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Solidarietà anche come lavoro

Mario Giro, l’oramai ex-Viceministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale non ha mancato occasione di ribadire nei vari incontri pubblici, come nell’incontro “Cooperazione internazionale – Il nostro futuro nel mondo” all’Università Roma Tre del novembre 2017, che il Terzo settore è l’ambito lavorativo del futuro.

Un’affermazione confermata da Gentiloni durante la Conferenza Nazionale della Cooperazione allo Sviluppo (Auditorium Parco della Musica, 24 – 25 gennaio 2018).

Oltre il 10% della popolazione è impegnata nel sociale, per non lasciare solo il prossimo, e gran parte di queste persone sono organizzate in associazioni, rappresentando il 4% del Pil.

Su questi presupposti si può comprendere come l’aiuto al prossimo possa rappresentare non solo un impegno del volontariato, ma anche un’ipotesi di lavoro anche nell’ambito della Cooperazione Internazionale che non può essere racchiusa nello slogan “Aiutiamoli a casa loro”, ma usato come titolo della puntata di PresaDiretta di lunedì 29 gennaio 2018 su Rai Tre, “Aiutiamoli a casa loro”, nella quale si afferma che l’Italia ha stanziato nel 2016 quasi 5 miliardi per sostenere progetti in gran parte nei paesi africani, distribuiti all’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e ai vari progetti presentati dalle diverse organizzazioni.

Fondi che annualmente sono stanziati non solo dall’Italia, per “Aiutarli a casa loro”, ma anche dagli altri paesi “industrializzati”, secondo le loro possibilità e generosità. Una pratica che per il Center for Global Development, con il documento Deterring Emigration with Foreign Aid, fa sorgere una domanda: “can development assistance deter emigration?” (l’assistenza allo sviluppo può scoraggiare l’emigrazione?) dandosi la risposta negativa basata su di un’analisi economica, basata sull’assioma: ho qualcosa e voglio di più.

L’economista africana Dambisa Moyo già nel 2011 aveva portato sul banco degli imputati la pratica degli aiuti nei libri “La follia dell’occidente” e “La carità che uccide”, perché foraggiavano la corruzione invece di portare benessere alle popolazioni.

Non basta inviare soldi, bisogna sapere cosa si vuol fare per rendere meno disagevole vivere in comunità con scarsità d’acqua potabile e difficile accesso all’istruzione, bisogna poter seguire i progetti e intervenire nei casi di improvvise difficoltà come la sostituzione di una parte meccanica o il mancato corso di formazione.

È necessario non far cadere dall’alto gli “aiuti”, ma lavorare con la popolazione per conoscere le difficoltà e le loro aspirazioni, varando dei progetti condivisi.

Realizzare delle strutture produttive può essere un primo passo, ma non può evitare la migrazione se sono in atto conflitti o carestie e pacificare le aree sul condividere la terra e l’acqua.

Ma per ora un terzo dei miliardi italiani vengono utilizzati per la cosiddetta accoglienza nei vari centri d’identificazione (Cara, Cas, Sprar) e alle cooperative che dovrebbero garantire dei posti letto, un’assistenza sanitaria, corsi di italiano e fornire del denaro per le piccole spese (pocket money).

Un’accoglienza organizzata, con risorse pubbliche, piramidalmente, ben diversa da quella fornita da organizzazioni come la Caritas Italiana, il Centro Astalli e la Comunità di Sant’Egidio, per limitarsi a quelle più conosciute, che non si limitano ad offrire assistenza ai profughi, ma anche alle persone in povertà, anzi alcune sono nate proprio per dare supporto agli indigenti italiani per poi soccorrere anche lo “straniero”.

Organizzazioni, Comunità di sant’Egidio e Caritas, che occupano anche un posto nell’intervento all’estero, tanto da essere impegnate anche nell’ambito diplomatico tra fazioni belligeranti.

La Comunità di sant’Egidio è anche tra i promotori, insieme ad alcune chiese protestanti, dei canali umanitari che il Ministero degli affari esteri ha sponsorizzato, un’iniziativa che potrebbe subire le prospettive individualistiche del prossimo governo.

Il panorama del Terzo Settore è ricco di esempi di solidarietà, dove il volontariato occupa una posizione fondamentale, perché altrimenti non si potrebbe portare aiuto a costi bassi.

Ogni organizzazione, grande o piccola, ha un gruppo di “impiegati”, alcuni collaboratori e tanti volontari. Più grandi sono le organizzazioni e più è difficile il controllo sulla moralità dei componenti, come recenti notizie stanno portando alla luce, diventando per alcuni un vero lavoro, mentre per altri una missione.

Amref Health Africa è impegnata a formare medici e personale sanitario sul luogo, mentre altre organizzazioni internazionali come: The Save the Children, Medici Senza Frontiere Italia o Oxfam, si adoperano per proteggere l’infanzia, garantire le cure mediche o colmare le diseguaglianze. Emergency realizzando ospedali in Asia e in Africa, ma interviene anche per garantire in Italia il diritto alla cura per tutti , mentre il CISOM (Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta), oltre a svolgere attività di protezione civile, è presente sui mezzi della Guardia costiera, con un medico e un infermiere, per il soccorso in mare, garantendo l’assistenza ai migranti.

Poi ci sono delle strutture di “supporto” come AGIRE (Agenzia Italiana Risposta alle Emergenze), autore del rapporto 2017 sul Valore dell’aiuto, impegnate a raccogliere fondi e fanno attività di promozione per altre organizzazioni grandi e piccole (ActionAid. Amref. Cesvi. Coopi. Gvc. Oxfam. Sos villaggi bambini Italia. Terre des hommes) e come la Fondazione Magis (Movimento e Azione dei Gesuiti Italiani per lo Sviluppo), che oltre a sostenere l’attività di varie associazioni (Associazione Amici di Deir Mar Musa, Centro Astalli, Compagnia del Perù, CSJ Missioni, Gruppo India, Operazione Africa, etc.), promuove progetti o assiste alle esigenze delle comunità come nella recente emergenza in Kiscina, sperduto villaggio in fondo al Sahel ciadiano, dove le donne hanno avuto necessità di una rete metallica per difendere i loro minuscoli orti dalle bocche voraci dei cammelli.

Organizzazioni umanitarie che intervengono, spesso collaborano con gli organismi dell’Onu (Unicef e Unhcr), nelle crisi per aiutare le persone in emergenza, colpite da conflitti e catastrofi naturali, nonostante le decisioni di Donald Trump di tagliare gli stanziamenti statunitensi.

Anche le prospettive italiane nei confronti della cooperazione e dell’accoglienza non appaiono rose con un possibile Governo che perseguirà una politica di ulteriore chiusura verso flussi migratori e una restrizione ai fondi.

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Africa: le Donne del quotidiano
Le loro Afriche: un progetto contro la mortalità materno-infantile
Africa Solidarietà: il lato nascosto delle banche
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Cibo per molti, ma non per tutti
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Un promemoria sul mondo in conflitto
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Trump: I buchi del Distruttore

 

Il Mondo, dopo un anno dall’elezione di Trump a presidente della nazione leader, ha subito dei cambiamenti geopolitici, prospettando per gli Stati uniti una incredibile retrocessione.

Il presidente si è dato molto da fare nel distruggere l’eredità di Obama che lo ha preceduto, senza limitarsi alle innovazioni nella politica interna, definito dalla BBC US government shutdown: How did we get here again? uno “scontro tra bande” che dalla disputa sulla sanità e il clima ha coinvolto non solo la situazione migrante islamica ma che con i Dreamers è arrivato a coinvolgere lo shutdown nel confronto politico nell’era dell’amministrazione Trump, anche nel rapporto con le altre nazioni.

Con Obama il rapporto con islam era in evoluzione e con l’accordo sul nucleare iraniano aveva contrariato i paesi arabi sunniti e gli israeliani, mentre con i russi era un muro contro muro, ma tutto era delineato senza ambiguità.

Un panorama confuso se non nel fatto che tutto sembra ricondurre ad una forte volontà di svolgere il tradizionale ruolo di veditore di armi, ma anche in quest’ambito non sembra fare grandi affari se la Turchia, secondo esercito della Nato, preferisce fornirsi di sistemi missilistici russi, come anche i sauditi, riuscendo a mettere in crisi, non solo con le sue dichiarazioni “isolazioniste”, il rapporto con gli aderenti all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Con l’enunciazione della sua personale dottrina nucleare basata sulle mini bombe, capaci di scatenare tsunami radioattivi si disattiva l’impegno di Obama contro la proliferazione nucleare e la Russia risponde con un missile dalla traiettoria “imprevedibile”.

Trump è ambivalente nel suo lusingare la Turchia e armare i curdi, rafforzare i legami con i sauditi senza rinunciare ai rapporti con il Qatar, dichiara Gerusalemme capitale di Israele facendo infuriare i paesi islamici, andando incontro alle critiche dell’Onu e ai rimproveri degli alleati europei.

Con il mancato blocco degli insediamenti ebraici Trump fa sospettare il reale disinteressa di Israele per i colloqui di pace con i palestinesi.

Il presidente statunitense sta creando dei buchi nella politica estera che la Russia, la Cina e la Turchia si stanno impegnando a colmare, creando delle alleanze ambivalenti. Tanto ambivalenti che hanno portato la Turchia a chiedere il permesso alla Russia per intervenire nella zona siriana di Afrin per cacciare i curdi con l’operazione “ramoscello d’ulivo”, mentre i curdi trattano con Damasco per arginare l’avanzata turca in Siria e Trump sta a guardare gli alleati che si rivolgono agli avversari per risolvere un conflitto atavico, mentre Bashar Assad rade al suolo Ghouta Est alla periferia della capitale siriana.

Una resa dei conti “incrociati”, con alleanze variabili che nascono e muoiono sul batter di un interesse.

Un presidente impegnato, con lo sfilarsi dall’accordo di Parigi sul clima, nell’attivare le miniere di carbone, dare autorizzazioni di trivellazione ovunque si ritiene utile, che vuol completare i lavori dell’oleodotto progettato per transitare sul territorio della riserva dei nativi americani nel North Dakota.

Periodicamente lancia messaggi di distensione per un possibile rientro nell’accordo sul clima di Parigi, per poi manifestare tutto il suo scetticismo sui cambiamenti climatici, come sulle tematiche dell’evoluzionismo e creazionismo.

Mentre la Cina diventa il capofila per l’impegno ambientalista e rafforza la sua presenza in Africa. Un continente quello africano che ha colto interesse turco. La Turchia gareggia con la Russia e l’Iran anche per un posto d’onore nello scacchiere mediorientale.

Un presidente che appare confuso senza una chiara politica economica che probabilmente ha portato la “Trumphoria” a sbattere contro il muro delle fluttuazioni finanziarie, conducendo alla crisi dei mercati e al ridimensionamento della crescita, con la fine dell’era del denaro a poco, in attesa di un’impennata nei tassi di interesse.

All’interno della stesso staff non mancano i contrasti come in occasione dei dazi promossi da Trump sull’acciaio e l’alluminio senza confrontarsi con i suo consigliere economico, come aveva fatto in precedenza con altri consiglieri sui più disparati ambiti.

Trump è un presidente che si muove senza alcuna remore, creando non solo scompiglio e sconcerto tra gli avversari, ma anche tra alleati e collaboratori.

È probabile che Trump potrà fare “meglio”, nel peggio, del presidente Zuma nel distruggere il miracolo sudafricano e rendere gli Stati uniti soli.

 

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Qualcosa di più:
Trump: un confuso retrogrado
Trump Il commesso viaggiatore tra i sauditi e gli israeliani
Trump: un elefante nella cristalleria del Mondo
Trump: un uomo per un lavoro sporco
Trump: Quando l’improbabile è prevedibile

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Africa: senza infrastrutture crescerà l’emigrazione

4 dicembre 2017

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Cambiamenti climatici, mancanza di acqua, avanzamento dei deserti, impoverimento dell’agricoltura. Non sono soltanto argomenti per dibattiti politici o accademici ma questioni reali che determinano la vita di intere popolazioni. Europa compresa. Per i paesi poveri, soprattutto dell’Africa, sono causa di emigrazione. E in Italia sappiamo bene che c’è un legame stretto tra sottosviluppo ed emigrazione. Oggi lo vivono fortemente i paesi del sud del mondo. Cento anni fa, cinquanta anni fa è stata la piaga che aveva colpito tutte le nostre regioni. E, purtroppo, lo sta diventando anche oggi. Possibile che non abbiamo imparato nulla dalla storia? Eppure alcuni interventi virtuosi potrebbero aiutare ad affrontare alla radice le cause della povertà e delle migrazioni incontrollate. Invece si spende solo per le situazioni di emergenza.

Al riguardo, recentemente si è tenuto a Roma il summit internazionale «Water and Climate: Meeting of the Great Rivers of the World – L’acqua e il clima: incontro sui Grandi Fiumi del Mondo», organizzato dal nostro governo insieme alla Commissione Economica per l’Europa dell’Onu. Con una partecipazione di oltre 100 esperti provenienti da 48 paesi, esso ha offerto una grande opportunità di confronto e di scambio di esperienze. Nel mondo vi è una crescente scarsità d’acqua che sta creando tensioni sulla sua ripartizione e sul suo futuro utilizzo. Ciò accade ancor di più, dove fiumi, laghi e riserve d’acqua interessano dei bacini che coinvolgono vari paesi e differenti confini. Possono diventare anche cause di conflitti e di terrorismo.

A livello internazionale non manca un principio guida, ma un effettivo processo di dialogo. Tali situazioni, invece, potrebbero essere opportunità di nuove e più efficaci politiche di collaborazione. Il summit di Roma è stato un momento importante per confrontare vari progetti tra le organizzazioni che gestiscono i grandi bacini fluviali e lacustri del pianeta. Uno di questi, forse il più importante ed emblematico, è quello della regione del Lago Ciad, in Africa. Sull’argomento è intervenuto il presidente del Consiglio dei ministri, Paolo Gentiloni, che correttamente ha evidenziato «la vicenda del lago Ciad che alimenta un bacino di settanta milioni di persone, in diversi paesi, la cui crisi gravissima negli ultimi decenni ha provocato effetti notevoli. Si calcolano due milioni e mezzo di persone sfollate in quel bacino». Ci sono persino relazioni evidenti tra la crisi idrica del lago Ciad, la destabilizzazione socioeconomica e l’emergere di minacce terroristiche in alcune di quelle regioni.

Abdullahi Sanussi

L’intervento è stato apprezzato da Sanussi Abdullahi, segretario esecutivo della Commissione per il Bacino del Lago Ciad (Lcbc), che, parlando di progetti di trasferimento idrico, ha ricordato che fu l’impresa italiana Bonifica del Gruppo Iri a sviluppare più di quarant’anni fa il progetto «Transaqua – Un’idea per il Sahel» per evitare il prosciugamento del lago e la sua progressiva trasformazione in deserto. Esso prevedeva la costruzione di un canale navigabile di 2.400 km che dal fiume Congo portasse acqua dolce fino al Lago Ciad. Lungo il suo percorso beneficerebbero molti paesi e popolazioni con effetti positivi sullo sviluppo agricolo, sulla produzione di energia pulita ed anche per nuovi insediamenti urbani sostenibili.

Riteniamo interessante il fatto che la succitata Commissione abbia già concluso un accordo con il colosso cinese delle progettazioni e costruzioni infrastrutturali «PowerChina» per un’ulteriore verifica della fattibilità del progetto, a cui partecipa anche la nuova impresa Bonifica che è subentrata alla vecchia società del soppresso Iri. La Commissione sta cercando altri sostegni e partecipazioni per assicurare che il programma sia economicamente fattibile e sostenibile anche a livello finanziario e politico. Il progetto potrebbe fungere da catalizzatore per altri programmi pan-africani, che colleghino l’Africa centrale all’Africa occidentale, e al Sahel, generando occasioni di sviluppo agroindustriale.

Un secondo progetto di rilevanza strategica è quello riguardante il lago salato Chott el Jerid, interno alla Tunisia. È in una zona minacciata dall’avanzamento del deserto. L’idea, vecchia di quasi 150 anni, sarebbe di costruire un canale navigabile che lo colleghi al Mediterraneo, distante circa 25 km. Così le acque, fluendo lungo il canale, andrebbero a riempire il bacino lacustre, realizzando il sogno di un mare nel deserto. Si calcola che il conseguente sviluppo agro-industriale, turistico e abitativo potrebbe creare fino a 50 mila nuovi posti di lavoro.

Finanziare questi due grandi progetti sarebbe il modo più serio, più utile ed efficace di “aiutarli a casa loro”. Altrimenti la crisi migratoria continuerà a mietere vittime innocenti con la gravissima perdita di energie umane e produttive per i paesi di loro provenienza. Sarebbe bello se l’Italia riuscisse a diventare la guida per l’Europa di tali concrete politiche di sviluppo.

In testata: Il lago Ciad oggi. L’acqua si sta ritirando e la forte salinità del suolo rende difficile la vita sulle aree che restano allo scoperto. Foto OUALID KHELIFI/UNHCR

su Frontiere
Articolo originale

Migrazione: L’ipocrisia sovranazionali

L’Onu rimprovera l’Unione europea, giudicando “disumana” la cooperazione con la Libia per la gestione dei flussi dei migranti. Precedentemente era il Consiglio d’Europa a chiedere chiarimenti a Roma sugli accordi con la Libia nella gestione dei flussi migratori, il ministro dell’Interno Marco Minniti cerca di rassicurare il Commissario europeo per i diritti umani Nils Muiznieks, affermando di vigilare sul reale rischio di tortura o trattamenti inumani, mentre l’inesistente responsabile della Farnesina Alfano che cerca di tranquillizzare l’Onu volando a New York e il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani risponde indirettamente all’Onu programmando l’invio di una delegazione per verificare cosa sta accadendo.

Critiche all’Italia dopo aver lodato il suo impegno nel Mediterraneo e nell’accoglienza, nonostante la latitanza dell’Ue, oltre ad segnare il progetto dei corridoi umanitari, gestiti da comunità cristiane, come soluzione per la regolamentazione dei flussi migratori, ma ancora nessuno ha sviluppato un’iniziativa finanziata totalmente dalle associazioni, soprattutto con i fondi dell’8%, che li hanno promossi.

Le “scandenti” condizioni nei campi di “raccolta” dei profughi in Libia erano già note tanto da spingere l’Onu ad aprire un centro di transito per i profughi mentre da più parti si era chiesto l’intervento delle Ong, precedentemente accusate di essere in combutta con i trafficanti di esseri umani, nella gestione dei centri.

La confusione è tanta e pensare che solo poco tempo fa l’Onu aveva offerto ai sauditi un posto nella difesa dei Diritti umani! Precedentemente anche la Libia di Gheddafi aveva avuto l’onore di fregiarsi del titolo di difensore dell’umanità, ma d’altronde nel club di Diritti umani sono presenti anche gli Stati Uniti che della pena di morte sono grandi fautori.

Istituzioni sovranazionali che si mostrano, nel migliore delle ipotesi, confuse, appannate nel giudizio, senza una deontologia aperta al Mondo e non ostaggio degli equilibri variabili di un edificio di vetro che simula la trasparenza delle scelte.

Affidare, in piena solitudine, ad una nazione di rapportarsi con un paese senza un unico governo riconosciuto con il quale trattare è da folli o forse da saltimbanchi della diplomazia, con un ministro degli Affari Esteri latitante, specialmente quando appaiono e scompaiono altri “giocatori” per minare gli sforzi italiani e fare i propri interessi, senza guardare in faccia che siano alleati, amici o cugini.

L’accordo italo-libico si è sviluppato in mille rivoli, quante sono le realtà governative “nazionali” e locali della Libia, non sempre cristalline: un po’ come la strategia diplomatica francese che non si allinea alle posizioni dell’Unione europea e agli sforzi italiani.

Gli interessi francesi vanno ben oltre ai Diritti quando c’è fare business, come la Ue, giustificando le chiusure delle frontiere ai profughi con lo sbandierare l’intento di perseguire una politica europea sui flussi migratori.

Una Francia più propensa a concorrere solitaria che a concordare con la Ue un dialogo con l’Africa, come dimostra il viaggio di Macron e Gentiloni si adegua per non trovarsi impreparato al summit Africa Europa.

Un vertice, quello Africa-EU Summit 2017, che ha affrontato, tra il 28-29 novembre ad Abidjan (Costa d’Avorio), vari i temi: commerci, cooperazione allo sviluppo, alla sicurezza, ambiente, relazioni diplomatiche, ma soprattutto la gestione delle migrazioni, oltre che il terrorismo, definendo i ruoli per salvare, così afferma Federica Mogherini, Alto Rappresentante Ue per la politica estera, dall’infero libico tutte quelle persone bloccate nei centri di detenzione: i paesi africani si dovranno impegnare ad accogliere i concittadini e l’Europa a finanziare i rimpatri.

L’Alto Rappresentante Ue per la politica estera ha anche affermato che la tragica situazione dei profughi in Libia era precedente agli accordi che la Ue e l’Italia hanno stipulato con le diverse situazioni politiche libiche.

Flussi migratori che sono anche nei pensieri del governo della Costa d’Avorio che ha “arruolato” rockstar e calciatori per dissuadere i giovani ivoriani, i Millennials che vanno di fretta, la cosiddetta «Génération pressée pressée», a non migrare e soprattutto a non utilizzare i barconi della morte. Non è solo un suicidio, ma si rischia di «fare gli schiavi a Tripoli».

L’Unione europea, oltre alla migrazione, dovrà, prima o poi, affrontare anche l’espansione cinese nel continente africano e il proselitismo turco.

Immediatamente dopo il summit euro-africano ecco il Rome MED – Mediterranean Dialogues (30 novembre al 2 dicembre 2017), con la partecipazione di esponenti di governo e rappresentanti di organismi internazionali, oltre che di società, ad essere un’altra occasione per confrontarsi sui temi della sicurezza e della migrazione.

Il Dialogo mediterraneo è servito al vicepremier libico Ahmed Maitig a minimizzare le polemiche sull’accordo firmato con l’Italia sulla migrazione e rilanciandolo come modello per altri paesi europei, perché la Libia cerca altri partner, scherza sula competitività italo-francese nel tessere duraturi rapporti economici, ma guardando il filmato della Cnn sulla compravendita delle persone non si può dimenticare che la Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del ’51.

D’altronde quanti altri paesi dell’area MENA (Middle East and North Africa – Medio Oriente e Nord Africa)? Certamente non i paesi della penisola arabica o gli iracheni, iraniani e siriani.

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Migrazione: Non bastano le pacche sulle spalle

Per anni l’Europa non ha mostrato interesse alla questione migratoria che coinvolgeva le “frontiere” del Mediterraneo, poi sono cominciati i rimproveri per il poco impegno italiano nello schedare e nel non riuscire a tenere quei fuggitivi in Italia, nel rispetto della convenzione di Dublino, ma solo da poco si è inaugurata l’era delle pacche sulle spalle, dei ringraziamenti per il lavoro svolto.

Ora però sarebbe opportuno andare oltre la semplice rassicurazione del presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker nell’affermare che l’Italia può “continuare a contare sulla solidarietà europea” sul fronte della crisi dei migranti.

Un piccolo passo è stato compiuto da Macron, europeista e sovranista, con la sua critica ai paesi dell’est che hanno confuso l’Unione europea come un emporio dove fare la spesa senza pagare la merce acquistata, mostrando cinismo nel trattare la questione dei rifugiati.

Il presidente francese pone comunque dei distinguo tra i profughi dalle violenze e quelli della carestie, come se morire di fame e sete non fosse una violenza pari a quella di trovarsi vittime di conflitti, solo per ribadire, come aveva fatto Hollande, che la Francia si attiene al nuovo trigono del motto della Rivoluzione francese in “Liberté, Égalité, Telibecchitè”, trovando la Fraternité obsoleta, chiudendo da tempo le frontiere.

Con il vertice di Parigi tra Italia, Francia e Germania, il ministro degli interni italiano ha posto la questione di un codice per le Ong impegnate nel Mediterraneo, oltre ad indirizzare le navi su altri porti per lo sbarco dei migranti ed a maggiori pressioni sui paesi europei non impegnati nella ricollocazione.

Un vertice quello parigino che si è posto come preparatorio a quello del G20 a Amburgo, ma soprattutto all’incontro informale dei ministri dell’Interno dell’Unione a Tallinn per superare le minacce italiane di chiudere i porti italiani alle navi straniere, con una revisione del Trattato di Dublino.

Mentre l’Italia minaccia la chiusura dei porti, Francia e Spagna, insieme ad altri paesi che non si affacciano sul Mediterraneo, sprangano i loro approdi e l’Austria mette in scena un spot elettorale, poi rientrato, con il voler schierare i blindati sulla frontiera del Brennero, come dimostrazione di tanta ammirazione e empatia per lo sforzo italiano.

Anche l’avvertimento del commissario alla Migrazione Dimitris Avramopoulos sul “Ricollocarli o ci saranno sanzioni” gridata contro l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca, pronto a proporre l’apertura di procedure d’infrazione, rimane solo una vaga minaccia.

A Berlino, al vertice preparatorio del G20, il primo ministro italiano Paolo Gentiloni ringrazia “i leader per la solidarietà e la comprensione per le difficoltà che dobbiamo affrontare in comune”, ma aggiunge anche che dopo tante espressioni di solidarietà è ora di passare ad un aiuto più concreto.

Il concreto aiuto che l’Italia si aspetta, viene specificato dal ministro degli interni Marco Minniti, in un maggiore coinvolgimento europeo nell’ospitalità dei profughi e nell’impegno di guardare all’Africa come soluzione e non come fonte del problema. Minniti all’incontro di Tallinn non ha commosso nessuno e vedere l’Africa come una risorsa rimane difficile con una Libia ufficialmente divisa in due governi e centinaia di tribù e milizie, oltre al fatto che la Cina si è radicata proprio negli stati africani da dove proviene gran parte della migrazione.

La Cina ha fatto dell’Africa, in questi ultimi decenni, un suo territorio d’oltre oceano, con gli enormi scambi di dare avere che difficilmente portano del benessere alle popolazioni native che continuano a migrare, anche per la cessione dei terreni più fertili alle compagnie cinesi, oltre ai conflitti per territori e ricchezze.

Tra pacche sulle spalle, tante parole d’incoraggiamento, ma soprattutto risatine di arroccamenti europei e porte chiuse, interviene Emma Bonino affermando che siamo stati noi a offrire i nostri porti, nell’ambito dell’operazione europea Triton, per gli sbarchi, ed ora è complicato disfare quell’accordo.

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