Abbiamo vissuto nel nostro Paese, in questi ultimi 3 anni, repentine trasformazioni della situazione politica: dalla caduta del governo Berlusconi alla ascesa e poi caduta del governo “tecnico” di Mario Monti, dall’inaugurazione della politica delle “larghe intese” PD-PDL (con Enrico Letta alla Presidenza del Consiglio) fino al “blitz” del “rottamatore” Renzi, con annesso plebiscito elettorale nel maggio scorso. Tre anni convulsi ed intensi, vissuti fra bonapartismi e tecnocrazia, che stanno mettendo a nudo le precarie condizioni di salute della democrazia italiana. Proprio di queste ultime si occupa Michele Ciliberto nel suo saggio La democrazia dispotica, edito da Laterza nel 2011.
L’autore muove dalla crisi costituzionale della Repubblica: il periodo è quello della crisi del governo Berlusconi, che poi avrebbe portato alla nascita del governo “tecnico” guidato da Mario Monti. Ciliberto, lungi dal relegare il berlusconismo a fenomeno “provinciale” della politica, ritiene che l’ultimo ventennio non solo si inscriva in un contesto più ampio di crisi del sistema democratico italiano, ma che possegga delle peculiarità e caratteristiche “nuove”, tipiche di quella che viene definita la politica “post-novecentesca”. Nel cercare di individuare questi elementi di novità – e di formulare proposte di via d’uscita dall’attuale stato di crisi della democrazia – l’autore inizia col chiedere aiuto ai “classici” del pensiero politico contemporaneo.
Perché, al contrario di certe frenesie “rottamatrici” contemporanee e nonostante l’ultima moda di tacciare di “gufismo” gli intellettuali critici col nuovo corso renziano, proprio i classici – e solo essi – sporgono oltre il loro tempo storico, acquisendo un valore universale. Fondamentale quindi servirsi delle loro riflessioni, ma facendo attenzione a non leggerli facendo inutili forzature o stabilendo astratte corrispondenze fra i contesti in cui essi hanno scritto e la nostra situazione contemporanea.
Cosa c’è allora di ancora utile nel pensiero dei classici? Ciliberto prova ad elencare alcune idee, e lo fa partendo da Alexis de Tocqueville, che, nel saggio La democrazia in America, vede nell’affermazione della democrazia anche la tendenza degli uomini a chiudersi nella propria dimensione individuale e utilitaristica, delegando al potere esecutivo la funzione di guida degli affari generali, della cosa pubblica. In questo modo essi sono “cittadini” solo quando, periodicamente, si recano alle urne per le elezioni, ma prima e dopo essi sono “individui”, totalmente alieni alla politica. Ed è in questa dinamica che si cela il rischio del dispotismo, basato sul consenso, frutto avvelenato dello stesso sviluppo della democrazia, incentrato sulla progressiva riduzione della politica ad amministrazione e sulla distruzione dei poteri “secondari” (come quello giudiziario), basato sulla disintegrazione del “libero arbitrio” e sulla riduzione dell’autonomia del cittadino, ridotto a servo passivo del potere. Alla crisi dei legami sociali, all’affermazione dell’egoismo utilitaristico ed alla conseguente affermazione del dispotismo democratico come risposta, Tocqueville propone di reagire potenziando le forme della partecipazione attraverso un sistema articolato di associazioni che salvaguardi e valorizzi i diritti nei quali affonda il principio di libertà civile e politica.
Karl Marx, (di cui Ciliberto prende in esame fondamentalmente due testi: la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico e la Questione ebraica), pur dando un giudizio diametralmente opposto a quello di Tocqueville sulla democrazia (per lui essa è la vera costituzione del popolo, perfettamente adeguata ai suoi bisogni ed alla sua vita), ne condivide invece l’interpretazione della crisi moderna come rottura dei “legami” sociali. Per Marx, l’uguaglianza politica propagandata dallo Stato moderno nasconde, in realtà, le profonde disuguaglianze sociali esistenti in realtà. Per risolvere questa contraddizione, è necessario superare le diseguaglianze umane, individuando il luogo dove ciò possa avvenire (per Marx, questo luogo sarà prima l’uomo “generico” di Feuerbach, poi i rapporti sociali di produzione capitalistici). Allo stesso tempo, egli fa una forte apologia della democrazia diretta e un’esaltazione delle elezioni come strumento per uscire dalla crisi del mondo moderno-borghese e realizzare la vera emancipazione umana lungo una prospettiva ultrapolitica e ultrastatuale (piena autogestione, estinzione dello Stato, quanto meno per come lo conosciamo noi). La democrazia concepita come dimensione sostanziale della società (e non più come “astrazione”), cancella la contrapposizione fra Stato e società civile, perché essa è il terreno in cui il popolo si autodetermina. A Marx interessa, quindi, rovesciare i termini del rapporto fra politica e uomo, individuando nel secondo il soggetto reale che crea la “costituzione”.
Ciliberto annovera poi Max Weber fra i “nostri contemporanei” innanzitutto per aver formulato il concetto di carismaticità: in un’epoca caratterizzata dalla “politicizzazione di massa”, la politica deve imparare a controllare la forza “ottusa ed autoritaria” della burocrazia, e per farlo deve divenire “carismatica”, cioè poggiare sulle virtù “sacre”, “eroiche”, “esemplari” di un capo. Per Weber, quindi, “negli Stati di massa” il cesarismo è inevitabile, ma accanto al motivo della carismaticità, lo scienziato politico tedesco non rinuncia a porre la centralità del Parlamento, investito di una duplice funzione: da una parte terreno, attraverso la lotta politica, di selezione della classe dirigente (e in particolare dei capi carismatici), dall’altra strumento di controllo del potere burocratico.
Attraverso il concetto di “educazione” delle masse (attraverso non solo la scuola, ma anche istituti sociali e sindacali o provvedimenti legislativi), Benedetto Croce pone invece, secondo Ciliberto, due obiettivi alla politica: rinsanguare le fila dell’aristocrazia (intesa in senso intellettuale) e favorire la maggiore comprensione di massa delle posizioni e delle teorie elaborate dalle élites politiche. Croce è un liberale, ma sa apprezzare la funzione “positiva” che la democrazia ha nel costringere il liberismo a non rinchiudersi nelle “alte vette” delle concezioni del mondo e a scendere sul terreno della concretezza. Infine, egli, pur essendo legato alla classica visione liberale della politica, come invenzione e creazione personale, concede ai partiti, forse perché influenzato da Weber, la funzione di strumenti delle personalità per forgiarsi come capi e perseguire i fini politici ed affermare i valori etici dichiarati.
Come Weber, anche Gramsci coglie la centralità della “carismaticità” nel mondo contemporaneo, ma muovendosi su prospettive diverse. Al capo carismatico borghese va, quindi, sostituito il “moderno principe”, l’intellettuale collettivo rappresentato dal partito politico della classe operaia. Per il dirigente comunista italiano, il capo carismatico “deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità”. Questi soggetti collettivi, composti dai nuovi “intellettuali organici” del moderno proletariato, possono svolgere una funzione di direzione politica solo se entrano in un rapporto vivo con le masse che intendono rappresentare (Ciliberto usa i termini “sentire”, “sapere” e “comprendere”), evitando da una parte il “codismo”, dall’altra il settarismo: infatti, “l’elemento popolare ‘sente’, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale ‘sa’, ma non sempre ‘comprende’ e specialmente ‘sente’…”. Solo in questo modo il rapporto di rappresentanza non genera la passività delle masse.
Proviamo, quindi, a fare un primo punto: per Ciliberto, l’elemento – ancora di estrema attualità – che accomuna tutti gli autori fin qui esposti, pur nei differenti e divergenti percorsi, idee, prospettive e possibili soluzioni, risiede nella critica al dispotismo democratico di separare gli individui, di renderli politicamente deboli tanto da ridurli (come dice Tocqueville) a “servi”. Anzi, questo isolamento individuale è il brodo di coltura del dispotismo democratico. Senza ricostruire questi legami non è possibile riannodare il filo che lega la triade democrazia-libertà-uguaglianza. Pertanto, la ricostruzione di questi legami è il punto di partenza di ogni posizione politica anti-dispotica.
Prima parte di
La democrazia dispotica secondo Michele Ciliberto
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Titolo: La democrazia dispotica
Autore: Michele Ciliberto
Editore : Laterza, Roma-Bari, 2011
Prezzo: €. 18,00
ISBN 978-88-420-9464-7
Formato: ePub con DRM – richiede Adobe Digital Editions
Editore: Laterza (collana Ebook Laterza)
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Prezzo: € 10,99
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