuttosto tra una parte dello Stato e la maggioranza dei cittadini.
Erdoğan non ha alcuna intenzione di cedere alle proteste di piazza e vuol proseguire nei suoi progetti e appuntamenti come Giochi del Mediterraneo 2013 a Mersin o farsi intimidire dalle minacce di sospendere i negoziati di adesione della Turchia all’Ue.
Nessun rimprovero europeo o statunitense, sul comportamento dalla polizia nel contrapporsi alle proteste, fa recedere Erdoğan dalle sue posizioni e i 600 alberi che potrebbero diventare la fine di una democrazia autoritaria come la foresta lo fu per lo shakespeariano Macbeth.